Livello 6: "L'Erede del Morso"

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Se Eric è una montagna, Joe è una piccola collina.
Però è veloce. Corre brandendo il taser come una fiaccola, sembra la Statua della Libertà - forse non sa come si usa.
Un attimo e mi è addosso.
Cala il suo braccio.
Io mi scanso di lato.
Joe travolge la porta e la manda in frantumi.
La sua mano sibila orizzontale attraverso l'aria e prova a decapitarmi. Mi piego all'indietro, una molla, le scintille blu del taser che mi accarezzano sul naso.
Allungo una gamba, lo calcio sulla spalla. Joe vortica, enfatizzato dal suo stesso slancio.
Si aggrappa a un tavolo e si blocca.
Si gira, mi osserva.
I denti che splendono di un candore maligno.
Poi, con tutta la calma di questo mondo, si sfila la giacca. Inizia a piegarla. La appoggia sul tavolo, lentamente passa ai polsini della camicia.
«Senti. Hai rotto i coglioni», gli faccio. Seccato, alzo una mano e aggiungo: «Lo vede il dito? Lo vede che stuzzica? Che anche soltanto le due cose come vicesindaco, capisce?».
Joe corruga la fronte. «Che cosa?».
Mi strizzo forte il pacco. «Ciupa».
Joe ruggisce.
Io barrisco di rimando.
Lui mi salta addosso, fiamme elettriche esplodono a ogni suo affondo. Mi ero sbagliato: maneggia il taser come il più esperto tagliagole di Soweto - Soweto sarebbe in Sudafrica. A Johannesburg.
Mi chino.
Salto.
Piroetto.
Uno dopo l'altro schivo ogni suo colpo.
Per quanto ancora mi voglio divertire? Lo dico per la puzza, e per Payne. Già, chissà che fine ha fatto Payne.
«Ehi, non ti distrarre», ringhia Joe. Che si ferma, infila una mano nei pantaloni. Estrae il walkie talkie. Armato da entrambe le parti, comincia a mulinare le braccia. Piano. Poi più forte. Il ritmo sale e sfiora livelli ipnotici. Alla fine Joe non ha più due braccia, ma un'elica di tentacoli.
E se lui è una piovra, io divento un'anguilla.
La nostra è una specie di danza marina.
«In fondo al maaar...»
«Gran voce, ragazzo», farfuglia Joe, sempre turbinando, «ti ho già sentito da qualche parte?».
«Poesie», gli faccio io. «Ho un canale su YouTube».
«Poesie?»
Alzo una mano. Lui si ferma, mi osserva inebetito.
Mi schiarisco la voce. «E mi sembra di aver aspirato una balena», recito, «tanto casino fanno queste mie...»
«Ma vaffanculo.»
E la danza ricomincia.
Joe fa cadere il walkie talkie e afferra uno scranno. Peserà come il Trono di Spade, lui me lo lancia addosso manco fosse di cartapesta. Salto di lato, schivo. Joe al volo mi calcia su un fianco.
Rotolo a braccia aperte sul pavimento, il respiro che mi abbandona.
«Allora sai fare anche la ruota», sghignazza lui.
Mi sollevo sui gomiti, gli faccio: «Proprio oggi che mi sono arrivate».
Joe mi guarda senza capire.
Mi volto, stacco una gamba allo scranno. Ruoto di scatto e...
Clack!

Legno e taser si scontrano a mezz'aria, la lingua di luce che prova a leccarmi le iridi.
«Ragazzo», mi fa Joe. «Non ci casco, tu non hai le mestruazioni».
Ma porca puttana. Si merita un calcio. Mi allungo e gli colpisco uno stinco. Fossi stato più in forma glielo avrei anche spezzato.
Joe si afferra la gamba, saltellando dice: «Ma tu chi cazzo sei?».
Lo guardo, incupisco la voce. «Io sono tuo padre, Luke».
«Arivaffanculo.»
Taser nella mano, Joe riparte all'attacco.
Precisi come un metronomo, i rintocchi delle nostre armi scandiscono il tempo in questa maleodorante taverna. Il respiro di Joe si fa via via più pesante. Sta iniziando a cedere, peccato. Sto per proporgli un time out quando è lui a fermarsi. Guarda un punto dietro di me, sgrana gli occhi.
«Non ci casco, fesso», sbuffo io.
