Mostro finale: "Harry Styles"

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Poiché ho pubblicato in ritardo, ecco il riassunto delle puntate precedenti.

Riassunto delle puntate precedenti: Mark Owen soffoca Louis Tomlinson, sfonda il cranio a Payne, strappa il cuore a Horan.

Bene, e ora il capitolo 14.


***


Apro la bocca e infilo la lingua nel ghiaccio, tingendolo di rosso.
Sono in cucina, tornare qui è stato facile. È bastato seguire le orme di Joe.
Mi riprendo la lingua, il Bloody Mary lo svuoto nel lavello. L'acqua scorre e lava via tutto.
Davanti alla vetrata, fingo di stringere un microfono. «P'ova, p'ova», faccio. «Uno, 'ue. Uno, 'ue. Fà. Fà». Scuoto la testa, sospiro. «Fà. Fà. Sà». Merda, che dolore.
Porto una mano alle labbra e lo zombie nel vetro fa altrettanto. Rimaniamo lì a fissarci. Questo zombie avrebbe bisogno di una ripulita. Poi alle sue spalle avviene un movimento confuso.
Una voce dietro di me dice: «Scusi, ma il cancello era aperto e...». Mi giro, c'è una cicciona davanti alla porta. Mi vede, la sua faccia e le sue parole si spengono progressivamente. «... e c'era un signore enorme per terra che». Stop. Sviene, si sgonfia come un dirigibile.
Altre due ragazze sbucano alle sue spalle. La prima, gli occhi sgranati, si porta una mano alla bocca. L'altra non fa una piega. Solo un leggero, impercettibile battito di ciglia, come davanti a una luce improvvisa.
La fisso, lei mi fissa.
Vorrei dire qualcosa, ma non so cosa.
La sua amica le tira una manica, balbetta: «Andiamocene, Lara». Ma Lara non si muove. Rimane lì a fissarmi, e allora succede una cosa strana. È come se dietro agli occhi di questa ragazza scorresse un treno, silenzioso e interminabile. E persone, un intero esercito di facce. Mi guardano, la fronte sui finestrini, ognuna con la propria tragedia personale. Il treno passa, rimane la campagna desolata. Lara afferra un braccio della cicciona, l'altra fa altrettanto. Iniziano a trascinarla via. Fuori dalla cucina, e fuori dalla mia vita.
«Ehi», grido, ma non ottengo risposta. «Fapefe mica 'ov'è il bagno».


Salgo ai piani superiori, deciso a impossessarmi di una doccia. Ma appena giro l'angolo mi blocco. Una lama di luce blu taglia in due il corridoio fuoriuscendo da una stanza. Dentro, su una scrivania, ci trovo un computer, acceso. Nello schermo, i piedi di Tomlinson. Morti, dimenticati sul prato. Si sente il fruscio del vento, non è un'immagine, è un video. Viene dal drone.
Pianto le mani sul tavolo. Lontani, sul prato, Justin e Bieber giocano a rincorrersi, piccoli come formiche. Una nuvoletta rossa giace in un angolo del monitor, al centro c'è un numero altissimo. Afferro il mouse, ci clicco sopra, si apre una chat.
Mi siedo, la mano sul petto.
Ripenso alle ultime parole di Tomlinson.

«Signore e signori, pare sia giunta la mia ora. Louis Tomlinson saluta tutti i suoi fan.»

I numeri sono i messaggi non letti. Cioè migliaia. Ecco con chi ce l'aveva Tomlinson, non era andato del tutto. Leggo a caso, c'è chi si chiede se stia dormendo. Qualcuno lancia faccine alla cazzo. Uno dice che secondo lui s'è sentito male. Sto per digitare una risposta stronza quando il flash di un'idea mi illumina il cervello. Spingo coi piedi, la sedia gira e pattina sul parquet. Si ferma. Guardo il soffitto. Davvero lo voglio fare?


Alzo il mento, apro la bocca, la doccia me la riempie tutta. Sarà bollente ma ho sete. I miei indumenti si gonfiano, il sangue e l'acqua vorticano nello scolo. Ho tolto solo le scarpe.
Ploch, fanno i miei vestiti sul pavimento. Nudo, sconfino nel guardaroba di Tomlinson. Mi piazzo davanti a uno specchio. Lo zombie, ora pulito, mostra orgoglioso una pelle livida e bruciacchiata. Alzo un braccio, ci tocchiamo le dita.
Tomlinson vestiva lungo, ma almeno ha roba aderente. Trovo qualcosa di comodo, mi infilo le scarpe - non cambierei le mie Adidas Hamburg per nulla al mondo - ed esco dalla stanza.
In giardino, mi chino sul drone. Justin mi lecca una mano. Anche Bieber si avvicina, il muso basso. Lo accarezzo, lui rizza le orecchie. «E facciamo'o».


