12. AMICO O NEMICO

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Tornai a tentoni verso la porta nel chiarore argenteo della luna, spuntata da dietro la cortina di alberi. Non sapevo se quella creatura fosse ancora lì: non mi ero fermata per accertarmene, senza il vetro della finestra a proteggermi. Provai di nuovo la sensazione che qualcuno mi stesse osservando, ma non mi allarmai. Anzi, provai un senso di calore e di sicurezza, che però non bastò a placare il bisogno di allontanarmi da lì il prima possibile.
«Se solo ci fosse più luce.» Non mi ero resa conto di aver parlato ad alta voce finché, con mia grande sorpresa, la luce di sicurezza sfarfallò un paio di volte e riprese vita. Illuminò il tragitto fino alla porta: non era lontana quanto avevo immaginato. Maledizione! Avevo dimenticato quel cavolo di codice! Oddio, com’era?
Annaspai freneticamente sui tasti. Mi sforzai di ricordare. Un quadrato, ecco cos’era! 3256. No, sbagliato. 1254. Ancora niente.
«Dài, apriti!» D’un tratto, una sensazione di calma pervase il mio corpo, scivolò fluida lungo il collo e raggiunse la mano, la sfiorò, la indusse a muoversi senza costringerla, come la carezza di un amante.
Aprii la bocca, ma non ne uscì alcun suono, solo un respiro soffocato. Sentii i capelli drizzarsi sulla nuca per una presenza sempre più vicina: controllava il mio corpo tremante con il suo respiro. Le dita si mossero sulla tastiera come se non mi appartenessero. 1... 4... 5... 2. La porta si aprì con uno scatto, e la mia mano afferrò la fredda barra di metallo spingendola verso il basso. Il battente si dischiuse senza fatica lasciando uscire una folata di aria calda e luce, e di colpo mi sentii di nuovo padrona della mia mano. Mi girai di scatto, sperando di cogliere almeno una visione fugace. Ma i miei occhi non videro nulla, e la mia mente non riuscì a trovare una spiegazione a quanto era accaduto. Era stata un’esperienza magica.

«Allora, com’è andata?» Libby era seduta sull’enorme divano, con le ciabattine felpate che sbucavano dalla coperta distesa sulle gambe. Aveva un’aria molto seccata.
«Bene. Mi sono proprio divertita, ci credi?» Mi guardò con aria scettica. «Ma davvero...» commentò, di colpo annoiata dall’argomento.
«Piccola. Tesoro...» intervenne Frank, rivolgendo alla moglie un’inconsueta occhiata di rimprovero.
Trattenni un sorriso soddisfatto, per non peggiorare la situazione. Dopotutto, Libby era solo preoccupata per me. Glielo leggevo negli occhi, e questo mi faceva sentire immensamente in colpa. Mi aveva persa una volta, temeva di perdermi ancora. C’era voluta un’infinità di tempo perché recuperassi almeno la parvenza di quella che ero stata.
Questi pensieri non promettevano niente di buono: meglio prendere un sonnifero, se non volevo passare una notte insonne. Mi strofinai la mano ripensando alla sensazione di calore che mi aveva pervaso prima, quando quella stessa mano non era stata più mia per qualche istante. Una sensazione magnifica che perdurava ancora, seppure in forma più tenue: aveva allontanato ogni mia paura lasciando il posto a una gioia che mi scaldava il cuore. Era una felicità talmente intensa che un intimo sorriso continuava ad affiorarmi alle labbra. Alla fine decisi di andare a letto. Baciai mia sorella sulla fronte e le arruffai affettuosamente i capelli.
«Buonanotte. Ti voglio bene, Libs.»
Senza darle il tempo di rispondere, salii di corsa le scale portandomi dietro il peso del mio rimorso. Era strano sentirsi combattuta tra emozioni così contrastanti e incontrollabili. Prima mi libravo alta nel cielo, sostenuta dal conforto della mia magica esperienza; un istante dopo annegavo nel senso di colpa, sommersa da un’ondata di ricordi.
