1.NUOVO MONDO

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Nuovi panorami. Nuovi odori. Nuova vita.
Il New England.
Cavolo se faceva freddo! Ma dovevo abituarmi in fretta, considerato che avevo scelto quel posto così lontano, dopo aver ridimensionato la mia concezione di vita "folle". Dopotutto, era la mia opportunità di "ricominciare da zero", come mi avevano ripetuto i miei genitori nelle ultime settimane. E chi poteva biasimarli? Io no di certo. Non volevano che me ne andassi: piuttosto sentivano il bisogno che me ne andassi, per il mio bene. Naturalmente, come ogni brava ragazza, accettai e sottoscrissi ogni loro parola; così mi ritrovai a bordo di un aereo, senza nemmeno rendermi conto che l'estate era finita.
Del viaggio dall'Inghilterra mi rimase un ricordo confuso, ma le lacrime dei miei genitori erano ancora vivide nella memoria. Dire loro addio era stata una delle cose più difficili che avessi mai fatto, e sapere che era la soluzione migliore di certo non mi aveva aiutato. Avevamo tutti e tre le guance rigate di lacrime. Mi sforzai di non notare il dubbio che affiorava nei loro occhi. Sapevo cosa stavano pensando, anche se non avevano il coraggio di dirlo. Sarei stata abbastanza forte?

Agli arrivi dell'aeroporto internazionale di Portland mi feci largo in mezzo alla folla, cercando il volto emozionato e ansioso di mia sorella; come previsto, la trovai al cancello, accanto a Frank, il suo gigantesco marito. A vederli, erano una coppia perfetta. Il braccio robusto di Frank cingeva le esili spalle di lei, proteggendola dalla folla impetuosa dei passeggeri.
Ero stata così contenta che mia sorella maggiore avesse incontrato un uomo come Frank: aveva un sorriso caloroso e lisci capelli color miele perennemente spettinati sugli occhi color cioccolato, nonostante i suoi tentativi di tenerli in ordine. Pur avendo un'aria tranquilla, Frank era massiccio e muscoloso, perciò incuteva un certo timore.
Quando Olivia portò Frank a casa capimmo subito che erano fatti l'uno per l'altra. Si intuì che erano anime gemelle, destinate a trascorrere tutta la vita insieme. Sebbene il mio primo pensiero fosse stato: Cristo, mia sorella esce con un lottatore! , ora in qualche modo la invidiavo, perché io non avevo mai provato niente del genere per nessuno. All'epoca non riuscivo a capire come si potesse stravolgere la propria vita per un ragazzo, ma è proprio qui che sta la differenza: se non sei mai stata innamorata, non sai fin dove può portarti l'amore.
E così, in breve tempo mia sorella si ritrovò sposata e in procinto di trasferirsi a Evergreen Falls, nel New Hampshire. Era la cittadina in cui era cresciuto Frank, e lì risiedeva gran parte dei suoi familiari. Sognava di farsi una famiglia nel suo luogo d'origine. Naturalmente, questo diventò anche il sogno di mia sorella.
Per quanto mi rattristasse vederla andare via, ero davvero felice per lei. Non era stata molto fortunata con i ragazzi, così eravamo rimasti tutti senza parole quando ci aveva raccontato di Frank. Per fortuna erano persi l'uno per l'altra, e sembra che lo siano ancora, considerato che sono insieme da più di quattro anni.
Frank mi piaceva davvero: era il fratello più grande che non avevo mai avuto. E accidenti, se era grande! Come guardia del corpo, e ora come titolare di un'attività di reclutamento tutta sua, doveva esserlo per forza.
Mia sorella e Frank si erano conosciuti a un concerto: lui era uno degli addetti alla sicurezza. Lei, suo malgrado, era stata coinvolta in una rissa ed era finita a terra; l'avrebbero brutalmente calpestata se in quel momento lui non avesse fatto un giro d'ispezione e non l'avesse vista in quelle condizioni. Come un cavaliere dall'armatura scintillante, era saltato giù dal palco e aveva scavalcato la palizzata per prendere mia sorella fra le braccia, proteggendola dalla folla inferocita che si gettava nella mischia. Il suo intervento tempestivo le aveva evitato conseguenze ben più gravi.