Un secondo dopo qualcosa mi finisce sulla schiena. Il mio cappotto inizia a friggere. Rapido, lo sfilo e lo getto a terra. Lo osservo accartocciarsi come un ragno.
Mi volto.
Payne è laggiù, nascosto dietro a un cuscino. Mi guarda, ringhia. Solleva un braccio. Un attimo più tardi un nugolo di meteoriti di - Wattpad: error 404 - attraversa la stanza sibilando.
Mi getto a terra, mi riparo dietro allo scranno. Con la coda dell'occhio vedo Joe rannicchiarsi all'ombra di una poltrona.
Payne grida.
Joe grida.
«Che cazzo gridi?», gli faccio io.
«Non so», balbetta Joe. «Pensavo mi avesse colpito».
«Zitto.»
C'è una pace inquietante, l'intera taverna che fuma e che sfrigola. Mi sporgo appena, riesco a intravederlo. Payne ha distrutto la sua camicia di forza, i lacci che penzolano inerti come bandiere in assenza di vento.
«Non si sente volare una mosca», osserva Joe.
«Si saranno sciolte tutte.»
Joe deglutisce. «Signorino Payne», dice, «la prego, si calmi».
«Ehi», sussurro io. Joe si volta, io gli punto il mio indice contro. Giro il pollice verso di me. Infine, faccio un cenno in direzione di Payne.
Joe fa sì con la testa.
«Signorino», riattacca, «io e il mio amico stiamo venendo fuori, d'accordo?».
Gli lancio un'occhiata. «Però vai avanti tu».
Se Payne è d'accordo, non ce lo fa sapere.
Come una tartaruga, Joe estrae la testa e si guarda intorno. Appoggia le mani sulla poltrona, prima una, poi l'altra. Si solleva. «Sono io, signorino Payne», dice, «sono Joe». Esce allo scoperto, inizia a camminare verso Payne.
Da terra, il taser attira la mia attenzione.
La guardia del corpo l'ha dimenticato lì.
Sguscio fuori, lo raccolgo. Me lo infilo nei pantaloni.
«È l'ora del bagnetto», sento dire a Joe. «Su su, non faccia i capricci».
«L'ora del bagnetto, già», cantileno io.
Joe si volta e mi lancia un'occhiataccia. Poi, guardingo, riprende a camminare.
Mi accodo a lui come un'ombra.
Payne è inzaccherato dalla testa ai piedi. Mi chiedo come mai il suo acido non gli faccia alcun effetto. Penso ai draghi, al fuoco nel loro stomaco. Mi sfugge un: «Cazzo, che arma micidiale».
Joe mi squadra, severo come una vecchia maestra.
«Payne», provo allora a rimediare, «è così, sono un amico. Sono qui perché...». Già, perché? Bella cazzata.
«Un amico», rutta Payne, piano.
Joe, la fronte imperlata di sudore, mi guarda e fa di no con la testa.
Ok, ho un'altra idea. «Sai, Payne», gli faccio, «anch'io sono un musicista».
Joe inizia a piangere.
Il mio piede sfiora qualcosa. Pit, la guardia del corpo neo-menomata. Ha un polpaccio completamente sciolto. Dal ginocchio in giù, la gamba di Pit non esiste più.
Suona come una pubblicità.
«Drago Pulisan», canticchio, «una bestia contro...»
«Musicista», soffia Payne.
Joe agita le braccia come se dovesse farmi atterrare. Ma che ha, il mal di pancia?
«Be'», rispondo, aggrottando le sopracciglia. «Non bravo come Styles, è ovvio». Guardo Payne dritto negli occhi. «Harrino, dico. Pisellino. Orsettone tenerone giuggiolone Styles».
Al che, la sua faccia si trasforma.
Si accartoccia, non saprei descrivere il fenomeno in altri termini.
«Io. Sarei. Cosa?», dice, la voce più bassa di cinque ottave.
Ho sentito bene, ha detto io?
Fingo di pensarci su, alla fine batto anche le mani. «Vediamo», gli faccio, «Danny DeVito nel video di Steal My Girl afferma che Styles sia Love».
Ho già visto quella faccia.
Su Tomlinson, un attimo prima che l'uccidessi. Mi aveva insultato, il suo viso però era cambiato. Era diverso.
«Tu non so», continuo a stuzzicarlo. «Forse tu sei Stink?».
E Payne ruggisce.
Joe abbassa le mani. Mi guarda, dice: «Sei contento stronzo? Ci hai fatto ammazzare».