Il resto della settimana passò senza ulteriori incidenti. Dopo aver lavorato per altre tre sere al locale, cominciai a prendere dimestichezza con l’ambiente. Ormai servivo dietro al bancone. Mike continuava a vegliare su di me: correva in mio soccorso quando mi impappinavo con il terminale POS , prendeva le mie parti quando i clienti erano sgarbati e, cosa più importante, portava fuori la spazzatura. Di questo gli ero estremamente grata.
Una sera assecondai la mia curiosità e cercai di sapere qualcosa di più sui Draven, ma le risposte furono tutte vaghe ed elusive.
Alla fine, non seppi molto più di questo: erano due fratelli e una sorella. Dominic, il maggiore, era il capo famiglia. Forse avevo visto anche l’altro maschio il giorno del loro arrivo, fra gli uomini al seguito, ma di sicuro non avevo mai incontrato la sorella.
Quanto a Dominic, mi era apparso una volta in carne e ossa e due volte in sogno. Ma era bastato perché diventasse la mia ossessione! Non facevo che pensare a lui. Le ragioni erano ovvie, naturalmente. Tanto per dirne una, era l’essere umano più strabiliante che avessi mai visto, bello come una creatura eterea e celestiale. E allo stesso tempo, appariva forte e invincibile come un grande guerriero del passato.
Spesso mi sorprendevo a sbirciare verso il piano superiore, ma poi mi giravo svelta dall’altra parte. Mi bastava pensare a lui per arrossire: pensavo a come mi aveva guardata quella sera, a quegli occhi penetranti che mi fissavano, ardenti di passione, intensi e sinceri.
Ogni giorno dovevo convincermi che non era successo nulla: tutte quelle fantasie stavano diventando ridicole. Lavorare nel locale era una delizia e, allo stesso tempo, un tormento. Era al club che sentivo più intensa la sua presenza, come una forza magnetica che mi attirava inesorabilmente verso di lui. Ma il mio imbarazzo mi tratteneva, mi impediva di alzare gli occhi, mentre tutti gli altri sembravano guardare fisso nella sua direzione. Senza vederlo, naturalmente: nel privé si scorgevano soltanto ombre indistinte, e nessuno saliva o scendeva mai le due rampe di scale. Dove andavano tutti quegli ospiti “speciali”? Restavano confinati lassù in eterno?
Era tutto molto strano, specialmente perché nessuno sembrava sapere nulla dei Draven, anche se erano anni che frequentavano quel posto e possedevano mezza Evergreen. Era come se l’intera città fosse seguace di una setta misteriosa, di cui Draven era il leader. Io, d’altra parte, ero l’intrusa e non ero ben vista all’interno della congregazione.
Ancora! Con la mia immaginazione avrei potuto guadagnarmi da vivere scrivendo racconti dell’orrore! Ormai era da dieci minuti che fissavo l’armadio aperto e non avevo ancora deciso cosa mettermi. Non c’era molto da scegliere: doveva essere qualcosa di caldo e, possibilmente, impermeabile. Dalla sera prima non aveva smesso un istante di piovere e i miei capelli non sarebbero sopravvissuti a un’altra giornata in ammollo.
Afferrai qualcosa di grigio e nero e me lo infilai, senza sapere cosa fosse; ma aveva le maniche lunghe, perciò il resto non contava. Ci abbinai un paio di jeans sbiaditi che avevano visto giorni migliori. Erano un po’ troppo lunghi per me, e l’orlo si era sfilacciato a furia di strusciare a terra; ogni tanto dovevo tirarli su per evitare che mi finissero sotto le “scarpe da jogging”, come le chiamavano qui.
«Sei pronta? Credo sia arrivata RJ!» Era il mio primo giorno al college e Libby era agitata quanto me. L’avevo trovata in cucina a un’ora impossibile, intenta a preparare un’autentica colazione inglese: il risultato fu un pasticcio totale. Mangiai quel che potei, ignorando lo sforzo con cui i denti cercavano di sgretolare un toast duro come roccia lavica. Peccato non avessimo un cane, anche se forse pure lui avrebbe avuto problemi a ingoiarlo.
