«Mikey, vieni a giocare!»
Ci sono due bambini, uno un po' più grande dell'altro. Sono alla finestra della cucina a guardare fuori: piove. Ma appena il più grande grida di andare a giocare in giardino niente e nessuno li impedisce di uscire all'acqua.
«Arrivo, Gee!»
I due bambini escono nel giardino sul retro e cominciano a correre sotto la pioggia, ma non se ne preoccupano, si divertono e basta.
Ad un certo punto il più grande saluta qualcuno che si è appena affacciato alla finestra dalla quale poco prima i due bambini stavano ammirando cosa stesse accadendo fuori.
«Ciao nonna!» grida allegro. C'è una donna, che sorride al nipote.
«Bada bene che Mikey non si faccia male» gli raccomanda. Il bambino annuisce e torna a giocare.
La pioggia comincia a scemare e i due fratellini ne approfittano per giocare con la terra bagnata e morbida. Costruiscono una specie di castello.
«Ti piace?» chiede il più grande. Il bambino più piccolo annuisce sorridendo e abbraccia il fratello.
«Fra quanto torna papà?» domanda poi.
Il fratello maggiore abbassa lo sguardo. «Papà non torna.»
Per quanto ormai il bambino sia abbastanza grande per capire, ancora non si vuole spiegare quello che era successo e ogni tanto chiede al fratello, alla mamma o alla nonna dove sia il padre.
Si accascia su se stesso, sconsolato.
«Dai Mikey» il più grande gli prende una mano. «Torniamo dentro.»
Non ebbi tempo per ragionare sulla visione. Frank era ancora davanti alla porta, scioccato e bagnato fradicio. Lo feci entrare e lo portai in bagno. Gli diedi dei vestiti e aspettai che si asciugasse e cambiasse. Poi andammo in camera mia.
Aveva ancora i capelli un po' bagnati. Ci sedemmo sul letto e cominciai ad asciugarglieli con l'asciugamano che mi ero portato dietro.
«Mi vuoi raccontare bene quello che è successo?» gli domandai mentre posavo l'asciugamano.
Ogni tanto qualche lacrima gli scappava ancora e tremava. Lui annuì alla mia domanda e si strinse le ginocchia al petto.
«Ero in salotto a guardare la tv e mia mamma stava parlando a telefono con qualcuno» si passò una mano sul viso. «Non capivo con chi stesse parlando, in realtà non mi importava: sta sempre al telefono con le sue amiche. Ma poi ha cominciato a gridare, così ho abbassato il volume della televisione per capire cosa stesse succedendo. Diceva qualcosa tipo: "ti devi occupare di lui, è un ragazzo con dei problemi, non ha amici, non posso fare tutto da sola". A quel punto ho capito che stava parlando con mio padre. Ma litigano spesso, quindi non ci ho fatto molto caso. Poi ha detto una cosa, mi ricordo le precise parole.»
Ricominciò a piangere silenziosamente e incastrò la testa fra le ginocchia che aveva stretto al petto e che aveva circondato con le braccia. Mi avvicinai un po' e gli accarezzai la testa. L'alzò un po' e fra le lacrime riuscì a pronunciare la frase che sua mamma aveva detto al padre al telefono.
"Frank è anche tuo figlio. Abbiamo deciso insieme di adottarlo e di occuparcene, non posso prendermi tutte le responsabilità."
Dopo aver ripetuto le parole che aveva detto Victoria calò un silenzio di tomba. Frank aveva smesso di piangere, io non sapevo cosa dire.
Alzai lo sguardo su di lui e mi fece un mezzo sorriso.
«Ehi Gee, non devi sempre essere così preoccupato per me. Risolverò questa cosa.» Abbassò un attimo la testa e poi tornò a rivolgersi a me. «Risolveremo questa cosa.»
Lo abbracciai e lui ricambiò calorosamente la stretta. Lo sentii che poggiava la fonte nell'incavo fra la mia spalla e il mio collo. Il suo respiro caldo mi faceva il solletico.
«Scusa» sussurrò.
