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Papà ha cresciuto me e mio fratello da solo.
Nostra madre, Estelle T. Prescott, se n'è andata che Denny era ancora un ragazzino. Di lei non ho alcun ricordo, solo una foto in cui mi regge in braccio, ma non sorride. Papà non parla mai di lei, credo non l'abbia ancora perdonata.
Papà appoggia il giornale vicino alla colazione, dice: «Ci sarà un po' di lavoro extra, questo mese. La gente vuole tutto pronto per le vacanze. Riesci a fermarti un paio di volte in più?». Me lo chiede così, come se avesse paura che possa dirgli di no. Ci tiene che studi, ma ora che è senza Denny lo vedo che sgobba quattordici, anche sedici ore al giorno.
«Certo», rispondo io. Gli prendo una mano.
Papà mi accarezza i capelli, la faccia improvvisamente seria. Vuole dirmi qualcosa. «La signorina Morehouse», attacca, ma io lo interrompo subito.
«Denny non c'entra niente», gli dico.
Ed era vero. Avrei voluto che la morte di mio fratello c'entrasse, almeno in parte, ma la verità è che io e questo mondo proprio non andavamo d'accordo.
Papà si alza, porta la sua tazza nel lavandino. L'acqua inizia a scorrere. Gira la testa, ha appena avuto un'idea.
Quando arriviamo a scuola, tutti ci stanno osservando. Scendo dalla Fury, che luccica come una stella di metallo avvolta nelle fiamme.
Rita si stacca dal gruppo, è la prima ad avvicinarsi. «Un giorno io e te fuggiremo su quella macchina», mi dice, il ruggito sommesso e lontano della Fury.
Il cielo è azzurro quel giorno, me lo ricordo bene. Rivedo me e Rita salire le scale, le nostre mani che dondolando si sfiorano.


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