«Sì, sto arrivando!» Agguantai la borsa a tracolla e la giacca. Oggi niente guanti: le maniche avevano il buco per far passare il pollice. Mi precipitai giù per le scale e inciampai su un gradino, atterrando sul mio povero sedere già livido. «Ahi!»
«Tutto ok?» urlò Libby dalla cucina. Brontolai un “sì” a denti stretti, augurandomi che non fosse una di quelle giornate in cui tutto va storto.
Passai un altro quarto d’ora ascoltando le raccomandazioni materne di Libby.
«Ho già fatto un anno di college, Libs, andrà tutto bene. Farò la brava, parola di scout.» Finalmente raggiunsi la porta. Nella lunga attesa, la povera RJ aveva ormai spento il motore.
«Scusami, a volte mia sorella è un pochino nevrotica» le dissi con un sorriso contrito. Ma RJ non sembrava affatto turbata, anzi, era felice come sempre.
«Su, racconta. Voglio sapere tutto, anche i particolari più insignificanti!» esclamò entusiasta, rimettendo in moto.
La piccola auto partì con un rombo grintoso.
Le raccontai del lavoro all’Afterlife per tutto il tragitto, e RJ non mi permise di lesinare sui dettagli. Mi chiese soprattutto di Mike. Be’, non solo: era curiosa di sapere qualcosa di più sui Draven, proprio come me. Ma su questo argomento non avevo alcuna informazione da darle.
Quando arrivammo al college ero completamente rilassata e ringraziai il cielo di aver fatto il viaggio con RJ e non con Libby. Tra la guida spericolata e l’atteggiamento apprensivo, mia sorella mi avrebbe condotto sull’orlo di una crisi nervosa.
RJ fermò la macchina in un parcheggio appartato, lontano dal trambusto del campus. «Impossibile trovare posto più vicino, e poi Jack ha detto che ci saremmo incontrati qui» aggiunse con una strizzatina d’occhio, che ignorai. Il parcheggio era circondato da alberi dalle calde tonalità autunnali. La pioggia era finalmente cessata e il sole, appena sbucato dalle nuvole, trasformò la giornata grigia e uggiosa in un trionfo di colori.
Presi la borsa e scesi dalla macchina. Forse sbattei lo sportello con troppo vigore, perché cadde una pioggerella di ruggine sull’asfalto. « Ops, scusa» dissi con un sorriso imbarazzato.
«Oh, tranquilla, avrò un’auto nuova fiammante quando avrò finito il college! Anche se a essere sincera non credo che reggerà fino ad allora, perciò continua pure a sbattere lo sportello!»
Scoppiammo a ridere e non ci accorgemmo dell’arrivo di Jack.
«Mi sono perso qualcosa di divertente?» fece. Istintivamente si avvicinò a me e mi sfilò la borsa dalla spalla, strizzandomi l’occhio.
RJ notò il gesto e fece una smorfia. «E la mia no?» chiese dando uno scappellotto in testa al fratello.
«Tu puoi cavartela benissimo da sola. Hai la schiena di un cammello!» Sottolineò le parole con una sonora pacca sulle spalle. Tipico scambio di battute tra fratello e sorella: si stuzzicavano e si prendevano in giro, ma in fondo si adoravano.
Ci avviammo verso il campus, una piccola città di edifici di mattoni rossi, ognuno con il suo giardino privato.
RJ e Jack, ovviamente, conoscevano già il college e non sembravano affatto impressionati dalla bellezza del posto. Io, invece, continuavo a guardarmi intorno stupita, senza dire una parola. Era fin troppo lussuoso per essere un campus. Mi sarei aspettata qualcosa del genere a Oxford o a Cambridge, ma non là. Ora capivo perché i miei genitori mi avevano nascosto l’ammontare della quota che avevano dovuto sborsare per l’iscrizione: doveva essere una piccola fortuna!
Mi ero offerta di contribuire in qualche modo. Avevo messo qualche soldo da parte durante l’estate, e poi c’era la mia eredità: mio nonno, morto quando avevo solo due anni, aveva lasciato a tutti un bel gruzzolo. Il mio stava ancora maturando gli interessi in un libretto di risparmio, fino ad allora mai toccato.