«Per cosa?» domandai. Non c'erano ragioni per scusarsi.
«Ti faccio sempre preoccupare, anche per cose insensate. Mi dispiace, davvero.»
Gli presi il mento fra le mani e gli alzai la testa il modo che mi guardasse dritto negli occhi.
«Frank, non ti devi scusare» sussurrai.
«E perché non dovrei?» chiese lui in un soffio.
«Perché se mi voglio preoccupare per te o meno lo decido io e basta, e tu non c'entri nulla.»
Annuì e mi abbracciò un'altra volta. Orami era diventata un'abitudine, stavamo più tempo abbracciati che divisi.
Non ero abituato a tutto quel contatto fisico. Insomma, da quando ero sulla Terra, Ed mi aveva al massimo dato una pacca sulla schiena, e lo stesso valeva per Ray. Solo Frank si era preso tutta quella confidenza e ne ero felice. Io non avrei mai avuto il coraggio e la forza per fare –diciamo- il primo passo, ma avevo capito che con lui potevo essere davvero me stesso. Non dovevo aver paura di dire o fare qualcosa, perché Frank non mi avrebbe in ogni caso giudicato, lui non lo faceva con nessuno e a maggior ragione non l'avrebbe fatto con me.
Mentre scioglievamo l'abbraccio gli scompiglia i capelli e gli stampai un bacio sulla guancia. Lui mi sorrise.
Avvicinò la sua bocca al mio orecchio. «Ti voglio bene.»
«Anch'io, Frankie. Anch'io.»
Rimase tutta la sera a casa mia, anche per cena.
Non era scosso come in realtà avevo pensato all'inizio. Certo, scoprire che quelli che hai ritenuto per una vita tuoi genitori non lo sono mai stati non dev'essere molto piacevole, ma comunque i veri genitori sono quelli che ti crescono e ti amano, non quelli che ti mettono al mondo. Però Frank avrebbe meritato molto più amore dai suoi genitori. Il padre non lo vedeva mai, e la madre era sempre fuori e si preoccupava solo se la situazione degenerava, come quando era stato a letto con la febbre e aveva smesso di mangiare. Beh, a quel punto chi non si sarebbe preoccupato? Comunque non pensavo che fossero delle persone cattive, assolutamente. Suo padre non lo conoscevo, e quindi non mi sarei potuto esprimere su di lui, ma Victoria era una brava donna, forse non era una brava madre, tutto qui.
Lo riaccompagnai a casa, e facemmo tutta la strada a piedi. Era freddo, ma entrambi avevamo il bisogno di schiarirci un po' le idee.
Frank mi prese la mano e incrociò le nostre dita. Così camminammo tutto il tempo in silenzio. Eravamo quasi a casa sua quando decidemmo di sederci su una panchina che stava vicino alla strada.
«Come stai?» gli chiesi.
Frank alzò le spalle. «Non sono triste, forse solo un po' arrabbiato perché ho dovuto scoprire tutto in questa maniera.»
«Lo so» cercai di consolarlo. «Mi dispiace. Ma i tuoi genitori ti vogliono bene. Non importa se Victoria non è la donna che ti ha partorito, l'importante è che sia la madre che ti ha cresciuto e che ti vuole bene.»
«Sì, hai ragione.»
«Quando hai intenzione di parlarne con lei?»
Sospirò e una nuvoletta di vapore gli uscì dalla bocca. «Non lo so, forse domani. Ma voglio che ci sia anche tu.»
«Non vuoi parlare da solo con lei?»
«No» affermò deciso. «Voglio che ci sia anche tu. Per favore.»
Gli sorrisi. «Certo, dimmi quando e ci sarò.»
Riprendemmo a camminare finché non giungemmo davanti alla porta di casa sua.
«Gee, domani devo andare a fare una ricerca in biblioteca, ti va di venire a farmi compagnia?»
In realtà non sapevo nemmeno che in quella piccola città ci fosse un biblioteca, ma l'avrei dovuto immaginare.
«Va bene» decisi. «Come ci andiamo?»
