16. Il ragazzo dal sorriso triste

524 42 1
                                    

«Perché?»
Questa fu la sola parola che Frank riuscì a pronunciare dopo che ebbi finito di raccontare la mia favola. Anche se forse con le favole non aveva niente in comune. Tuttavia non seppi rispondere a quella domanda e per un momento pensai anche che, forse, la storia che avevo raccontato non avesse senso.
Frank scostò la testa dal mio petto, dove era stata fino a quel momento e si voltò dall'altra parte. Ebbi paura che volesse piangere, perché tutte le volte che succedeva sentivo come se qualcosa morisse dentro di me, ed era la sensazione più brutta potesse provare una persona.
Gli poggiai una mano sulla spalla e mi sporsi vicino al suo viso per vedere se avesse gli occhi lucidi, ma non lo erano per niente: sembrava solo stesse pensando.
Mi sporsi ancora un po' verso di lui e gli bacia la tempia. Lui non reagì in alcun modo, e se la sua unica reazione doveva essere quella di non reagire, avrei quasi preferito che si fosse messo a piangere.
Non sapere che cosa avesse o cosa gli stesse vagando per la testa, mi innervosì a tal punto che strinsi un pugno, ma cercai subito di calmarmi.
«Ehi Frankie» lo chiamai piano, «che hai?»
Finalmente si voltò verso di me. «Tu pensi che questa possa essere la nostra storia?»
Lo guardai confuso. Era quello che pensava? Beh, perché molto probabilmente aveva ragione.
Gli accarezzai piano una guancia. «No» mentii, «assolutamente no. Noi staremo per sempre insieme.»
«Come fai a dirlo?» domandò lui mentre si girava sulla schiena e si metteva a fissare il soffitto.
«Non lo so» feci, «però lo spero. E penso che se una cosa la si desidera molto la si possa anche ottenere.»
«La nostra non è una storia a lieto fine» disse serio. «È la realtà, Gerard.»
Aveva lo sguardo serio e fisso in alto, pensai che fosse troppo serio e mi preoccupai.
«Che ti succede?» lo interrogai a bassa voce.
«Mi succede che ti amo ma ho paura» affermò. «Ti avevo già detto che ho paura e arrivi tu che mi racconti una storia del genere!» Il suo tono di voce si stava lentamente alzando.
Mi sollevai a sedere, ma lui rimase lì come era. «Io...» Non trovai le parole.
«Tu cosa Gerard?» mi spinse.
«Scusami.» Abbassai lo sguardo e presi a guardarmi le mani.
«Ti dispiacerebbe andare via?» chiese. «Voglio stare un po' da solo.»
Frank non mi aveva mai fatto una richiesta del genere, mai. Non mi sarei mai sognato che un giorno mi avesse chiesto di andarmene per lasciarlo solo. Io tutti i giorni mi facevo in quattro per stare anche solo una misera ora con lui, perché sapevo che non l'avrei più rivisto e lui mi chiedeva di andarmene.
Rispettai il suo desiderio e senza dire nulla scesi dal letto e me ne andai. Non mi rivolse nemmeno uno sguardo. Neanche un saluto.
Appena scesi in strada diedi uno sguardo al mio orologio. Erano le una. Mandai un messaggio a Ed nel quale lo avvertivo che non sarei tornato a pranzo e mi diressi verso la piazza della biblioteca.
Non capivo. Frank mi amava, me l'aveva detto anche poco prima di mandarmi via, ma non aveva senso il suo comportamento. Stavamo insieme o no? Certo, e allora perché mi aveva trattato in quel modo?
Cercai di scacciare tutti quei pensieri. Alla fine aveva tutto il diritto di stare un po' da solo, e io certo non potevo impedirglielo.
Misi le mani in tasca, sperando di avere qualche moneta per comprarmi qualcosa da mangiare. Per fortuna non avevo l'abitudine di svuotare le tasche della giacca e vi trovai una serie di resti con cui avrei potuto prendermi qualcosa da mettere sotto i denti.
Percorsi la circonferenza della piazza due volte finché non mi decisi ad entrare in un bar e prendere un panino. Me lo feci incartare e mi diressi verso il parco, che per fortuna non era molto lontano.
Vagai senza una meta fra le aiuole e gli alberi secchi mentre ogni tanto davo un morso al mio pranzo. All'improvviso vidi la panchina vicino alla quale io e Frank ci eravamo dati uno dei baci più belli.
Sentii qualcosa allo stomaco, una sensazione di tristezza e frustrazione che mi fece passare la fame in meno di un secondo. Gettai il panino mezzo mangiato in un cestino dei rifiuti e poi mi avvicinai a quella panchina. Non mi ci sedetti, rimasi a guardarla come se fosse un fantastico quadro in un museo.
Non so quanto rimasi a contemplarla, ma alla fine mi sedetti per terra e nascosi la testa fra le gambe tirate vicino al petto. Presi qualche profondo respiro e cercai di calmarmi, ma alla fine non ce la feci. Una lacrima mi bagnò la guancia e mi scese fino al mento per poi cadere sui pantaloni, dove si creò un piccolo alone poco più scuro.
Non lo negai a me stesso, Frank mi aveva terribilmente ferito e stavo male, malissimo che sarei potuto morire.
Un'altra lacrima mi scese lungo la guancia ma questa volta l'asciugai con rabbia.
Mi alzai di scatto e cominciai a correre, non sapevo verso dove, volevo solo andare il più lontano possibile da tutto e da tutti. Non volevo più sapere di nessuno, volevo solo che quei dieci giorni alla scadenza del tempo finissero e poi la morte. Non volevo nient'altro.
Le gambe non rispondeva più al cervello, che ormai non funzionava. Le braccia si muovevano coordinate per rendere la mia corsa ancora più veloce. Gli occhi sbarrati e il vento che gli faceva bruciare. I capelli che sbattevano contro il viso.
Non pensavo, correvo e basta.
Forse non mi fermai in tempo e qualcuno mi venne addosso, o io andai addosso a qualcuno.
Caddi per terra e per un momento rimasi fermo e immobile lì dove ero.
«Gerard!» Una mano mi si era posata su una spalla e la voce preoccupata di una ragazza mi stava parlando.
Lentamente misi a fuoco chi fosse la persona con cui mi ero scontrato e vidi due occhi blu che mi guardavano con apprensione.
«Che è successo?» fece Rachel accarezzandomi una guancia.
Non dissi nulla, ma lei mi aiutò a rialzarmi e mi fece camminare per un po', anche se io non mi resi bene conto di dove mi stesse portando.
«Attento agli scalini» mi avvertì.
Alla fine sentii che mi aiutava a sedermi su qualcosa di morbido. Io mi distesi e lì rimasi.

The AfterglowDove le storie prendono vita. Scoprilo ora