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«Lo faremo», le dico.
Dalle gradinate, io e Rita osserviamo la squadra di football che si allena. I giocatori. Maglie bianche e maglie nere, insetti che si mescolano sul campo. Si sparpagliano come tanti pensieri confusi.
Mi giro a guardarla. «Ti porterò via», le dico.
Il viso di Rita si accende, solo per un attimo, adesso è di nuovo cupo.
Avvicino la faccia alla sua. «L'auto rimarrà da noi per tutta l'estate», prometto. «È tutto a posto».
In realtà, un piano vero ancora non ce l'ho.
Gi atleti si raccolgono attorno al mister. Che muove le mani, li indica uno a uno, si piega, disegna col dito qualche strana tattica invisibile.
«Troverò il modo», sussurro. I miei piedi pestano forte il cemento della gradinata. Capii in quell'istante quanto la amavo, quanto avrei rischiato per lei.
Sotto di noi, qualcuno dà una gomitata a Patrick. Patrick alza la testa, ci vede.
Rita ridendo chiede: «Ma la sai portare quell'auto?».
Sentii qualcosa crescermi dentro, un sentimento a cui anni dopo avrei saputo dare anche un nome. «Mio padre è o non è il meccanico più in gamba di tutto il Midwest?», dico.
Orgoglio.
Rita scuote la testa.
L'abbraccio, all'improvviso non ho più paura.


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