Un cinghiale, una volpe. Un'alce. Addirittura un orso.
Occhi vitrei, vuoti. Proiettati sul nulla.
E orecchie. E peli. E zanne.
Trofei di caccia. Decapitati, appesi alle pareti.
Un corridoio infinito di teste, interrotte qua e là da costellazioni di armi e cianfrusaglie.
Guardo gli animali e sembra che stiano uscendo - uscire però non è il verbo adatto - dalla parete.
L'androne, scuro e profondo, penetra nella pancia del castello e ricorda l'ingresso di un dungeon.
Qui dentro, l'allarme è violentissimo. Ti squaglia i timpani.
Mordo la sigaretta, tiro una lunga boccata. La palpebra sinistra si mette a pulsare fastidiosamente. Le mie labbra vanno a fuoco, la sigaretta scivola a terra.
«Mapporca...»
Ci schiaccio un piede sopra, poi vedo qualcuno schizzare sul lato opposto del corridoio. Una guardia del corpo. Salta fuori a sinistra e scompare a destra, tipo diapositiva. Non mi ha nemmeno notato.
Le mani sulle orecchie, procedo così per qualche metro e sembro un pazzo assalito dalle proprie voci interiori.
Davanti a un cervo mi fermo. Osservo i suoi occhi vacui, lucidi. Immortalati nell'estremo sgomento.
Fuggire.
Sì, è questo il termine. Gli animali stanno fuggendo dalla parete. Provano a staccarsene.
La Dark Gift, che ha captato i miei pensieri, si mette a fare la stronza.
E allora, ogni cosa inizia a vibrare.
L'aria, il corridoio intero.
Le teste si svegliano, si guardano attorno.
Vedono me.
Dalle loro narici umide, il fiato sale come dentro a una cella frigorifera. Mi accuccio, il mio cappotto che spazzola il pavimento. Sembro un nano, la brutta copia di un danzatore cosacco. Il mondo si fa sempre più stretto, sempre più piccolo. Forse è solo una mia impressione.
Un'enorme iguana - giuro, pare un dinosauro - frusta l'aria con la sua lingua e prova a leccarmi.
Rotolo, la mia spalla - per fortuna quella buona - va a sbattere contro un mobile di legno. Sulla parete di fronte, un tucano spalanca il becco e dice: «Buonuomo, che ne pensa di quella scimmia verde?».
No.
La scimmia verde no.
Non qui. Non ora.
«Owen, la vede soltanto lei», riecheggia la voce del dottor Vasnetsov nel mio cervello, il suo lugubre accento dell'est. «Non esiste nessuna scimmia verde».
Alzo gli occhi, osservo il tucano. «Che hai detto?», farfuglio.
L'uccello pare prendersela. «Oh, non importa», borbotta. Chiude il becco e ritorna a dormire. Più in là, una zebra si mette a sghignazzare.
Stai calmo, mi dico.
È soltanto la droga.
Faccio un lungo respiro, conto fino a trenta.
In un inaspettato momento di lucidità mi sfiora un dubbio: e se non fossi io, l'origine di questo allarme?
Come a conferma dell'ipotesi, il frastuono cessa. Il silenzio che segue è assordante, ci metto un po' ad abituarmi.
Due vecchi moschettoni, incastrati a x, luccicano sulla parete a mezzo metro dal tucano. Sembrano antichi, sono bellissimi. All'improvviso vorrei prenderne uno, ma non posso. Troppo vicini a quella testa di tigre che...
«Puoi togliere le mani, ora.»
Questa voce.
«No dico», riattacca la voce, «puoi togliere le mani dalle orecchie. Mark».
Giro la testa, sicuro di ciò che vedrò.
«Via! Vattene via!», sibilo. Graffio l'aria come un gatto.
Dalla mia spalla, la scimmia verde fa un balzo. Si aggrappa a un enorme lampadario che sboccia al centro del corridoio. Si mette a penzolare. Si volta, apre le fauci, soffia - il verso classico di tutte le scimmie - poi però rimane lì. Non fa nient'altro. Dondola e mi osserva.
Le faccio un gestaccio.
Indice e medio a v sugli occhi, la scimmia verde ruota le dita verso di me e promette: «Ci rivedremo». Poi schizza via. Sfiorando appigli segreti e invisibili, scompare alla vista.
Col cuore che gioca a flipper nel petto, rimango a terra un altro po'. Metti che torna.
Quando mi rialzo, corro.
In fondo al corridoio prendo a destra, seguo la direzione della guardia del corpo. Un intero androne lo faccio così, volando. Un po' per la scimmia verde, un po' perché non vedo l'ora di concludere questa storia. I miei piedi che pestando producono un inquietante cicche ciacche.
Guardo a terra e capisco il motivo.
Sangue.
Orme di sangue, ci sto saltando sopra. Viscide macchie rosse che indicano il percorso come luci su una pista d'atterraggio.
Sinistra.
Destra.
Sinistra.
Ancora sinistra.
Quella guardia del corpo doveva fuggire da un macello.
Il corridoio si trasforma in un condotto fognario. Non tanto per l'aspetto - che è uguale a prima - quanto per l'odore. Acre, pungente. Merdico, si può dire? Forse no, ma la puzza è quella. E più vado avanti più il fetore aumenta.
Altro corridoio.
Altre teste.
Teste grandi, questa volta. Un ippopotamo. Un toro. No, forse era un bisonte. Cristo, laggiù c'è un elefante.
Le orme svoltano di colpo, s'intrufolano in una stanza. La porta, vetrata, è semiaperta.
Dall'interno giungono alcune voci.
Mi appiccico alla parete.
Gradualmente, allungo la testa. Sembro uno swat un istante prima dell'irruzione.