Quella storia l'avrò sentita un milione di volte: ogni particolare è ormai impresso a fuoco nella mia memoria. Ma quando mia sorella la racconta, un enorme sorriso le illumina il volto, perciò mi trattengo dal protestare e mi limito a sorridere con lei. Sfoderò quello stesso sorriso non appena mi vide. Io ricambiai. Santo cielo, quanto mi era mancata! Mollai la valigia e mi precipitai fra le sue braccia. Il suo profumo fragrante mi investì insieme a un'ondata di ricordi, facendomi commuovere. Non eravamo soltanto sorelle: eravamo anche ottime amiche, perciò il nostro legame non si era affievolito con la lontananza. «Kibby» mormorò, mentre le lacrime le scorrevano lungo le guance rosee. «Libby» feci io. Fin dall'infanzia avevamo adottato questi nomignoli, e li usavamo al posto dei nostri veri nomi: Keira e Olivia.
«Mi sei mancata, mia piccola Kibby. Come stai?» mi chiese, guardandomi con la testa inclinata da un lato, come aveva iniziato a fare da quando c'era stato l'"incidente". Era il nome che etichettava il mio passato oscuro, di cui non parlavamo mai, ma che era sempre vivo nella nostra memoria. «Bene... sto benissimo.» Esageravo sempre quando rispondevo a questa domanda, come se dentro di me scattasse un pulsante automatico per farmi dire quello che tutti si aspettavano, o la risposta più semplice da accettare. Ma poi, che ci credessero o no, restavo sempre una paranoica e, diciamoci la verità, non avrei vinto nessun Oscar come migliore attrice. Detestavo essere al centro della scena ma, considerato che questo era un nuovo inizio, almeno qui nessuno era a conoscenza del mio passato e non dovevo comportarmi come se tutto andasse alla grande anche se mi sentivo morta dentro.
D'altra parte, mia sorella mi conosceva bene e finse di essere felice della mia risposta, anche se sapeva la verità. Nostra madre l'aveva tenuta informata circa i miei "progressi".
«Bene, allora prendiamo i bagagli e usciamo da questa ghiacciaia di aeroporto, sto gelando!»
Sorrisi. Libby non aveva mai sopportato il freddo. Per me, invece, non era un problema. Crescendo nel nord dell'Inghilterra, ti abitui a vivere l'estate. Eppure mi godevo le stagioni, accogliendo con gioia i colori che animavano gli alberi, i profumi che riempivano l'aria e, più di tutto, la neve. Amavo la neve, il modo in cui trasformava totalmente il paesaggio, facendo apparire tutto fresco e pulito. Come se una coltre spessa ricoprisse la terra per proteggerla.
Il recupero dei bagagli fu sorprendentemente rapido, e salire a bordo dell'auto riscaldata fu un vero conforto. Come sempre, Libby si lamentava del tempo. Vivere qui non aveva migliorato il suo rapporto con il clima.
Anche il tragitto fu breve, più che altro perché dopo venti minuti di pettegolezzi su gente che ancora non conoscevo, crollai per il sonno. I viaggi in macchina mi facevano sempre questo effetto. Forse era dovuto al dondolio del veicolo,
ma anche alla fiducia che riponevo nell'autista. Per fortuna, al volante c'era Frank e non la mia sbadata sorellina. Non che guidi male, è solo un po'... be', diciamo così, frettolosa nel raggiungere la destinazione, mentre io preferisco prendermela comoda e arrivare tutta intera, senza scatenare un coro di clacson. Grazie alla guida attenta di Frank, mi svegliai solo quando ci fermammo davanti alla loro casa.
L'avevo già vista nelle foto che Libby mi aveva inviato via e-mail, ma in quel momento mi resi conto che il piccolo schermo del mio laptop non le rendeva affatto giustizia. Era strabiliante: rimasi lì a fissarla a occhi sgranati, senza parole. Notando la mia espressione inebetita, un ampio sorriso illuminò il bel viso di mia sorella. «Direi che ti piace, eh?» Era una domanda retorica.
«È così... grande » risposi senza bisogno di esagerare.
«Benvenuta a casa, ragazza!» esclamò Frank, mentre afferrava i miei bagagli con una mano e apriva la porta con l'altra.
Alla fine riuscii a farfugliare un rauco "grazie" ricacciando le lacrime, sopraffatta dalle emozioni.
