2.UNA VISITA

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Quando finalmente mi svegliai, avevo la gola secca come se avessi ingoiato una tonnellata di sabbia. Guardai l’orologio sul comodino: erano le sei e mezzo del mattino, accidenti! Avevo dormito quasi dodici ore di fila. Mi alzai e mi tolsi il pigiama. Di certo mi aveva aiutato Libby a infilarlo, perché non ricordavo di averlo fatto.
Trovai i miei jeans larghi e il maglione più caldo che avevo, e mi cambiai in fretta prima che il corpo registrasse il gelo della stanza. Il mio respiro si addensava nell’aria e, avvicinandomi alla finestra, notai il ghiaccio che si era formato lungo i bordi: avanzava verso il centro del vetro come una schiera di ragnetti bianchi.
Continuai a tremare nonostante gli indumenti pesanti. Battevo i denti così forte che avrei finito per svegliare Libby e Frank. Allora recuperai la coperta che mia sorella aveva gettato nella cassapanca e me la avvolsi intorno alle spalle come un bozzolo caldo.
Andai a rannicchiarmi sul divanetto sotto la finestra e guardai fuori: invece della splendida distesa verde del giorno prima c’era uno scenario del tutto diverso. Sembrava un fotogramma rubato a un film dell’orrore. Immaginai licantropi o una bestia mostruosa che divorava i turisti, e un titolo che scorreva nel notiziario: CAMPEGGIATORI SCOMPARSI .
La foresta era immersa in una nebbia fittissima, e tutto era così immobile da sembrare un dipinto: un quadro misterioso e inquietante, permeato dal grigiore soffuso della prima luce del mattino.
Cominciai a pensare alla giornata che mi attendeva. Dovevo pianificare le ore con estremo rigore per non dare alla mente la possibilità di ripensare ai tempi bui. I sonniferi prescritti dal medico avevano risolto il problema del sonno ed erano d’aiuto anche con gli incubi. Ma in momenti come questo, quando non avevo niente di concreto da fare, la mente tornava a vagare nel passato.
Più volte avevo provato a ordinare al mio cervello di non ricordare quello che era successo, ma era come cercare di riaddormentarsi dopo un brutto sogno: per quanto ti imponga di non pensarci, l’incubo continua ad attirarti come la fiamma con la falena. Si aggrappa all’orlo della mente con le sue mani  nere, formate dalle paure più orribili che una creatura possa contemplare. Nessuno sa perché lo fa. Io le chiamo “menti autolesioniste”, quelle che si crogiolano nel dolore e indugiano sui brutti ricordi. Ormai avevo passato tanto di quel tempo a lottare con la mia mente che mi sembrava di aver perso la ragione. Ma il terrore della stanza imbottita dell’ospedale psichiatrico mi impediva di parlarne con chiunque.

Decisi di aprire Jane Eyre . Lo avevo già letto milioni di volte, ma amavo la storia, l’amore proibito tra padrone di casa e governante. Quella forza insopprimibile che li spingeva l’uno verso l’altra, un amore così intenso, al di là del tempo e dello spazio. Saltai la parte sull’infanzia deprimente di Jane e cominciai la lettura dal loro primo incontro.
Dovevo essermi addormentata di nuovo, perché mi svegliai di soprassalto quando bussarono alla porta. Ero atterrita perché non ricordavo dov’ero. Detestavo quella sensazione, ma sapevo che presto mi sarei abituata al nuovo ambiente.
«Buongiorno!» cinguettò Libby. Al mattino era sempre felice: un’altra caratteristica che non avevamo in comune. Io non ero mattiniera.
«Ehi, cosa ci fai lì? Il letto era scomodo?» mi canzonò.
«No, il letto era favoloso, ma il divanetto offre una vista migliore.» Sorrisi quando vidi cosa mi aveva portato.
«Sei un angelo!» esclamai e corsi a toglierle di mano la tazza di tè fumante. Ne bevvi un sorso e mi sentii in paradiso. La bevanda mi riscaldò. « Mmm ... nettare.»
Era stata la mia unica richiesta prima di trasferirmi: mia madre mi doveva rifornire regolarmente di autentico tè inglese. Dalle lamentele di mia sorella sapevo che era difficile trovarlo nei negozi, perché la maggior parte degli americani beveva caffè. Perciò la condizione che avevo imposto andava anche a vantaggio di Libby. «Allora, cosa vuoi fare oggi?» mi chiese con occhi speranzosi. Chissà quanto le era mancata una buona alleata nello shopping. «Non ho preferenze, se vuoi trascinarmi in giro per i negozi, per me va bene» risposi, sforzandomi di sembrare convincente. Fare shopping non mi divertiva più come prima, ma rendeva felice lei.
Mi fissò con il viso raggiante, poi guardò per un istante le mie maniche lunghe. Capii subito cosa voleva chiedermi, ma pensò bene di non turbarmi con domande difficili.
Da quando c’era stato l’“incidente” tenevo sempre le braccia coperte. Non avrei sopportato la curiosità della gente, e la compassione era l’ultima cosa di cui avevo bisogno; così tenevo nascoste le mie cicatrici. Era già abbastanza penoso doverle vedere con i miei occhi. Ma qui avrei avuto un vantaggio: da queste parti era normale indossare strati di indumenti per proteggersi dalle temperature rigide. «Tranquilla, la gente non le noterà» mi rassicurò Libby leggendomi nel pensiero. «Grazie» risposi con un sorriso mesto che si armonizzava alla perfezione con il pallore del mio viso.
«Allora, cosa c’è per colazione?» domandai con esagerato entusiasmo per compensare la nota malinconica nella mia voce.
« Mmm , cereali. Mi spiace, devo fare un po’ di spesa.»
Ridacchiai, pensando che l’idea di “spesa” di mia sorella si riduceva a una rapida incursione nel reparto surgelati. Se l’avessi accompagnata, almeno avrei comprato qualcosa di fresco.
«Ok per i cereali, e non direi no a un’altra tazza di tè» dissi con un sorriso sfacciato.

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