«Ti passo a prendere verso le quattro. È vicina, ci andiamo a piedi.»
«Okay, allora a domani.» Gli scompigliai affettuosamente i capelli e me ne feci per andare, ma lui mi prese per un braccio e, dopo essersi messo in punta dei piedi, mi lasciò un bacio sulla guancia.
Sorrisi e poi me ne andai.
Mentre tornavo a casa mi tornò in mente la visione che avevo avuto appena avevo visto Frank, non avevo ancora avuto modo di rifletterci.
Avevo visto me stesso che giocavo con mio fratello, Mikey, più o meno avevo sette anni. Non ricordavo quanto anni di differenza fra me e mio fratello ci fossero. In realtà avevo scoperto da poco che avevo un fratello, ma la cosa non mi aveva scioccato, non ricordavo praticamente nulla. Comunque, Mikey, nella visione, sembrava avesse circa tre o quattro anni. Feci un veloce calcolo e pensai che in quel momento aveva praticamente l'età di Frank, se non la stessa, o comunque un anno in più o uno di meno. Mi faceva tenerezza il fatto che avessero quasi la stessa età. Frank sarebbe potuto essere il compagno di classe di mio fratello, e Frank stesso sarebbe potuto essere mio fratello.
Continuai a pensare alla visione. Giocavamo sotto la pioggia. Forse era davvero divertente correre sotto la pioggia, ma pensai che mia madre si fosse arrabbiata quando poi lo scoprì. Insomma, molto probabilmente ci aveva visti tornare in casa completamente zuppi, e sicuramente avevamo sporcato il pavimento. Un sorriso mi sfiorò il volto al pensiero di una mamma arrabbiata per i guai dei figli. Non ricordavo molto di mia mamma, ma le volevo bene comunque, e lo stesso a mio padre, che era morto, e di cui purtroppo non potevo ricordare il volto, e forse non l'avrei mai ricordato. Non è bello non ricordare quasi nulla dei tuoi genitori e della tua famiglia, ti fa sentire come se dentro ti mancasse un pezzo di qualcosa. Comunque, se la missione fosse andata a buon fine, avrei almeno rivisto mia madre e mio fratello.
Nella visione c'era però un'altra persona. Mia nonna guardava me e mio fratello dalla finestra e mi raccomandava di stare attento che non si facesse male. Helena. Ecco come si chiamava: Helena. Ed era anche lo stesso nome che avevo dato alla donna che mi aveva accolto appena morto, nel luogo tutto bianco. Non avevo mai scordato il nome di mia nonna, soltanto non sapevo che fosse il suo.
Mi ricordai che lei era molto importante per me, mi confidavo più con lei che con mia madre o chiunque altro.
Continuai a camminare pensando a Helena e una piccola lacrima mi scivolò sulla guancia, ma l'asciugai subito, per un momento pensai anche di averla immaginata.
Ripresi ad analizzare la visione. Mio fratello mi aveva chiesto quando sarebbe tornato papà, e sembravo piuttosto indeciso su cosa rispondergli. Mi ricordai di un'altra visione in cui era stata mia mamma che diceva a me che mio padre non sarebbe tornato, e a modo mio avevo utilizzato le stesse parole con mio fratello.
Non sapevo quanto fosse orribile perdere il padre, non riuscivo a capire quanto fosse doloroso. Forse perché era passato tanto tempo, o perché non ricordavo bene il dolore. Probabilmente nemmeno se non fossi morto avrei mai realizzato e quantificato la sofferenza.
Arrivai a casa, sbattei la porta così che Ed capisse che ero tornato e poi andai in camera mia. Mi cambiai velocemente e andai a letto. Ero stanco, e volevo solo dormire.
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The Afterglow
RomanceStoria partecipante ai #Wattys2016 Quando ti svegli in un luogo assurdo e non ti ricordi più niente la paura ti attanaglia lo stomaco e le viscere. Però un piccolo ricordo affiora lentamente, un viso, quello di un ragazzo. E se poi scoprissi che sei...