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Sarà un mese che non metto il naso fuori dalla mia suite.
Robbie dice che finché le acque non si sono calmate è meglio se resto sottocoperta. Viene spesso, mi aggiorna su tutto ciò che succede fuori di qui.
Le mie giornate le passo a guardare film in DVD. A leggere. A scrivere su questo diario. Non ho più un cellulare, e la parabola s'è rotta. Robbie non vuole far venire nessuno a ripararla, e il personale dell'hotel può entrare solo quando è presente anche lui. Dice che non mi devono vedere in queste condizioni.
In effetti, non è che sia proprio presentabile.
L'idea del diario me l'ha data Gary.
Dal telefono di Robbie - me lo teneva lui sull'orecchio, come per paura che potessi rubarglielo - Gary mi fa: «Metti tutto su carta». Stando a ciò che dice, aiuta. O almeno, per lui era così quando scriveva i nostri testi.
Dunque, eccoci qui.
La prima parte l'avete letta, ora racconterò ciò che è successo dopo.
Che fosse davvero Robbie, quel giorno al castello, ormai l'avete capito.
Come ha fatto a trovarmi?
Be', la chat di Tomlinson ha fatto il giro del globo in meno di un'ora e Robbie, che era già sulla strada, ha fatto due più due in molto meno. Mi ha detto che quando ha sentito Ayda per telefono - lei era davanti a YouTube, col mio video in mondovisione - per poco non sfascia la leva dell'acceleratore, tanto la pesta. Mi ha messo una mano sulla spalla, mi ha fatto: «A un certo punto pensavo di decollare, Mark».
Quando gli sbirri sono arrivati c'era soltanto Pit.
Di vivo, intendo.
Immagino che ora Pit sia in un carcere di massima sicurezza. E magari sotto a una lampada giallo incazzato. E magari a rispondere a una fila lunga lunga di domandine simpatiche simpatiche, di quelle che vanno da qui al Connecticut - dove cazzo sia il Connecticut non ne ho idea.
Stranamente, su di me non pende nessuna accusa.
Nessuna.
Forse Pit non sapeva chi sono, o forse non ci sta con la testa.
Quanto al video, ho rotto tanto le palle a Robbie che alla fine ha dovuto mostrarmelo. Teneva la testa girata, Robbie, ha detto che non ne voleva più sapere. Comunque, in quel video non si capisce un cazzo. Quando parlo sembra che abbia in bocca un mucchietto di sassi. Per via della lingua, no? Ho lasciato un sacco di roba in giro, oggetti, indumenti. Impronte. Due o tre litri di sangue, cose così. Ma dato che qui il caro e vecchio Zio Sam non mi ha ancora schedato, dubito possano risalire a me - però immagino già la sorpresa sulla faccia del primo agente che mi fa l'alcol test.
Se avessi un po' di sale in zucca scapperei da qualche parte. Magari in Messico, come il protagonista di un racconto che ho appena letto. Solo che quello, in Messico, non ho mica capito se alla fine ci arriva.
Comunque.
Farei un bilancio di quanto sono messo male, ma non è il caso.
Dite di sì? Davvero?
Va bene, mi avete convinto - alla faccia di tutti gli stronzi che abitano nel Connecticut.
Ecco la mia diagnosi:

- Frattura scomposta spalla destra (Justin e Beiber, vivi);
- Costola incrinata (Joe, deceduto) ;
- Ustione di terzo grado ginocchio destro (Payne, deceduto);
- Livido a forma di Corno d'Africa zigomo sinistro (Horan, deceduto);
- Varie ustioni di secondo grado (sedia di Horan, spenta);
- Fetta di lingua mancante (il sottoscritto, ancora vivo);