Payne salta, si aggancia al collo di Joe senza che lui abbia il tempo di reagire. Pelle e camicia iniziano a fumare. Payne fa un giro in cerchio, preciso come un'apriscatole.
«Nessun. Love», dice.
La testa di Joe si stacca. Rotola a terra, si mette a bruciare.
«Nessun. Amico», giura Payne.
Il corpo senza vita di Joe precipita, prima sulle ginocchia, poi di petto. Nell'aria inizia a diffondersi un profumo di grigliata estiva, quello che sentiresti dai cessi di un campeggio.
Payne mi osserva. «Io so chi sei», sibila.
I suoi occhi, la sua voce. Ogni cosa in lui ora è diversa.
«Tu. Sei. Cucciolo», strilla.
E nel mio cervello una vena si chiude.
I denti mi si stringono, i pugni pure.
«Che cazzo significa», gli faccio.
Per una misera frazione di secondo, lo sguardo di Payne vacilla. Lui fa un passo indietro. Rimane lì a osservarmi, pronto a scattare.
«Io...», dico fremendo, «io sono L'Erede del Morso».
Saltiamo assieme.
In volo urlo: «Attackensplugen».
È una mossa tutta mia, l'ho imparata giocando a Street Fighter - a Minh non l'ho mica detto.
Payne mi sfiora un ginocchio e lo manda in fiamme.
Il mio calcio rotante gli spezza le costole e lo manda in orbita.
Sbatte contro il tavolo, finisce a terra. Rimbalza un paio di volte.
Punta i gomiti, si gira, prova a risollevarsi.
Io atterro sopra di lui.
Mentre mi spengo il ginocchio, con l'altra mano lo inchiodo ai vetri del pavimento - quelli della porta.
Payne urla.
«Prima del bagnetto la punturina», gli faccio io.
Lui mi guarda, dice soltanto: «No. La punturina no».
«La punturina sì.»
Estraggo il taser. Lo sollevo, premo il tasto on.
Payne allarga gli occhi.
Il taser non si accende.
Alzo un dito. «Scusa un attimo». Scuoto l'arma. Schiaccio di nuovo il tasto. Nulla. Sospirando, lo giro. Lo apro, controllo le batterie. Ci sono tutte. Lo richiudo. «Si dev'essere rotto», faccio sapere a Payne.
Lui ride, una risata da vero villain.
Io alzo le spalle.
Calo il taser, spento, tutto dentro la faccia di Payne.
Che smette subito di sghignazzare.
Sento gli elettrodi che gli bucano gli occhi, schiaccio più forte e il taser penetra a fondo nella sua carne frantumandogli le ossa del cranio.
Payne ulula.
«Bravo, canta», suggerisco io. «Canta che ti passa».
Il sangue di Payne mi insozza mani e vestiti. Forse lui non canterà ma una melodia leggera, quasi inesistente, inizia a risplendere nelle stanze vuote del mio cervello. Sciami di pulviscolo, il sussurro di un sole pallido, danzano nell'aria della mia visione agitando tende gialle e vaporose, pregiate come vele antiche.
E c'è qualcuno in fondo a quelle stanze.
Sollevo la mano, Payne ha smesso di soffrire da un pezzo. Il taser lo lascio lì, infilzato nella sua faccia. Una lapide. La terra umida di un cimitero.
Tendo le orecchie, la sento davvero una musica. La dura carezza di tasti sopra un ricamo di corde metalliche.
Viene dall'alto, dai piani superiori.
Il suono del pianoforte mi provoca una paralisi d'incanto. Riconosco questa canzone. Nel video, gli One Direction ci sono tutti e cinque, ancora assieme. Su un palco, al centro di un vortice di fotografie. Ricordi. Poi loro che tornano dei bambini. E le loro madri, e i padri, e i fratelli.
«Nessun. Love», sussurro, parafrasando Payne.
Che penserebbero ora di quei bambini, vedendo i mostri che sono diventati?
Davanti al bagliore celeste abbasso gli occhi.
Mi guardo le mani. Tremano, sono macchiate di sangue.
Qualcosa di sporco esiste anche in me, mi dico.
Qualcosa di molto oscuro.
Payne, di nuovo un ragazzino, sale nell'aria. Forse sorride, adesso è libero.
Come colpito dagli echi del mio sconforto, il pianoforte interrompe il suo canto.

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