Stile giapponese pt.2

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I tatuaggi giapponesi sono chiamati Irezumi, da "ireru" che significa inserire e "sumi" inchiostro, oppure Horimono, da "horu" inscrivere e "mono" qualcosa. A seconda di quale dei due termini si utilizza per definire un tattoo si ha un'accezione diversa che varia in base al significato e alla classe sociale, i primi avevano connotazione negativa (tattoo punitivi), i secondi nascono come decorazione del corpo.

La pratica del tatuaggio in Giappone ha origini molto antiche, sono state rinvenute rappresentazioni del 5000 a.C. che raffiguravano uomini col volto tatuato con righe e marchi, probabilmente utilizzati per identificare il rango sociale.

Nel VII secolo le grandi influenze cinesi importarono in Giappone l'accezione "malfamata" del tattoo, il quale divenne per lungo periodo un marchio distintivo di condannati e criminali. In seguito diventò anche simbolo dell'amore segreto e passionale, e gli amanti si tatuavano un puntino nero sulle mani che diventava un punto di unione intimo nella famosa "stretta di mano". Anche l'abitudine di tatuarsi in una zona del corpo il nome dell'amato era già comune nell'antico Giappone, ed era conosciuta col nome di Kishibori.

L'uso degli Irezumi scomparve per molto tempo per riapparire nel periodo Edo (1603-1868), detto anche periodo Takugawa, quando venne pubblicata un'opera cinese che raccontava la vita e le avventure di un gruppo di eroi-briganti (Suikoden), dal corpo tatuato; le illustrazioni dell'opera furono di ispirazione per plasmare quelle stupende opere d'arte impresse sul corpo. La caratteristica principale dell'Irezumi era quella di ricoprire una larga parte del corpo: schiena, glutei e metà delle cosce. In quest'epoca i soggetti dei tatuaggi hanno iniziato a prendere spunto dai disegni dei kimoni, da abiti tradizionali da cerimonia e da quelli dei samurai.

I tatuaggi Horimono, come li conosciamo oggi, si sono sviluppati a partire dalla fine dell'800, e hanno vissuto periodi di popolarità alternati a momenti di illegalità

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I tatuaggi Horimono, come li conosciamo oggi, si sono sviluppati a partire dalla fine dell'800, e hanno vissuto periodi di popolarità alternati a momenti di illegalità. I tattoo facevano parte delle abitudini di quella fascia della popolazione detta del "mondo fluttuante", che comprendeva tutti i livelli di popolazione più bassi, come prostitute, giocatori d'azzardo e mafiosi, ma anche commercianti, pompieri e in generale chi svolgeva attività di fatica e non di intelletto; non erano infatti diffusi nell'alta società.

La pratica del tattoo in Giappone è diventata legale solo dopo la fine della II Guerra Mondiale e per molto tempo è stata comunque considerata immorale (un po' come in tutto il mondo); tutt'ora le vecchie generazioni non vedono di buon occhio chi mostra in pubblico i propri tatuaggi, perché ancora relazionati col mondo dei mafiosi.

La tecnica tradizionale dei tattoo giapponesi è chiamata "Tebori", e consiste nell'uso, rigorosamente a mano, di una serie di aghi infilati in una canna di bambù ed intinti nell'inchiostro. Da sempre i tatuatori in Giappone sono considerati veri e propri artisti, e tradizionalmente si sottoponevano ad un apprendistato lungo e rigoroso presso un maestro tatuatore.

Lo stile deriva dall'arte figurativa e implica da sempre un massiccio uso di colori vivaci, sfumature e intrecci di soggetti. Il tattoo giapponese racconta una storia attraverso l'uso delle immagini e le sue combinazioni, ai fini di delineare il carattere di chi lo porta.

 Il tattoo giapponese racconta una storia attraverso l'uso delle immagini e le sue combinazioni, ai fini di delineare il carattere di chi lo porta

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