Capitolo 2

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Capitolo 2

Le sei ore seguenti sembrarono durare un'eternità. Passai la maggior parte del tempo dormendo, con le cuffie nelle orecchie e le mie canzoni preferite a basso volume.

A svegliarmi fu l'atterraggio un po' brusco dell'aeroplano, con le scuse del pilota per lo sballottamento momentaneo. Salutai con un buffetto il bambino al mio fianco, che mi aveva fatto compagnia durante il volo e scesi velocemente dall'aereo, ritirando il mio bagaglio dai nastri trasportatori.

Dopo un'intera mattinata decisi di fare una veloce tappa in bagno. Al viaggio seguente, l'ultimo di quella giornata infinita, mancavano ancora venti minuti. Cambiai la maglia che avevo indosso con un maglioncino bianco, in netto contrasto con gli aderenti jeans neri e gli scarponcini beige, ma decisamente più adatto alla temperatura del posto. Per sembrare un minimo più in ordine, legai capelli in una coda alta, le cui punte sfioravano continuamente la nuca libera, procurandomi spesso un fastidioso solletico. Appena prima di uscire dal bagno, però, mi diedi un'ultima occhiata allo specchio. I capelli chiari e lisci erano ben tirati in alto, lasciando vedere la forma ovale del viso, dai tratti troppo delicati e ancora un po' infantili per una ventenne. Un tenue rossore era sparso sulle guance e sul naso dalla punta all'insù, mentre gli occhi, di un grigio chiaro, erano contornati da un leggero strato di mascara sulle ciglia folte, rese molto più visibili dalle grandi lenti degli occhiali dalla montatura squadrata. Le labbra piccole e carnose, invece, erano screpolate in più punti, dando un velo di opacità al loro naturale colore rosso ciliegia.

Nonna Angie ripeteva spesso che, eccetto per il colore degli occhi ereditati da nonno Karl, fossi la perfetta copia di mia madre da giovane. Di lei mi era rimasto solamente l'orologio da polso che ancora indossavo, ma di ricordi purtroppo non riuscivo a rievocarne quasi nessuno e così, in realtà, preferivo. Pensare a lei e al totale abbandono in cui ci aveva lasciati, mi faceva provare un gran vuoto e tanta delusione. Il male maggiore però, fu portare via con lei mio fratello, il gemello dal quale non meritavo di separarmi.

Scossi la testa e chiusi la zip della felpa grigia con uno scatto. Basta ricordi, pensai decisa.

Pochi minuti dopo, raggiunsi il bus semivuoto per l'ultimo viaggio della giornata e, dopo poco meno di un'ora, misi finalmente piede a Fort Hope.

Era una piccola cittadina in Ontario che, con poco meno di 2.000 abitanti, era conosciuta soprattutto per la vasta area protetta della Fort Hope Indian Reserve. Nella breve ricerca fatta ad Ottawa, neppure Google Maps era riuscito a mettere a fuoco questo posto, facendolo sembrare un luogo quasi totalmente assorbito dalla natura.

Non appena feci un passo fuori dal parcheggio dove il bus si era fermato, però, mi ritrovai in un posto completamente diverso. Le persone passeggiavano tranquille lungo le strade ricche di piccoli negozietti, chiaccherando e scambiando saluti. Sembrava che si conoscessero tutti, ma in una cittadina piccola come questa non me ne stupii poi tanto.

Un po' disorientata tirai distrattamente lo spallaccio sottile dello zainetto, schiacciandolo un po' più forte contro la mia schiena. Ero emozionata, certo, ma non ero molto sicura di quello che avrei dovuto fare. Presi un respiro profondo e mi guardai intorno. L'orario era ormai tardo, erano le nove di sera passate, e dovevo trovare sicuramente un posto in cui riposare quella notte. Strizzai gli occhi dietro le spesse lenti degli occhiali, cercando di mettere a fuoco l'insegna illuminata di una tavola calda all'angolo, un paio di isolati più giù.

Probabilmente lì avrebbero saputo darmi qualche indicazione.

Mi incamminai a passo svelto, stringendo per bene la valigia nella mano sinistra e cercando di ignorare il più possibile il freddo gelido della sera. Non appena misi piede all'interno del piccolo locale, il calore mi inondò gli arti infreddoliti, rilassandomi all'istante. Seppur con gli occhiali appannati, riuscii ad osservarne vagamente l'interno, decorato in stile anni cinquanta: dal pavimento a scacchi bianco e nero ai colori accesi del mobilio, tutto lo ricordava. Non vi era molta gente seduta all'interno, solo qualche coppia intenta a finire il proprio pasto o a chiacchierare. Mi avvicinai al bancone, la cui vernice gialla era andata sbiadendosi e mi sedetti su uno degli sgabelli in ferro dal cuscinetto in pelle rosso, un po' cigolante. Avvicinai l'ingombrante bagaglio nero alle mie gambe, tirando un po' giù la zip della felpa. Una ragazza dai corti ricci scuri e gli occhiali tondi, si affrettò nella mia direzione con una caffettiera a stantuffo fumante tra le mani.

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