L'edificio era immenso e aveva un aspetto antico, quasi fiabesco. Aveva carattere: l'amai all'istante. La vernice bianca, sbiadita dal tempo, non faceva che aumentare il fascino della maestosa costruzione in legno: si alternavano giochi di rientranze, finestre di varie forme e dimensioni, e tettoie coperte da tegole di ardesia. La facciata era circondata da un ampio portico, con una sedia a dondolo che aveva l'aria di essere antica quanto la casa. Le imposte di un verde ormai spento incorniciavano gran parte delle finestre, ora inchiodate e aperte dopo aver ceduto il posto ai tripli vetri. Eppure l'effetto era ancora affascinante e l'aura che emanava non lasciava dubbi: era una casa amata.
A stupirmi ancor più dell'edificio in sé fu il terreno su cui sorgeva, al confine con il White Mountain National Park: era circondato da una fitta foresta, un oceano con tutte le sfumature del verde. Un flusso continuo di montagne ricoperte di alberi secolari cingeva la casa come una barriera viva e odorosa. Solo dopo avere osservato ogni picco, notai la radura da un lato. Mi attirò come una calamita e mi avviai alla sua scoperta.
Davanti a me, si aprì la vista più spettacolare su cui avessi mai posato gli occhi. Il panorama si moltiplicava in una serie infinita di altre montagne, rivestite da un tappeto lussureggiante di migliaia di alberi. Diamine, forse milioni! La bellezza del paesaggio mi mozzò il respiro, abbagliandomi come fossi un animaletto investito dalla luce dei fari. Se fossi riuscita a piangere, cosa che non accadeva spesso negli ultimi tempi perché avevo ormai dato fondo a tutte le mie lacrime, l'avrei fatto in quel momento. Volevo esprimere tutta la gioia che mi dava quella vista, ma ancora una volta mi ritrovai a corto di parole. «Frank l'ha ereditata da suo zio» mi disse Libby, scuotendomi dai miei pensieri.
«Di che epoca è?» le chiesi, sperando che mi raccontasse la storia di quella casa. Un passato di orridi trascorsi le calzava a pennello: non sarebbe stata fuori posto in uno dei romanzi di Stephen King o nel film Psycho .
«Non lo so con certezza. Tutti i parenti di Frank a cui l'abbiamo chiesto non hanno saputo stabilire una data. Ma appartiene alla famiglia da generazioni.» La strana espressione con cui lo disse mi fece intuire che nascondeva qualcosa.
«Che ti prende?» le domandai nel tono più scherzoso possibile, ma dal suo sguardo capii che mi avrebbe presto rivelato i segreti più misteriosi e oscuri di quella casa, e io non sarei più riuscita a chiudere occhio. Non m'importava. Ero curiosa di conoscerne il passato, per quanto orribile fosse.
«Niente di particolare. È una storia un po' raccapricciante, tutto qui.» Si spostò per dare un'occhiata a Frank e, vedendo che era abbastanza distante, riprese il discorso. «Prima ti ho detto che Frank ha ereditato questo posto dallo zio, no?» bisbigliò.
«Sì, cosa gli è successo?»
«Be'... si è suicidato.» Attese la reazione con il solito sguardo triste che aveva quando diceva qualcosa che poteva turbarmi. «Dove?» fu tutto quello che riuscii a dire, pregando che non fosse successo nella mia futura stanza.
«Oh, no, no... non è successo in casa, non ti preoccupare.»
Evidentemente aveva notato la mia espressione spaventata.
«Ah, questo mi fa sentire decisamente meglio. Pensavo che avrei dovuto dividere la mia stanza.»
«Dividere la tua stanza?»
«Già, magari con un fantasma, o con te e Frank, perché avrei avuto troppa paura di dormire da sola!»
Al solo pensiero, scoppiammo a ridere. «No, tranquilla, al limite avrei fatto dormire Frank nella tua stanza, insieme allo zio. Be', almeno avrebbero potuto parlare di questioni di famiglia.»
A quest'ultima osservazione ridemmo come due adolescenti sciocche. Mi tornarono in mente i nostri giorni spensierati, quando restavamo sveglie fino a tardi raccontandoci storie paurose sotto le coperte, con la torcia accesa sotto il mento per creare l'atmosfera.
«Allora dove si è ucciso?»
«Oh... be', non ha importanza» tagliò corto, affrettando il passo in direzione della casa. Chiaramente, non era la fine della storia. Le avrei spillato altri particolari più tardi, non appena Frank fosse uscito.
Sistemarsi non fu difficile, perché mia sorella aveva già arredato la mia stanza nei particolari: dalle foto di famiglia al mare alla biancheria del mio colore preferito. Era perfetta per me: accogliente, e allo stesso tempo sgombra da ricordi penosi.

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