A parte questo, fisicamente sto una bellezza.
Ah, la volete sentire una cosa buffa? Buffa o inquietante, a seconda di come la si vede. Pare che quando mi hanno riportato qui la mia suite fosse appena stata tirata a lucido. «Se tanto volevi suicidarti», mi fa Robbie, «a che pro riarredare tutto?».
E in effetti, ora mi sembra di essere in un altro posto. Ma mi sono ben guardato dal rispondergli, mica potevo dirgli che stando ai miei calcoli risultava addirittura un cadavere in meno. Quello di Jane Coscetti, il mio defunto corriere italoamericano.
Ah, dato che ci siamo, argomento droga.
Sto provando a ripulirmi. Di nuovo. È uno dei motivi per cui mi trovo imprigionato qui. Robbie non vuol sentire ragioni. Non esco di qui, dice, finché non sono lindo come il culo di un bambino. Ha usato queste precise parole, ha detto: «Decontaminati da quella merda o ti nebulizzo».
Pare che anche stavolta ci riuscirò.
Ma a dirla tutta non è la droga che mi preoccupa.
Ci sono mostri ben peggiori della Dark Gift.
La notte faccio fatica a dormire.
Il televisore lo lascio sempre acceso, preferisco il grigiume fosforescente del monitor, al buio. Metti che mi alzo per andare a pisciare.
Ci sono notti in cui mi sveglio per via delle mie stesse urla. Allora stringo gli occhi e mi guardo in giro, e tra le ombre blu intermittenti mi sembra quasi di vederli. Gli esserini, intendo. Quei piccoli elfetti biondi bastardi.
Allucinazioni. Realtà. Chi può dirlo.
Una notte sono rimasto a fissarli per ore. Io nel letto, e loro nel vuoto oltre la finestra. Al mattino Robbie entra e mi trova ancora lì, col braccio alzato. Sembrava volessi agguantare la luce che riemergeva tra i palazzi della quarantanovesima, mi ha detto.
A volte, le cose si spostano da sole.
Ci sono momenti - anche durante il giorno - in cui cerco qualcosa e quel qualcosa, inevitabilmente, è sempre da un'altra parte.
Altre volte, a farmi visita è lui.
Quelle sono le notti peggiori.
Harry Styles, lui si diverte un mondo a spaventarmi. Se ne sta lì, artigliato al suo sgabello - che cazzo ci fa uno sgabello in camera mia - con quelle sue grandi e folte ali nere, e una tormenta di piume. Si alza, si muove verso di me. Dice cose terribili, del tipo che quello che gli ho dato io lo ha risvegliato, che grazie a me ha riaperto gli occhi, che prima soffriva ma che adesso non soffre più. Colpa degli amici, dice, sono loro che ti fanno star male. Gli amici non sono come i fratelli, prima o poi ti tradiscono. Secondo Harry è pieno il mondo, di traditori, e ce n'è anche qui, attorno a me. Mi aiuterà lui a ucciderli, dice: «Lo faremo assieme».
Assieme, capite?
Sto cazzo, rispondo io. Fottiti, pezzo di merda. Non so di che stai parlando, gli urlo, però intanto tiro su il lenzuolo perché Styles è su di me. Mi sfiora i capelli con la mano, dice: «Saremo invincibili». E io tremo, e non voglio ascoltare, però è strano perché un po' è come se invece lo volessi, e allora chiudo gli occhi e rimango lì, e sento Styles che dice: «Saremo fratelli, Wonder Boy».
Poi arriva la luce verde.
Copre tutto, quella luce, persino i rumori, allora io tiro giù il lenzuolo e Styles non c'è più.
Una notte ho ricordato.
Da dove viene quel nome, intendo. Wonder Boy. C'è una memoria legata a quelle due parole, un fatto vero, pensavo di averlo rimosso ma a quanto pare mi sbagliavo.
E c'è Minh Sang, in quella memoria.
Il mio maestro è inchiodato alla schiena grigia di un monte. Sopra di noi il cielo è nero, sembra sia appena venuto giù l'universo. Non nero come i suoi occhi, però: due abissi lucidi e profondi, riflettono il vuoto davanti a loro.
Minh sta gridando, ed è in quel verso disumano che mi sembra di sentirle.
«Wonder Boy», grida il mio maestro. E la montagna che scricchiola, la roccia che si spezza. Stringo forte forte il mio dosatore perché la Dark Gift, a Minh, gliel'ho data io. Ho drogato il mio maestro, è lui che me l'ha chiesto.
«Noi non siamo persone comuni», dice Minh, alla fine di quel ricordo.
È di spalle.
Nel cielo, di nuovo azzurro, uno stormo di gabbiani sfreccia strillando.
«Non lo siamo mai stati», dice Minh Sang.
Ora che ci penso, anche Horan diceva così.
Avevano ragione entrambi.
Ci sono giorni in cui la mia pelle brucia.
Allora mi getto sotto la doccia, l'acqua gelida che scorre lungo il mio corpo. Ma non basta, queste macchie morsicano più dell'acido. Così mi siedo e aspetto. E aspetto. E aspetto. E prima o poi, millimetro dopo millimetro, il dolore torna strisciando nella sua tana.
Una volta ero sorprendentemente lucido.
Ero in bagno, chino sul lavandino. L'occhio mi cade sul mobiletto dei medicinali. La tenevo sempre lì, la droga. Rimango interi minuti a fissarlo, quel cavolo di mobiletto a specchio. Così, senza motivo.
Poi, alla fine, ci arrivo.
È lei.
È la Dark Gift, la colpa è sempre tutta della droga. Ma è Styles ad avermela rubata, io non gli ho dato proprio un bel niente. Chissà che avrà visto, mi chiedo, se poi ha sentito il folle bisogno di suicidarsi.
Poi un'immagine mi colpisce. Sento che sto per cadere.
Mi aggrappo a qualcosa ma finisco comunque a terra, io, il mobiletto e tutto il suo sferragliante contenuto. E lì, tra i frammenti di vetro e i cadaveri dei flaconcini, ci sono io, le mani sporche di sangue a reggere la mia stessa faccia.
Io, e le mie paure.
Perché mi sono appena rivisto davanti al cadavere di Styles, quel giorno al castello. Ciò che non ho visto, però, è la sua anima azzurra che saliva verso il cielo.

Wonder Boy: The Dark GiftDove le storie prendono vita. Scoprilo ora