Scorgo due guardie del corpo, ma uno di loro è a terra. Entrambi mi danno le spalle.
Massaggiandosi la nuca, quello a terra bisbiglia: «Ho dovuto stenderlo, Joe».
L'altro annuisce e si china a sua volta. Infila un braccio sotto la schiena del collega, lo aiuta a rialzarsi. Si guarda intorno. «Dov'è Eric?», chiede. «Gli avevo detto di raggiungerti». I suoi pantaloni sono sudici, è lui il misterioso corridore.
L'altro sta indicando un punto fuori dalla mia visuale. «Me la sono vista brutta», riattacca. «Voleva aggredirmi».
Qui la puzza è insopportabile, la fonte deve'essere vicina.
Persino Joe - che finalmente ha un volto - ammette: «Cazzo, non si respira». Porta una mano alla bocca, mugugna: «Anche Horan di sotto ha fatto un massacro. Forza, sistemiamo. Tra poco saranno qui le ragazze e...». Si blocca, non riesco a capire perché. Forse ha visto qualcosa.
Un grido animalesco - difficile definirlo umano - squarcia l'aria in quel preciso istante.
Joe spinge a terra il collega e si getta a sua volta.
Un'ombra sfreccia in mezzo ai due. Sembra liquido, forse è catrame. Si spalma sulla porta a un centimetro dalla mia faccia.
Uno dei due urla: «Si sta svegliando!».
Nel punto bersagliato, il legno inizia a sfrigolare. Ricorda un'aspirina. L'aria si riempie di un vapore denso e nerastro. Il fumo mi salta addosso e con lui il fetore.
Precipito a terra, per un pelo non perdi i sensi. Mi ritrovo dentro la stanza. Sollevo la testa e lo vedo.
È accucciato su un divano.
Arrotolato in una specie di camicia di forza.
Trema tutto, come in preda agli incubi.
Liam Payne.
Sotto di lui il divano frigge, la stoffa che si scioglie in una specie di brodo fumante.
Le guardie del corpo sono già in piedi. Per fortuna non mi hanno visto. Avanzano con cautela, stile Indiana Jones dentro al tempio maledetto. Raggiungono Payne, si scambiano un cenno.
Gli saltano addosso.
Payne sussulta, ma loro lo sollevano come un pupazzo. Uno dei due lo tiene fermo, l'altro gli controlla la camicia. Afferra i lacci, li tira forte.
Payne apre gli occhi.
E vede me.
«Hai ragione, non ci pagano abbastanza per questo schifo», borbotta Joe, che non si è accorto di nulla.
Payne, sballottato di qua e di là, continua a osservarmi. Non dice niente.
Gli sorrido, con l'indice gli faccio segno di non fiatare.
Solo allora lui vede i due energumeni.
Apre la bocca, e un attimo dopo è il finimondo.
Lancia uno strillo.
Joe fa un salto indietro. «Il taser, Pit!».
Ma Pit - finalmente conosco anche il suo nome - non muove un dito. Pare pietrificato.
Joe scatta, la sua mano sparisce nella giacca del collega. Torna fuori assieme a una specie di pistoletta nera.
Da qualche parte sotto a Payne, un enorme palloncino inizia a sgonfiarsi. O almeno il rumore è quello.
L'aria diventa subito irrespirabile.
Joe solleva il taser, poi però non ce la fa. Si volta, vomita tutta la colazione sul pavimento. Alza gli occhi, mi vede. Non sembra stupito, direi più contrariato.
Ma ora è Pit a gridare.
Guardo in basso e capisco il perché. Payne gliel'ha fatta su un piede. Deve avere una sorta di acido in corpo, il ragazzo, perché quello di Pit ora non è più un piede. La guardia inizia a sprofondare, si inabissa nel pavimento come in un lago di fango. I versi che fa. Crolla, si accascia a terra. Un attimo dopo i sensi lo abbandonano.
Joe, sempre indispettito, non mi leva gli occhi di dosso.
Sta calcolando, forse si chiede cosa cazzo ci faccio qui.
Guarda Payne. Torna di nuovo su di me.
Anche il mostro degli One Direction è a terra. Sta sgusciando via. Un'orrenda lumaca gigante - per la coda che lascia, e perché ha ancora le braccia legate.
Allargo le mie, di braccia. A Joe in pratica sto dicendo: Scegli tu, amico.
E non so perché, ma a 'sto punto mi sorge una domanda. La stessa che mi faccio davanti a ogni singolo fottuto episodio di Star Wars. Mi chiedo cioè come sia possibile che le guardie imperiali - imbacuccate nelle loro armature bianche e plasticose - cadano come mosche alla prima scoreggia laser. E gli eroi al contrario - sempre in giro mezzi nudi - incassano come tirannosauri.
E non ho una risposta, ho soltanto un sospetto: George Lucas, per me, è un fan dell'improvvisazione. Voglio dire, possiamo prepararci quanto vogliamo, ma la morte, secondo Lucas, quando arriva non c'è niente da fare.
E io?
Sono preparato, certo.
Sono tremendamente motivato.
Ma qui è l'inferno.
Questo è l'ade, il tartaro, è un'autentica geenna.
Alzo gli occhi verso Joe, gli chiedo: «Jedi o guardia imperiale?».
In risposta, lui accende il suo taser.
Il serpente di luce blu, ronzando cupo, gl'illumina tutta quanta la faccia. Joe stringe i denti, solleva la sua piccola spada laser.
E sceglie me.
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Wonder Boy: The Dark Gift
FanfictionEsiste una realtà in cui Harry Styles è il sanguinario leader di un gruppo musicale chiamato "One Direction", e dove Mark Owen, il fallito e tossicodipendente membro dei "Take That", prova a ristabilire gli equilibri. E 'sticazzi, direte voi. Esatto...