Il padre di mio padre aveva gestito diverse attività a Liverpool. Era un uomo gentile e generoso, che aveva cresciuto il figlio da solo dopo che la moglie era morta di parto. Adorava mio padre, e ogni giorno gli ripeteva quanto gli ricordasse l’amata consorte. Erano molto legati, ma mio nonno dedicava la maggior parte del tempo al lavoro e alla costruzione del suo piccolo impero. Ecco perché, a un certo punto, aveva chiesto aiuto alla sorella Olivia: mia sorella portava con orgoglio il nome della zia.
La zia Olivia era una donna molto sola, vedova e senza figli. Dopo aver tentato più volte il suicidio, aveva finalmente trovato la felicità occupandosi di mio padre. Anche lei lo adorava e aveva passato il resto dei suoi giorni a soddisfare ogni sua esigenza. Erano inseparabili come “due piselli in un baccello”, almeno così diceva mio padre. Quando la zia era morta, per lui era stato come perdere un’altra madre.
Mio nonno, sapendo che mio padre non era interessato a prendere il suo posto negli affari, aveva venduto tutte le attività e si era trasferito all’estero per passare il resto dei suoi giorni al sole. Mio padre non si era reso conto della fortuna ereditata finché non aveva ascoltato la lettura del testamento: era l’unico erede, non essendoci altri parenti in vita.
Mamma mi aveva raccontato che gli era quasi venuto un infarto quando aveva scoperto l’ammontare del patrimonio. L’aveva divisa subito in tre parti, versando la mia e quella di Libby su due libretti di risparmio. Con la loro quota i miei genitori avevano comprato una casa più grande, dove vivevano tuttora, e avevano conservato la casa di mio nonno in Spagna, per le vacanze.
Mia sorella Libby aveva già usato parte di quel denaro per trasferirsi a Evergreen e ristrutturare la casa ereditata da Frank. I nostri genitori erano stati più che felici di pagarle le spese del matrimonio pur di «togliersela di torno», come sosteneva scherzosamente mio padre. Aveva anche detto a Frank che «non erano previsti rimborsi». «Buona fortuna e non riportarla indietro!» aveva concluso al discorso di nozze.
«Terra chiama Kibs, mi sentite?» RJ mi fissava perplessa: stavo di nuovo sognando a occhi aperti!
«Scusa, ero nel mio piccolo mondo. Questo posto è favoloso!»
Salimmo la gradinata che portava all’edificio principale. Ovunque c’erano tavoli con gli striscioni delle varie associazioni studentesche, intorno ai quali ronzavano nugoli di studenti: sembravano tanti cloni in felpa e maglietta.
Nessuno ci invitò a fermarci, ma non c’era da meravigliarsi. Bastava un’occhiata a RJ vestita da goth, e la gente distoglieva in fretta lo sguardo. Sorrisi pensando che formavamo davvero una bella coppia: lei era vestita in modo vistoso per distinguersi nella folla, io invece cercavo di mimetizzarmi in tutti i modi. La cosa buffa era che ci facevamo un favore a vicenda: la mia presenza non induceva nessuno a distogliere l’attenzione da lei, mentre il suo aspetto era talmente appariscente che catturava tutti gli sguardi, lasciandomi in secondo piano.
Per Jack, invece, era tutta un’altra storia. A ogni passo, attirava occhiate di ammirazione o invidia. Le ragazze sbattevano le ciglia o si abbandonavano a risatine sciocche, mentre i ragazzi lo salutavano con rispetto: alcuni usavano gesti in codice per me totalmente incomprensibili. Era molto popolare, d’altra parte: era già il terzo anno che frequentava il college. Sembrava perfettamente a suo agio nel mostrarsi in giro con due tipe come me e RJ al seguito. Era sicuramente abituato alle reazioni che suscitava sua sorella, e continuava a presentare anche me a tutti gli amici che lo fermavano. Arrivò persino a mettermi un braccio intorno alle spalle, esponendomi così agli sguardi inviperiti delle ragazze e ai sorrisi maliziosi dei ragazzi.
