Mentre così pregava il pazïente
Divino Ulisse, dal vigor de' muli
Portata era Nausica alla cittade.
Giunta d'Alcinoo alla magion sublime,
S'arrestò nel vestibolo; e i germani,
Belli al par degli Eterni, intorno a lei
D'ogni parte venìan: sciolsero i muli,
E le vesti recaro entro la reggia.
Ma la fanciulla il piede alla secreta
Movea sua stanza: e raccendeale il foco
Eurimedusa, una sua vecchia fante,
Nata in Epiro, e su le negre navi
Condotta, e al prode Alcinoo offerta in dono
Perché ai Feaci ei comandava, e lui,
Qual se un dio favellasse, udìan le genti.
Costei Nausica dal braccio di neve
Rallevò nel palagio, ed ora il foco
Raccendeale, e mettea la cena in punto.

Ulisse intanto sorse, e il cammin prese
Della città. Ma l'Atenéa Minerva,
Che da lui non torcea l'occhio giammai,
Di molta il cinse impenetrabil nebbia,
Onde nessun Feace o di parole,
Scontrandolo, il mordesse, o il domandasse
Del nome e della patria. Ei già già entrava
Nell'amena città, quando la diva
Gli occhi cerulea, se gli fece incontro,
Non dissimile a vergine, che piena
Sul giovinetto capo urna sostenti.
Stettegli a fronte in tal sembianza, e Ulisse
Così la interrogava: "O figlia, al tetto
D'Alcinoo, che tra questi uomini impera,
Vuoi tu condurmi? Io forestier di lunge,
E dopo molti guai venni, né alcuno
Della città conobbi, o del contorno".

"Ospite padre", rispondea la diva
Dai glauchi lumi, "il tetto desïato
Mostrar ti posso di leggier; ché quello
Del mio buon genitor per poco il tocca.
Ma in silenzio tu seguimi e lo sguardo
Non drizzare ad alcun, non che la voce.
Render costoro agli stranieri onore
Non sanno punto, né accoglienze amiche
Trova, o carezze qui, chi altronde giunga.
Essi, fidando nelle ratte navi,
Per favor di Nettuno il vasto mare
In un istante varcano: veloci
Come l'ale o il pensier sono i lor legni".

Dette tai cose, frettolosa Palla
Gli entrava innanzi, e l'orme ei ne calcava.
Né i Feaci scorgeanlo andar tra loro:
Così volendo la possente diva,
Pallade, che al suo ben sempre intendea,
E di sacra l'avvolse oscura nube.
Ulisse i porti e i bei costrutti legni
Maravigliava, e le superbe piazze,
Ove i prenci s'assembrano, e le lunghe,
Spettacolo ammirando, eccelse mura
Di steccati munite e di ripari.
Ma non prima d'Alcinoo alle regali
Case appressaro, che Minerva disse:
"Eccoti, ospite padre, in faccia il tetto
Che mi richiedi: là vedrai gli alunni
Di Giove, i prenci, a lauta mensa assisi.
Cacciati dentro, e non temer: l'uom franco
D'ogni difficoltate, a cui s'incontri,
Meglio si trae, benché di lunge arrivi.
Pria la Regina, che si noma Arete,
E comun con Alcinoo il sangue vanta,
Ti s'offrirà alla vista. Il dio che scuote
Del suo tridente la terrena mole,
Un bambin ricevé dalla più bella
Donna di quell'età, da Peribèa,
Figlia minor d'Eurimedonte, a cui
De' Giganti obbedìa l'oltracotata
Progenie rea, che per le lunghe guerre
Tutta col suo re stesso al fin s'estinse.
Nettun di lei s'accese, e n'ebbe un figlio,
Nausìtoo generoso, il qual fu padre
Di Ressènore e Alcinoo; e sul Feace
Popol regnava. Il primo, a cui fallìa
Prole del miglior sesso, avea di poco
Nella sua reggia la consorte addotta
Che Apollo dall'argenteo arco il trafisse;
Né rimase di lui che una figliuola,
Arete, e questa in moglie Alcinoo tolse,
E venerolla fieramente: donna
Non vive in nodi maritali stretta,
Che sì alto al suo sposo in mente sieda.
E in gran pregio non men l'hanno, ed amore
Portanle i figli, e i cittadini ancora,
Che a lei, quandunque va per la cittade,
Gli occhi alzan, come a diva, e con accenti
Festivi la ricevono; ché senno
Né a lei pur manca vêr chi più tien caro,
E le liti non rado ella compone.
Se un loco prender nel suo cor tu sai,
La terra, dove i lumi apristi al giorno,
La magion de' tuoi padri, e degli amici
I noti volti riveder confida".

Detto, la dea, ch'è nelle luci azzurra,
Su pel mare infruttifero lanciossi.
Lasciò la bella Scheria, e Maratona
Trovò, ed Atene dalle larghe vie,
E nel suo tempio entrò, che d'Erettèo
Fu ròcca inespugnabile. Ma Ulisse
All'ostello reale il piè movea,
E molte cose rivolgea per l'alma,
Pria ch'ei toccasse della soglia il bronzo:
Ché d'Alcinoo magnanimo l'augusto
Palagio chiara, qual di sole o luna,
Mandava luce. Dalla prima soglia
Sino al fondo correan due di massiccio
Rame pareti risplendenti, e un fregio
Di ceruleo metal girava intorno.
Porte d'ôr tutte la inconcussa casa
Chiudean: s'ergean dal limitar di bronzo
Saldi stìpiti argentei, ed un argenteo
Sosteneano architrave, e anello d'oro
Le porte ornava; d'ambo i lati a cui,
Stavan d'argento e d'ôr vigili cani:
Fattura di Vulcan, che in lor ripose
Viscere dotte, e da vecchiezza immuni
Temperolli, e da morte, onde guardato
Fosse d'Alcinoo il glorïoso albergo.
E quanto si stendean le due pareti,
Eranvi sedie quinci e quindi affisse,
Con fini pepli sovrapposti, lunga
Delle donne di Scheria opra solerte.
Qui de' Feaci s'assideano i primi,
La mano ai cibi ed ai licor porgendo,
Che lor metteansi ciascun giorno avante:
E la notte garzoni in oro sculti
Su piedistalli a grande arte construtti,
Spargean lume con faci in su le mense.
Cinquanta il re servono ancelle: l'une
Sotto pietra rotonda il biondo grano
Frangono; e l'altre o tesson panni, o fusi
Con la rapida man rotano assise,
Movendosi ad ognor, quali agitate
Dal vento foglie di sublime pioppo.
Splendono i drappi a maraviglia intesti,
Come se un olio d'ôr su vi scorresse.
Poiché quanto i Feaci a regger navi
Gente non han che li pareggi, tanto
Valgon tele in oprar le Feacesi,
Cui mano industre più che all'altre donne
Diede Minerva, e più sottile ingegno.

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