La storia dei tatuaggi.

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La storia dei tatuaggi parte dalla testimonianza più antica del loro utilizzo: siamo nel 1991, quando alcuni scienziati ritrovano, sulle Alpi Otzalet, al confine tra Austria e Italia, il corpo congelato di un uomo che vissuto oltre 5300 anni fa – chiamato Uomo di Similaun – che mostra evidenti incisioni riconducibili ad una forma di tatuaggio a scopo terapeutico, ad esempio per lenire i dolori di alcune ferite.

Anche nell'antico Egitto si hanno prove dell'esistenza di tale pratica e di un suo sviluppo attraverso i ritrovamenti delle pitture funerarie che mostrano donne, probabilmente danzatrici, dai corpi tatuati; gli stessi tatuaggi sono stati rinvenuti su alcune mummie femminili risalenti al 2000 a.C.

Nell'antica Roma la pratica di tatuarsi il corpo venne vietata dall'Imperatore Costantino, dopo la conversione al Cristianesimo, perché ritenuta impura e peccaminosa sebbene i credenti avessero l'abitudine di imprimere sulla propria pelle simboli religiosi come la croce, proprio per mostrare e sottolineare la propria fede. Il tatuaggio era comunque utilizzato per marchiare gli schiavi con le lettere dei loro padroni e per ghettizzare criminali e condannati.

In seguito i soldati romani, durante le battaglie contro i britannici (che usavano tatuarsi come segno distintivo del proprio onore in guerra), ripresero la pratica di tatuarsi il corpo come segno di forza e virtù. Ma nel 787 d.C. Papa Adriano proibì l'uso del tatuaggio, e dopo le crociate (durante le quali ancora si vedevano tatuaggi nei corpi dei crociati: la croce di Gerusalemme che in caso di morte in battaglia permetteva il riconoscimento del soldato di Dio), la pratica del tattoo scompare dall'Europa, ma continua comunque a proliferare indisturbata nel resto del mondo.

Quando, all'inizio del 1700, i marinai europei sbarcano sulle isole del Sud e Centro Pacifico scoprono popolazioni indigene per le quali il tatuaggio aveva una forte valenza simbolica; segnava il assaggio all'età adulta nelle donne, rimarcava la forza e l'onore negli uomini e, a seconda del disegno, rappresentava un diverso stato d'animo.

Anche in Giappone la pratica del tatuaggio è molto radicata, sia con un scopo puramente estetico che con valenze sovrannaturali, oltre ad essere molto utilizzata dalle bande criminali come segno di appartenenza. Questa usanza si è sviluppata nell'antico Giappone anche a causa di imposizioni che vietavano agli appartenenti al rango sociale più basso di indossare i kimono colorati: questi, allora, per ribellarsi a quello che era un divieto di stampo razzista, incominciarono a tatuarsi il corpo con enormi e coloratissimi disegni.

È nel 1798 che James Cook, osservando le usanze della popolazione di Tahiti, trascrive per la prima volta la parola Tattow (in seguito tattoo), dall'onomatopeico "tau-tau", che ricordava il suolo dell'ago che picchiettava sul legno prima di bucare la pelle.

Altra data significativa nella storia del tatuaggio è il 1891, anno in cui Samuel O'Reilly inventore statunitense, brevetta la prima macchinetta elettrica per tattoo. In seguito, e sino agli anni '70, i tatuaggi sono visti come marchio a minoranze etniche, carcerati e malavitosi, strettamente correlati a persone dalla dubbia morale.

Ma tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta movimenti quali i bikers, i punk e gli hippie adottano il tattoo come strumento di ribellione ai preconcetti e alla chiusura mentale della società; da qui in poi la pratica del tatuaggio rifiorisce in tutto il mondo, come forma artistica, decorativa ed apprezzata, svincolata finalmente da pregiudizi e discriminazioni. In questo periodo iniziano ad apparire anche in Italia i primi tatuatori professionisti, ad esempio Gian Maurizio Fercioni che a Milano, in Brera, apre il suo Queequeq Tattoo nel 1970.

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