Chissà per quale ragione, sembrava fiero di me. Dovevo apparire ancora più scialba e insignificante accanto a quel modello da cartellone pubblicitario che camminava al mio fianco. Arrossivo ogni volta che mi presentava a qualcuno, mentre RJ si limitava a fare un cenno di saluto annoiato. Era brava a recitare la parte della regina dei ghiacci, ostentando una calma e una compostezza a me completamente estranee.
Passammo il resto della giornata a visitare il campus, ad ascoltare consigli e sviolinate su eventuali associazioni a cui potevamo aderire, sulle possibili materie da scegliere nel piano di studi, sulle iniziative di beneficenza. A sera, ero mentalmente esausta.
Jack decise che, dopo un inizio così frenetico, ci avrebbe fatto bene bere qualcosa, così andammo tutti a un bar nelle vicinanze del campus. C’erano anche Lanie, Chaz e Drew. Doveva essere cambiato qualcosa dall’ultima volta che li avevo visti: notai una certa intimità fra Drew e Lanie, che si tenevano mano nella mano. Strano che RJ non mi avesse detto nulla, nonostante la sua passione per i pettegolezzi, pensai. Ma appena vidi l’espressione attonita sul suo viso ne capii la ragione: non lo sapeva nemmeno lei.
«Mi sono persa qualcosa?» li aggredì, furiosa. Fissò Drew come un gatto pronto a lanciarsi all’attacco: quasi mi aspettavo di vederla inarcare la schiena e soffiare! Poi ignorò del tutto Lanie che, invece di prendersela, alzò gli occhi al cielo e si concentrò sul resto del gruppo.
«Siamo alle solite. Andiamo, lasciamo che si azzuffino in pace» fece Jack con una risata.
Mise il braccio intorno alle spalle di Lanie per darle un po’ di conforto, ma lei reagì con un sorriso mesto, come se sapesse come sarebbe andata a finire.
Attraversammo la strada e imboccammo un vicolo che faceva angolo con la vetrata di un locale vecchio stile, pieno di candele e terrecotte crepate.
«Non li aspettiamo?» chiesi alla fine, cedendo alla curiosità. Ma non mi sentirono e così mi limitai a seguirli. L’ultima cosa che vidi fu il viso di RJ fremente di rabbia, a cui si contrapponeva l’espressione addolorata di Drew.
Il Willy’s One Eyed Joe non somigliava per niente all’Afterlife: in poche parole, era una bettola. Varcammo le porte fatiscenti e scoprimmo che l’interno era ancora più decrepito. Aveva assoluto bisogno di essere ristrutturato, se non addirittura ricostruito! Le pareti sembravano sul punto di liquefarsi, con colature di tinta e colla da parati che cercavano disperatamente di raggiungere il pavimento. Un odore pungente di disinfettante si levava dalle mattonelle macchiate, crepate in alcuni punti, in altri sostituite da pezzi nuovi, diversi dagli originali. In realtà non c’era niente di assortito in quel locale. Sedie, tavoli e cuscini erano tutti spaiati e malmessi.
Ci sedemmo in un séparé d’angolo. Notai che ero l’unica a disagio. Gli altri avevano un atteggiamento rilassato, incuranti dello sfacelo che li circondava.
«Joe. Ehi, Joe!» gridò Jack in direzione del bar.
Un uomo grasso con un faccione cordiale si voltò con aria sorpresa. Era stupito di vederci là dentro, tanto quanto me. Il locale aveva tutta l’aria di aver ospitato risse a bottigliate, e le macchie sul pavimento non sembravano di liquore.
C’erano solo altre due persone nel locale. Clienti abituali, si capiva da com’erano seduti sugli sgabelli al bar, perfettamente a loro agio come se fossero a casa: rigiravano il “loro” bicchiere tra le dita in attesa che Joe lo riempisse di nuovo.
«Oh, salve ragazzi» ci salutò, andando incontro a Jack. A guardarlo bene, Joe
sarebbe stato perfetto come Babbo Natale.
«Allora, Joe. Come vanno gli affari?»
Pensai fosse una battuta scherzosa, invece Joe rispose sorridendo: «Non male, ma potrebbero andare meglio. La prossima settimana ci sarà il raduno dei motociclisti e porta sempre un po’ di movimento».
