2.

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Era solo un sorriso, nulla di più...

Tremendamente bello.

La messa stava finendo, ma non volevo finisse il nostro momento.

Così continuammo a guardarci e a sorridere finché la messa non finì.

Sam ed io ci alzammo come tutti del resto è ci mettemmo a parlare.
<Gwen, dietro di te>dice sussurrando e tossisce per indicare lui.

Stava lì, dietro di me con il braccio sinistro sulla nuca e con il suo sorriso impresso nella mia mente.

<Hey...> mi dice. Semplicemente "Hey". Non realizzavo, mi stava parlando.
<Ehm...Hey> gli dico imbarazzata.
<Gwen, giusto?>
<Si, hai capito bene da quello che ti ho detto mimando il mio nome> e gli sorrido.
Inizia a ridere lievemente.
<Wow...> dice di colpo.
<Cosa?> Oddio che sta succedendo? Sicuramente si sarà accorto che io non sono il suo tipo..."ma che stai dicendo Gwen?" Interviene la mia vocina.
<I tuoi occhi, mi hanno stregato>
Cosa? No, aspetta, cosa? Questo ragazzo mi sta facendo un complimento?
<Ehm...>
<Dico sul serio!>
<Grazie...> gli dico. Mi sentivo accaldata, troppo. Non ci credevo.

<Forse non ci vedremo più> dice dopo una breve pausa.
<Non verrai più qui?> Gli chiedo.
<Ho i miei giorni contati> mi dice e dopo apre le mani facendomi sprofondare in un abbraccio.

E mentre questa eternità non aveva fine la sua e la mia vita si.

Alla fine ci eravamo salutati a malapena forse scossi dopo l'accaduto.

Un ritrovamento.
Come se già ci conoscessimo. Almeno avevamo una cosa in comune: il cancro.

Io non ho mai chiesto di venire al mondo e poi per fare cosa? Per vivere da sola. Non potevo dirlo in giro altrimenti tutti mi offrivano la loro compassione. Io non me ne facevo nulla.

Decisamente tralasciai l'evento. Non si ricorderà più di me pensavo. Mi sbagliavo.

Royston Peter Gayerold mi chiamo quello stesso pomeriggio.

C'era il sole: un enorme stella infuocata che mi riscaldava.

<Gwen!> Mi dice con voce allegra.
<Royston?> Domando.
<Si, scusa se ho trovato il tuo numero sui registri all'uscita> mi dice.
<Non preoccuparti. Dimmi, è successo qualcosa?>
<Volevo mantenere il contatto>
<Mi fa piacere> gli dico.
<Devo andare, scusa. Ci sentiamo>
<Okay, ciao> e chiudo.

Cosa cercava quella chioma bionda?

La giornata non voleva passare. Volevo rivivere quel momento come non mai ma infondo lo sapevo: non potevo avere relazioni d'amore.

La sera aspettavo una sua chiamata e nell'attesa vidi una serie TV.

Le ore passavano ma non potevo aspettarmi nulla da lui. Era solo un ragazzo.

Mi stesi sul letto e mi avvolsi nella sottile lenzuola azzurrina che copriva il letto per poi sprofondare in un sonno profondo.

La mattina seguente mi svegliai presto, scendendo le scale assaporai tutto con l'olfatto. Mamma aveva preparato il bacon e le uova.

Dopo la colazione e un breve saluto a mia madre mi dirigo in macchina completamente vestita. Accendo la macchina e mi dirigo nell'entrata della chiesetta per un'altra noiosa lezione di vita altrui ma con una motivazione in più: l'avrei rivisto.

Infatti fu' così.

Eravamo riuniti in cerchio, sempre con più persone, per parlare dei nostri problemi ma io non parlavo mai. Tuttavia i miei occhi erano rapiti dal suo sguardo che vagava nel vuoto.

"Così bello ma così impossibile" mi ripetevo nella testa.

Dopo il gruppo di supporto, usciamo tutti mettendo la firma delle presenze su un registro rosso chiaro, scolorito come anche le sue pagine gialline.

Varco l'uscita e mi sento tirare per poi appoggiare le mani fredde su un qualcosa di forte e tonico e mi sento stringere da dietro. Alzo lo sguardo. Royston mi teneva stretta a se' come catturata dal suo profumo.