Sono lo stracazzuto pilota del Cessna 172 Skyhawk di Louis Tomlinson. Largo un metro e mezzo, dronizzato da una GoPro HERO4 edizione argento, ma pur sempre un monomotore quadriposto.
E sparo incubi in giro per l'etere.
«Tomminfon abbiamo un p'obbema. Tomminfon abbiamo un p'obbema.»
In alto, sulla cima del mio braccio - quello buono - l'aereo sfreccia tra i corridoi del castello solleticando le teste degli animali. Dopo aver saputo di Louis, ora il mondo conoscerà le sorti di Payne.
In taverna zoomo sul taser, tuttora incagliato nella sua faccia. Poi passo a Pit, la guardia del corpo semiacidificata. Il petto di Pit si alza e si abbassa, è ancora vivo. «Ci vediamo, Pit», e volo via, diretto alle cantine.
Il drone penzola a testa in giù nel vaso di metallo. «E 'ì in fondo», dico, «c'è il cuo'e g'ande g'ande di Ho'an». Il corpo l'ho già documentato. Il drone ci è passato sopra come un aereo vero, come se quelli a terra fossero i resti di un gigante. La stanza delle torture l'ho evitata, troppi brutti ricordi.
Bene, ho fatto. Caffè?
Rialzo gli occhi e l'esserino è lì, ignudo, appoggiato al corrimano. Ricorda un angioletto del Parmigianino, ma senza ali.
Crash, fa lo Skyhawk sul pavimento.
Lo osservo. Lui pure, poi si gira e fugge via.
Io rimango qui, immobile. A bocca aperta.
Da qualche parte ai piani superiori, sento la sua risata.


Inseguo l'elfetto biondo e il suo culetto rosa per tutto il castello. Perdo l'orientamento e finisco davanti alla scalinata in marmo, quella a due rampe. L'esserino è lassù, sul pianerottolo. Anzi, ce ne sono due. Identici. Mi guardano, poi si mettono a fare una cosa assurda. Danzano. Un giro, due giri. Al terzo giro si voltano, aprono la bocca. Mi si gela il sangue. È per via dei loro denti, luccicano come rasoi. Saltellando, i due svaniscono oltre le scale.
E qualcosa, nella mia testa, dice: Mark, i giochi sono finiti. Leva le tende, abbandona la nave, dice grazie e arrivederci. Sto per darle ragione quando rivedo me stesso, disteso sul mio divano. Un po' più vecchio, ma sempre nella suite del Waldorf Towers. Gli occhi sbarrati, devastato dalla droga, probabilmente morto. E ripenso a Minh, e a Robbie. E anche a Horan, a ciò che mi ha mostrato poco prima di andarsene. E alle ragazze in cucina, a cui credo di aver salvato la vita.
E mentre penso, il sangue cola dalle mie mani - questo perché le unghie affondano nella carne.


Percorro l'androne più sfarzoso di tutta Oheka Castle con la disillusione di un kamikaze - ma entrambi i medi alzati. In alto sulle pareti, facce scure e silenziose controllano le mie movenze dalle finestre dei quadri. Un portone, fine della corsa. Bang bang, fa l'eco della mia mano sul metallo.
Nessuna risposta.
Spingo, l'anta ruota, la prima cosa che scorgo sono gli esserini, solo che adesso sono tre. Non si voltano, forse mi stavano aspettando. Lavorano su una tela immensa, posta al centro della sala. Uno agita un pennello, gli altri due reggono la tavolozza dei colori. Giro attorno a quell'incubo come un lupo, studio il disegno. C'è un ragazzo su uno sgabello, le gambe incrociate. Stivali lucidi, un cappotto nero.
Un vento leggero, una voce, dice: «Cosa ne pensi».
Mi giro, e in fondo alla sala c'è lui. Il ragazzo del quadro. Stessi indumenti, stessa criniera di capelli, stessa identica posa. Solo che è quello vero.
Harry Styles mi osserva, con un balzo scende dallo sgabello. Solleva un braccio, mi viene incontro, forse vuole salutarmi. È sereno, non smette mai di sorridere. Ora capisco perché è lui, il più ambito. Perché dei quattro Harry è la stella, e gli altri i pallidi satelliti. Persi in un'orbita fumosa, oscurati dalla sua luce, bruciano nel suo riflesso tutte le volte che Harry sceglie di brillare. È l'essere più affascinante, più incredibile su cui abbia mai posato gli occhi.
E sono qui per ucciderlo.
Come intuendo i miei pensieri, il ragazzo dice: «Hai un compito».
Faccio un passo indietro, lui alza le mani in segno di pace. Mi sento un inserviente rinchiuso nella gabbia del leone. Mi giro, gli esserini ora sono dietro di me. Sbarrano la mia unica via di fuga.
Qualcosa mi afferra un braccio.
È Harry, è qui.
Ruota la mia mano, osserva il mio palmo. Alza lo sguardo e i suoi occhi sono diversi. Le pupille hanno mangiato tutta la parte bianca, sono occhi alieni, occhi da Dark Gift. Per terra, vicino allo sgabello, un oggetto che riconosco luccica per un istante.
Guardo di nuovo quelle orbite nere.
Harry sta facendo qualcosa al mio polso. Sento la carne irrigidirsi, farsi dura come il marmo. Mi fissa, dice: «E allora finiscilo, Wonder Boy». Gli trema una palpebra. Un tic, o forse l'ultimo segno di umanità. Tira il braccio verso di sé, trascinandolo nella sua stessa carne. Trapasso Harry Styles da parte a parte, lui vomita un denso fiotto di sangue.
Dietro di me gli esserini urlano.
No, tutto il castello urla.
Styles chiude gli occhi, le braccia e la testa che si afflosciano, che penzolano nel vuoto. Rimaniamo così, congelati in questa posa, col mio braccio che è l'unico sostegno a impedirgli di precipitare.
Avevo un compito, è vero. Ma a quanto pare è terminato.
Harry Styles, l'ultimo degli One Direction, è morto.


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