Prologue

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Le doleva la testa. La sentiva leggera e vuota, come se il suo cervello si fosse improvvisamente mutato in una cassa acustica estremamente rimbombante e, indisturbatamente, qualcuno avesse pizzicato le corde di una chitarra elettrica con troppa violenza. Dormiva da un lasso di tempo imprecisato e continuava a essere perseguitata, e a veder bruciare nella propria mente, alcuni ricordi di vita passata che pensava di aver ormai rimosso da tanto. 

— Victoria... — una voce cantilenante e beffarda risuonava in lontananza. — La mamma ti ha preparato i biscotti al cioccolato!

Questa volta non si sarebbe fatta acciuffare; neanche dalla sua amata madre.

La avvertiva sempre più vicina, insistente, e impaziente.E lei correva per i campi, spensierata e incurante, tentando di mimetizzarsi tra i sottili e umidicci fili d'erba primaverili. Ruzzolò nel terriccio, strascicandosi con delicatezza, nel vano tentativo di non lacerare i suoi pantaloncini di lana bordeaux; cercando di diventare un tutt'uno con il suolo, spalmandosi a terra e imitando il gatto che aveva adottato da poco.

Lo aveva osservato. I suoi occhi puntati in quelli di lui, splendenti come lo smeraldo che la mamma portava all'anulare sinistro. Oliver era in piena caccia, nel bel mezzo del suo agguato più temibile, e si avventava continuamente su di un topolino alquanto irrequieto; con una sola zampata, e, con una delicatezza che denotava concentrazione mistica, mimetizzandosi, lo portava ripetutamente nelle sue fauci e poi lo risputava, punzecchiandolo fino a farlo soccombere. Da ciò ne era derivato un insegnamento ben più utile di quanto immaginasse. 

Sentiva bruciare dentro di sé l'irrefrenabile bisogno di correre per miglia, di tuffarsi in scroscianti rivoli d'acqua, per finire poi ad asciugarsi sotto i dorati e cocenti raggi del sole. 

Continuò a gattonare fin quando non urtò, con il ginocchio, una tagliente e polverosa roccia acuminata. Lanciò un piccolo grido, bloccandosi dopo pochi istanti. Così la mamma l'avrebbe catturata e riportata al cottage; e lei non aveva la benché minima intenzione di affrontare nuovamente le manfrine della nonna. Si sdraiò adagio e senza emettere neppure un sibilo, strinse i suoi denti, sentendo uno scricchiolio fastidioso. Riprese poi a percorrere la via immaginaria che si era disegnata mentalmente per trovare un'uscita e sfuggire allo sguardo impenetrabile della mamma. 

Era giunta ai piedi di una grande quercia, apparentemente secolare, e che sormontava ora, la sua vista. Si mise ad osservarla, sedendosi alla sua base e toccando le venature del suo tronco. Le sue braccia immense si diramavano ondulanti, sovrastandola e puntando l'immenso cielo pastello, come se stesse cercando di abbracciare l'infinito. Puntò i suoi occhi sull'immensa coltre di nubi purpuree in lontananza, pensando a come sarebbe stato bello essere come il cielo, bello e minaccioso in tutte le sue mutevolezze. La natura le era sempre così amica, nonostante le avversità; indubbiamente la sua migliore amica, insieme a Eleanore, la sua beniamina.

— Uno, due, tre... — saltò in piedi, leggermente barcollando per il torpore al ginocchio. 

— ...STELLA! — anche questa volta Eleanore aveva vinto, afferrandola di prepotenza e caricandola sulle sue spalle minute ma sempre capaci di sorreggerla. La stava osservando, come faceva solitamente, per imprimere nella sua testa il suo ricordo, in modo da abbozzarlo successivamente. I suoi capelli corvini e morbidi erano saggiamente intricati in una treccia che le ricordava il grano, agganciati a un fermaglio in legno arabo e intarsiato. 

— Mamma, lasciami, non ci voglio tornare dalla nonna, — esitò per alcuni istanti, imbronciandosi — Mi sgrida continuamente, e le pieghe della sua bocca a volte mi terrorizzano quando inizia ad arrabbiarsi con te e il papà. 

Non c'era verso di farle compassione. Continuava a camminare spedita, con un solo obbiettivo in testa e per di più intonando, appositamente, la solita gracchiante e insopportabile canzoncina gaelica che non riusciva mai a comprendere. 

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