«Come sta tua mamma?»
La conversazione si spostò sulla famiglia e altre cose che non afferrai perché nel frattempo Chaz si era messo a parlare di RJ con Lanie.
«Non capisco, che problema ha? So che lei e Drew sono molto legati ma, diamine, lui avrà pur diritto di vivere!» sbottò Lanie alla fine, facendo voltare Jack e Joe. Imbarazzata, chinò la testa e arrossì, non so se per rabbia o vergogna.
«Parli del diavolo e spuntano le corna!» Chaz accennò in direzione della porta: stavano entrando RJ e Drew.
Trattenemmo tutti il respiro: non avevamo la minima idea di cosa si fossero detti. Ma il sorriso di Drew ci tranquillizzò subito: la tempesta si era placata.
RJ venne verso il tavolo, saltellando come se niente fosse. «Fammi un po’ di posto» disse a Chaz con fare ammiccante.
Non avevo mai visto un ragazzo arrossire in quel modo.
RJ ispezionò il piano del tavolo con aria critica e poi si girò verso Joe e Jack, ancora immersi nella loro conversazione. «Ehi, Joe, ci porti qualche birra? Ho la gola secca come il Grand Canyon!»
Ci sapeva fare con le parole! Joe fece un cenno di assenso e tornò dietro il bancone, mentre Jack si sedette accanto a me. Drew, invece, prese una sedia: la panca cigolante non avrebbe retto un ulteriore carico. Guardò RJ con aria severa e diede un colpo di tosse. Non ottenendo alcuna reazione, le sferrò un calcio sotto il tavolo.
«Ahi! Be’, congratulazioni!» disse infine a Lanie, sforzandosi di apparire sincera.
« Mmm . Grazie» abboccò subito l’altra. E così la questione fu chiusa una volta per tutte.
L’argomento “college” monopolizzò la nostra conversazione: l’agitazione del primo giorno, le associazioni studentesche a cui potevamo aderire...
«Kibs, in Inghilterra c’è qualcosa di simile ai nostri college?» La domanda a bruciapelo di RJ mise tutti a tacere.
Eccomi di nuovo al centro dell’attenzione: cominciai a giocherellare nervosamente con l’orlo delle maniche. «Sì, ma in scala più ridotta.»
«Sei già stata al college?» mi chiese Drew con un sorriso snervante, guardandomi da sopra le lenti.
«Sì, be’, solo il primo anno.» Non sarebbe stato più semplice mentire? Perché ne avevo accennato a RJ? Stavo cercando di ricominciare daccapo e invece eccomi qui a rivangare il passato. Cosa avrei fatto la prossima volta, mostrato le mie cicatrici? Guardate, ecco perché ho lasciato l’Inghilterra . Sarebbe stato un totale disastro!
«Come mai hai lasciato l’università?» Drew stava arrivando dritto al bersaglio e Jack gli diede manforte.
«O meglio: come mai ripeti il primo anno?»
Adesso mi erano quasi addosso, pronti a darmi il colpo di grazia.
Dovevo inventarmi qualcosa, e in fretta. «Un lutto» mi lasciai uscire di bocca. Dovevo guadagnare tempo, se volevo imbastire una storia credibile. In quel momento mi stavano fissando tutti come se fossi pazza: non ero estranea a quel genere di sguardi. Mi agitai sulla panca, mentre tutti aspettavano il seguito della storia. «C’è stato un lutto in famiglia. E, sinceramente, non mi va di parlarne» aggiunsi cercando di non essere scortese, ma allo stesso tempo di rendere chiaro il concetto.
«Chi è morto?»
Naturalmente la domanda era venuta da RJ. Chi altri poteva essere così invadente? «Santo cielo, sorellina, svegliati! Ha detto che non vuole parlarne, accidenti!»
Fui salvata dall’adorabile Jack.
«Ok, ok. Scusa.»
«Tranquilla. A ogni modo, la mia università non era favolosa come il vostro college. Avete visto quant’è grande la palestra?» domandai per cambiare argomento.
Lanie aveva detto la stessa cosa a Jack, mentre venivamo al bar. E infatti, funzionò.

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