Dopo poco ci stacchiamo.
<Royston!> Dico impacciata.
<Puoi chiamarmi Roy> dice.
<Ehm...Roy!>
<Sei libera per prendere una crepés?> Mi chiese guardandomi e alzando un sopracciglio per ammiccare.
<Oh...si, grazie> gli sorrisi leggermente. Quel sorriso sincero che poche volte facevo.

Avvisai mia madre che era venuta a prendermi presentandogli Roy.
<Piacere, sono sua madre, Medelin Colten> disse mia madre.
Roy piegò le ginocchia arrivando all'altezza di mia madre seduta in macchina per salutarla.
La salutai anch'io e se ne andò lentamente con il mio sguardo fisso sulla macchina che oramai teneva da più di 20 anni.

Ci incamminammo verso un crepéria e prendemmo quello per cui eravamo andati.
<Come la vuole?> Mi chiese educatamente il ragazzo diciannovenne davanti a me.
<A metà, nutella bianca da un lato e quella nera dall'altro.> Dissi
<La solita!> Mi assecondò
<Si giusto> gli sorrisi.
Poi fece la stessa domanda a Roy e lui chiese di farla tutta tradizionale, così ci facemmo un giro dopo aver finito di mangiare.

<Da quando sei in quel gruppo di supporto?> Chiesi
<Non ci vengo da molto, accompagno solo un mio amico.>
<Chi?> Chiesi ancora.
<Il ragazzo sulla sedia a rotelle, Luke. È mio amico da sempre ma dopo un'incidente ha avuto una paralisi alle gambe, così lo accompagno e resto anch'io a sentire le solite cose.> e concluse.

<Parlami di te.> mi chiese appena ci sedemmo su una panchina rivolta verso dei cancelli che portavano ad un parco.
<Di me?> Dissi stupita.
Annuì.
Presi un bel respiro e incominciai a parlare.
<Sono una comune ragazza a cui la vita ha recato molte sofferenze. Quando ebbi 12 anni mi diagnosticarono un cancro allo stomaco, all'inizio comprendeva solo pochi organi ma quando ebbi 15 anni si diffuse anche più sopra iniziando a prendermi anche i polmoni. A 13 anni mio padre morì in una sparatoria, faceva il poliziotto e quello stesso giorno ci diedero la notizia. Mentre io respinsi tutto dentro, mia madre diventò più forte. Una notte, quando ebbi 14 anni mi portarono in ospedale sospettando una mia morte visto che il tumore era incontrollabile poiché mi scordai di prendere i farmaci. Mia madre diceva di lasciarmi andare ma io non lo feci, non potevo, dopo tutto sarebbe rimasta sola e questo non me lo sarei mai perdonata. Il resto degli anni andò bene, finché non mi consigliarono di andare a quello stupido gruppo di supporto perché mia madre e i medici pensavano fossi depressa: vedevo la stessa serie TV, non parlavo, restavo al telefono e mi dondolavo sempre sull'altalena a forma di ruota crostuita da mio padre su una piccola ma grande quercia dietro casa. Passarono 4 anni dalla morte di papà e sentivo, qualche volta, mia madre piangere per mio padre mentre io le andavo vicino e l'abbracciavo dicendogli che sarebbe andato tutto bene. Non ho molta vita sociale e non voglio neanche far affezionare a me persone vedendole un giorno piangere per la mia morte così mi congedavo in solitudine coi miei pensieri e così fu' fino a ieri, poi ho incontrato te.> Gli dissi tutto d'un fiato.

Mi guardò esterrefatto, quando poi gli chiesi di parlarmi di lui non cadde in tanta tristezza anzi mi fece ridere.
<Sono un comune ragazzo a cui la vita ha recato tanti scherzi.
Al liceo ero il tipico capitano della squadra di calcio: bello, biondo e pieno di ragazze; poi mi diagnosticarono un cancro al cervelletto dicendomi che non potevo sforzare troppo la mia mente o stressarmi giocando a pallone. Ma a me poco fregava così continuai a giocare nascondendolo a tutti. In una partita caddi a terra lanciando un urlo e mettendomi le mani alla testa, mi trasportarono in ospedale dicendomi che non c'era niente da fare ma io combattei: il mondo aveva bisogno del più bel ragazzo che avesse un tumore,  e per compassione dei miei genitori non giocai più a calcio. Cattiva la vita quando ami qualcosa. Ora ho 18 anni e non ho mai concluso la scuola. Mi sento importante!> Disse ridendo all'ultimo.

E proprio in quel momento capì che avevo trovato la persona più ottimista su questa terra.


Anche le Stelle vanno in ParadisoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora