8. Una cioccolata calda e un amico

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Una flebile luce proveniva dalla finestra e fu quella che mi svegliò alle sette di mattina. In quei due mesi e qualche giorno che ero stato sulla Terra, non mi ero mai alzato così presto, solo qualche volta se Ed e io avevamo delle importanti commissioni da fare.
Mi stirai ancora sotto le coperte e cercai in qualche angolo remoto del mio cervello la forza per scendere di sotto e fare colazione. Non è che avessi tanta fame, la cena di Ed della sera precedente era stata infinita e mi avrebbe sfamato anche per la settimana successiva, ma se al mattino non mangiavo qualcosa Ed si arrabbiava. "La colazione è il pasto più importante della giornata!", mi rimproverava. E così io dovevo mangiare per forza anche se la conseguenza sarebbe stata vomitare tutto.
Finalmente mi decisi a scendere, ancora in pigiama, e di sotto non trovai nessuno. Nemmeno Ed si svegliava così presto.
Presi la mia tazza rossa e feci il caffè, anche per Ed, già che c'ero. Poi tostai un po' di pane e presi la marmellata dalla dispensa. Mangiai con tutta la calma del mondo, come se avessi tutta la vita davanti, ma non era affatto così. Da quanto ne sapevo, potevo anche avere solo quei tre mesi che mi sarebbero dovuti servire per aiutare Frank. Feci un breve calcolo, era il ventisette settembre e il tempo sarebbe scaduto il ventisei dicembre, considerando che il conto alla rovescia era iniziato il giorno prima. Non mi potevo lamentare comunque, avrei passato il Natale in quel posto.
Ce la potevo davvero fare, avevo molto tempo, e quel ragazzino mi stava davvero simpatico. Certo, aveva i suoi problemi: i genitori divorziati, una madre assente, una reputazione da ragazzo studioso e serio che di certo a scuola lo penalizzava molto, e quasi nessun amico. Inoltre, non escludevo il fatto di scoprire altre cose sul suo conto: dopotutto lo conoscevo da un giorno e avevamo parlato solo per poco.
Avrei avuto molto su cui lavorare, ma ero fiducioso, e io lo sono raramente.
Finii di bere il mio caffè in pace e dopo poco arrivò Ed.
«Che ci fai alzato così presto?!» chiese scandalizzato.
«Che c'è Ed?» feci. «Hai visto un fantasma?»
Mi guardò torvo. «Mh, più o meno. Hai già mangiato?»
«Sì mamma» risposi sarcastico. Non ero dell'umore per una chiacchierata.
«Ti ha morso una tarantola?» Decisi di non rispondere.
Tornai di sopra per sistemarmi, anche se Frank non sarebbe arrivato prima di dodici ore.
Quando riscesi, Ed era già fresco e pulito e stava entrando nel suo studio. Non avevo mai capito come facesse a prepararsi così velocemente.
Andai in salotto e mi avvicinai all'immensa libreria. Avrei potuto impiegare il tempo leggendo qualcosa.
Scorsi le copertine facendo passare il dito indice della mano destra sulle costole di ciascuna. Ogni tanto mi fermavo a leggere il titolo per intero, certe volte nemmeno leggevo quello, e raramente tiravo fuori il libro dal suo posto per leggere la trama. Ad un certo punto il mio dito si soffermò su un titolo: Il bergsonismo.


Un bambino è seduto su un divano e aspetta qualcosa. Arriva una donna, con una tazza in una mano e nell'altra un pacchetto di biscotti al cioccolato. Porge la tazza al bambino che comincia a bere piano e prende ogni tanto un biscotto dal sacchetto che la donna gli ha messo accanto.
«Hai finito?» chiede ad un tratto la donna. Il bambino annuisce soddisfatto e qualche ciocca dei capelli neri gli finisce sulla fronte.
La donna sparisce per un minuto portando con sé i biscotti e la tazza ormai vuota.

«Come è andato il primo giorno di scuola?» La donna è tornata e si è seduto accanto al bambino.
«Bene, ma non capisco una cosa, mamma.»
«Cosa?» domanda lei scostandogli i capelli dal viso.
«Quando la maestra è in classe e parla, il tempo non passa, sembra infinito. Ma quando ci fa disegnare o c'è la ricreazione il tempo passa troppo veloce. Non è giusto!»
La donna sorride e prende sulle ginocchia il bambino. Lui la fissa puntandole addosso gli occhi verdi, curioso.
«Lo sai cosa diceva un signore tanto tempo fa di nome Bergson?»
Il bambino scuote la testa e continua a guardare sua madre, in attesa di una risposta.
«Diceva che quando stiamo bene, ci divertiamo e siamo con le persone a cui vogliamo bene ci sembra che il tempo passi velocemente, anche troppo. Ma lo stesso tempo, se lo passiamo a fare qualcosa che non ci piace o qualcosa di noioso, ci sembra non passare mai.»
«E perché?»
«È il nostro cervello che ci fa credere che un tempo sia durato più di un altro anche se sono uguali, è come una magia.»
«E chi è che fa la magia?»
«Beh, la facciamo noi!»


Il libro mi cascò di mano e dovetti arrancare fino al divano per non rischiare di cadere a terra.
Era stata la visione più lunga che avessi mai avuto. In quel momento capii che quei "salti" nel passato mi levavano davvero tante forze, quella in particolare; forse per la lunghezza.
Lasciai che la testa cadesse sul bracciolo del divano e poi, dopo aver tirato su le gambe, mi rannicchiai stringendo le ginocchia al petto. Chiusi gli occhi e rimasi lì.


«Gerard, Gerard.» Sentivo che qualcuno mi chiamava e mi tirai su. Ed era di fronte a me con aria preoccupata. Lo guardai confuso.
«Che è successo?» chiese lui.
«Nulla» feci io, «stavo dormendo.»
«Tu non dormi mai sul divano in questa maniera. A volte non dormi nemmeno quando dovresti.»
«Beh» dissi io irritato, «penso di avere il diritto di dormire quando mi pare, no?»
«Tu mi nascondi qualcosa, ragazzo.»
In effetti non avevo mai detto a Ed che stavo ricominciando a ricordare alcuni episodi della mia vita, ma tutto sommato non stavo facendo nulla di male. Quelli erano i miei ricordi, la mia vita, e a me solo appartenevano, e in quanto possessore ne potevo disporre come meglio credevo.
Ignorai l'ultima osservazione di Ed, ma notai che lui si era reso conto del libro che avevo lasciato cadere per terra dopo che avevo avuto la visione.
Lo prese e se lo rigirò fra le mani. «Che ci facevi con questo?»
«Volevo leggere qualcosa, poi mi è venuto sonno e mi sono disteso.» Come scusa era pessima e piena di falle.
«E perché il libro era per terra?» Infatti.
Alzai le spalle facendo nuovamente finta che niente fosse e me ne andai in cucina. Il grande orologio segnava l'una e la tavola era già apparecchiata. Ecco perché Ed era venuto a cercarmi, era pronto il pranzo.
Infatti lo sentii arrivare da dietro e quando fu nel mio campo visivo aprì il forno e ne tirò qualcosa fuori.
Poggiò un pollo sul tavolo e si sedette, lo imitai.
Mangiammo piuttosto velocemente e nel più totale silenzio.


Le otto di sera arrivarono troppo velocemente, oppure lentamente. Non riuscivo a capirlo. In effetti quell'uomo di cui parlava mia madre nella visione aveva assolutamente ragione: il tempo non è come sembra, un'ora non è un'ora, è quello che in realtà sembra a noi, non quello che segna l'orologio.
Però io in quel momento non riuscivo a capire se il tempo fosse passato troppo in fretta o molto lentamente. Comunque il problema non sussisteva perché l'attesa era finita.
Il campanello suonò, e la scena della sera prima si ripeté. Ed andò ad aprire la porta e io lo seguii. Ma rispetto al giorno precedente prima qualcosa era cambiato: non era Victoria che teneva fra le braccia qualcosa, ma Frank e sul suo volto non c'era quel sorriso triste e forzato, ma un sorriso sincero e aperto, ed era rivolto verso di me. Ricambiai, e gli presi dalle braccia il vassoio che lo ingombrava abbastanza e lo feci entrare.
Ed e Victoria ci salutarono velocemente e poi se andarono.
Portai il vassoio con quella che credevo fosse una torna in cucina e la poggiai sul tavolo, poi mi voltai verso Frank che mi aveva seguito.
«Che vuoi da mangiare?» chiesi io.
Lui ci pensò un attimo. «Non lo so, cosa sai cucinare?»
In realtà non avevo mai cucinato veramente, avevo solo aiutato Ed a fare le sue magie con il cibo. Ma da solo non avevo mai provato a fare nulla. Pensai fosse meglio non rivelare questo dettaglio.
«Ed è mezzo italiano e mi ha insegnato a cucinare qualcosa» mi fermai un attimo. «Che ne dici se facciamo gli spaghetti con le vongole?»
Ed me li aveva cucinati due sere prima, ed erano davvero buoni. Io ero stato tutto il tempo ad osservarlo e forse sarei stato in grado di rifarli.
«Per me va bene!» esclamò con un sorriso.
«Perfetto.»
Cominciai a prendere tutto quello che serviva. Ed aveva fatto la spesa in un negozio italiano il giorno prima per la cena con Victoria e Frank. Ma come sempre aveva comprato il doppio delle cose che poi avevamo usato, quindi avrei sicuramente trovato tutto quello che mi serviva. In caso contrario avrei improvvisato, sperando che Frank non si accorgesse di nulla.
«Li hai mai mangiati?» gli domandai curioso.
«A dire la verità no. Mia mamma non cucina praticamente mai.»
«Oh» mormorai un po' dispiaciuto, «allora vedremo di rimediare.»
Lui mi seguiva passo passo nei genti che compivo, e io gli spiegavo. Tutto sommato era divertente.
Misi l'acqua a bollire e nel frattempo preparai il soffritto con l'aglio, il prezzemolo e l'olio. Stavo per aggiungere anche il peperoncino quando mi venne un dubbio.
«Frank, ti piace il peperoncino?»
«Mai provato» rispose. «Tu però mettilo.»
Lo guardai dubbioso.
«Non ti preoccupare» garantì lui.
Alzai le spalle e ne misi solo un po'.
Quando l'acqua cominciò a bollire buttai gli spaghetti e misi a cuocere le vongole insieme al soffritto.
«Secondo me vengono buoni» osservò Frank.
«Io lo spero» dissi poco fiducioso.
Dopo pochi minuti scolai gli spaghetti e gli unii alle vongole nella padella. Feci saltare tutto per un qualche secondo e poi annunciai che erano pronti.
Nel frattempo Frank aveva insistito per apparecchiare e gliel'avevo lasciato fare, così ci mettemmo a tavola.
Presi il piatto di Frank e lo servii, poi feci lo stesso con me.
Frank prese la forchetta ma lo fermai. «Aspetta, forse è meglio se assaggio prima io.»
Lui non mi ascoltò e si mise in bocca qualche spaghetto.
Io lo guardavo nell'attesa che cascasse giù dalla sedia o cominciasse a dimenarsi. Ma non accadde nulla di tutto ciò.
«Ehi, sono buoni!»
«Davvero?» esclamai stupito. Lui annuì convinto. Assaggiai anche io un po' di pasta. Non erano male.
Lui prese un altro boccone ma appena ingoiò cominciò a tossire.
«Frank?» Fece un gesto di noncuranza con la mano mentre continuava a tossire rumorosamente. Mi alzai e andai vicino a lui. Aveva il viso rosso. Bevve un bicchiere d'acqua ma non fece che peggiorare le cose.
Gli passai un pezzo di pane e lo mangiò. Si calmò e si accasciò sulla sedia, poi scoppiò a ridere. Io feci lo stesso.
«Io ti avevo avvertito!» gli dissi mentre continuavo a ridere.
«Okay, avevi ragione tu.»
«Ehi, se non li vuoi mangiare non è un problema. Ti do qualcos'altro.»
Scosse la testa. «No, li mangio, ce la faccio.»
Lo guardai. «Sei sicuro?»
Lui annuì e per dimostrarmi quello che aveva appena detto ricominciò a mangiare senza problemi.
Non mi sembrava lo stesso ragazzo della sera prima, silenzioso e un po' triste. In quel momento era tutto il contrario, parlava continuamente con la bocca piena e aveva un perenne sorriso stampato in faccia.
Se non l'avessi visto con i miei occhi non ci avrei mai creduto.
Finimmo di mangiare e lui non ebbe altri attacchi causati dal peperoncino.
Sparecchiai e poi proposi una partita a Monopoli.
Sistemammo sulla tavola il tabellone e cominciammo a giocare, mentre chiacchieravamo del più e del meno.
«Il gioco durerà poco» mi avvisò Frank.
«Come mai?»
Alzò le spalle. «Sono assolutamente negato nei giochi di società. Perdo subito.»
«Non eri il secchione bravo in tutto?» lo presi in giro.
Lui sorrise. «Questo è quello che ti fa credere mia madre, non sono bravo in tutto.»
«Allora quasi in tutto.»
«E smettila!»
«Ricordati che mi devi ancora far sentire come suoni» gli ricordai.
«Mh, la chitarra o il piano?»
«Entrambi, comunque mi sembri un tipo più da chitarra che da piano» osservai.
«In effetti mi ha costretto mia madre a suonare il piano» sospirò.
«Comunque è bello sapere suonare sia l'uno che l'altro, no?» domandai.
«Certo» affermò. «E ricordati che tu mi devi far vedere ancora i tuoi disegni.»
«Penso che i miei disegni non siano ancora pronti per un pubblico.»
Mi guardò negli occhi costringendomi ad abbassare lo sguardo. «Secondo me sei tu che non sei pronto a mostrare i tuoi disegni.»
«Probabile.» Restai sul vago.
Nel giro di meno di mezz'ora Frank aveva quasi perso tutti i suoi soldi e aveva acquistato poco o nulla.
Stavo riflettendo sulla mossa successiva quando il telefono di Frank squillò.
Da quanto capii era sua madre. Snocciolò qualche e qualche no e poi riattaccò.
«Ha detto che faranno molto tardi e forse tuo zio si ferma a dormire a casa mia, chiedono se posso rimanere qui.»
«Certo che puoi rimanere qui» gli sorrisi.
«Grazie.»
Continuammo a giocare fino a quando Frank non rimase al verde e perse.
«Io te l'avevo detto che avrei perso.»
Era davvero divertente passare la serata con Frank. Non facemmo nulla di particolare, ma anche solo la sua presenza aveva la forza di mettere di buon umore, di far ritrovare il sorriso alla persona più infelice sulla faccia della Terra. Eppure avevo capito, sia dalle sue parole che da quelle di sua madre, che non era un ragazzo sereno. Quindi non riuscivo a capire come potesse essere così felice in quel momento, davvero non ci arrivavo. Non potevo certo chiederglielo, ci conoscevamo da due giorni, e non era il caso di fare certe domande ad una persona di cui si sapeva così poco. In realtà la sera prima mi aveva raccontato molte cose sul suo conto, ma io non gli avevo chiesto nulla, era stato lui che di sua spontanea volontà aveva deciso di raccontarmi alcuni pezzi della sua vita, e apprezzavo questa fiducia che mi dava.


Stavamo finendo un pacchetto di patatine sul divano mentre guardavamo la tv, quando buttai uno sguardo all'orologio del salotto, erano le una. Ormai Ed e Victoria non sarebbero tornati. Non che la cosa mi stupisse, avevo subito notato come funzionava il rapporto fra quei due, e anche solo dalle prime parole che Ed le aveva rivolto avevo percepito che non erano semplici amici.
Mentre facevo quella semplice considerazione mi ero accorto che, rispetto alle altre persone, avevo una maggiore capacità di comprendere i sentimenti degli altri. Non è una cosa semplice da spiegare, ma immaginate di poter leggere nel pensiero degli altri e di poter sapere sempre cosa provano, come si sentono, se soffrono, se sono felici, preoccupati, ansiosi. Ecco, io non è che leggessi nel pensiero, ma avevo comunque il "dono" di sapere cosa le persone provassero semplicemente guardandole negli occhi o osservando attentamente i loro gesti.
Non pensavo fosse una cosa comune a tutti. Insomma, io ero morto e poi ero tornato sulla Terra, qualche piccola conseguenza ci sarà pur stata, no? Beh, quella era una delle cose di cui mi ero reso conto, non so se altre cose mi erano capitate. Non ne preoccupavo più di tanto, in tal caso le avrei scoperte.


Frank si mise in bocca l'ultima patatina mentre io finivo di formulare i miei pensieri contorti. Se li avessi esposti a qualcuno mi avrebbe certamente mandato come minimo in manicomio.
Con questa "capacità" che avevo appena scoperto compresi che Frank non era più felice e allegro come prima, anche se cercava di non darlo a vedere.
«Che c'è?» gli chiesi.
Lui si voltò verso di me con sguardo interrogativo. «Cosa ci dovrebbe essere?»
Una piccola goccia di sudore scese sulla sua fronte fino al sopracciglio. Lui sembrò non rendersene conto, ma si passò la mano sul viso.
«Non lo so» feci io sul vago, «sembri pensieroso.» In realtà non lo era, sembrava come preoccupato da qualcosa.
«No» scosse la testa, «sono solo un po' stanco.»
«Vuoi andare a dormire?» proposi. «Ti do la mia camera, io dormo qui sul divano.»
«No, non ho sonno, sono solo un po' stanco. Non voglio andare a letto.»
Un'altra goccia di sudore gli colò sulla tempia e cominciò a respirare più irregolarmente, anche se quasi impercettibilmente.
Cominciavo seriamente a preoccuparmi, non sembrava stare per nulla bene; sudava, respirava male, e con i minuti che passavano mi resi conto che inspirava ed espirava sempre più velocemente e rumorosamente.
«Ehi, Frank, che hai?» Gli misi una mano sulla spalla e lui la prese. Scosse la testa, ma non disse nulla.
Con l'altra mano si prese la gola e cominciò ad andare in iperventilazione.
Cercò di dirmi qualcosa, ma non capii, respirava male e le parole gli si soffocavano in gola.
Era madido di sudore e tremava. Non capivo cosa gli stesse succedendo, avevo paura e lui non riusciva a dirmi se fosse una cosa normale o no, anche se una cosa molto comune non era.
Lo aiutai a sdraiarsi sul divano e corsi in cucina a prendere un bicchiere d'acqua.
Gli alzai la testa piano e riuscì a bere solo un piccolo sorso. Non stava migliorando, tremava ancora di più.
Chiuse gli occhi e rimase così per qualche secondo. Il respiro cominciò a tornare regolare, ma rabbrividiva ancora.
Riaprì gli occhi e si accorse che ero tremendamente preoccupato e terrorizzato.
«Sto bene» mugolò.
«No, non stai bene» replicai io. «Cosa ti è preso?»
Prese un respiro profondo per regolarizzarlo ulteriormente. «Mi succede qualche volta. Sono delle crisi di panico. Non sono gravi, mi passano velocemente.»
Lo guardai dubbioso. Non poteva non essere una cosa neanche minimamente grave, non c'era da scherzare.
«E questa volta a cosa era dovuto il panico?» Mi misi seduto per terra accanto al divano dove era ancora disteso.
Lui abbassò gli occhi. «Non lo so» sospirò. «Forse è perché non ho mai dormito fuori casa e...»
Lo interruppi, avevo capito e se fosse andato avanti sapevo che si sarebbe solo trovato in imbarazzo. «Okay, ho capito. Ma stai sicuro che non ti mangio, di solito preferisco i ragazzi più in carne, tu sei troppo gracile.»
Scoppiò a ridere e io feci lo stesso.
Andai in cucina a preparargli una cioccolata calda, e una anche per me, per lo spavento che mi aveva fatto prendere. Nelle tazze aggiunsi anche uno di quei bastoncini croccanti di cioccolata e un pizzico di cannella.
Andai in salotto e tornai a sedere vicino a lui per terra accanto al divano.
«Gerard, il divano è abbastanza grande per entrambi.»
«Grazie» sorrisi, «ma preferisco stare qui, e poi il tappeto è caldo, non sai cosa ti perdi.»
Ricambiò il sorriso e cominciò a bere lentamente la cioccolata.
«Nessuno mi aveva mai fatto la cioccolata calda» esordì ad un certo punto.
«Nemmeno tua madre quando stavi male, da piccolo?» chiesi io stupito.
Lui scosse la testa sconsolato. «Mai.»
«Va beh, c'è sempre una prima volta, no?» lo incoraggiai.
«Grazie.»
«Per cosa?» domandai.
«Per essere mio amico» ci pensò un attimo. «E per la cioccolata.»
«Non è una cosa per cui mi devi ringraziare, davvero.»
«E invece devo» protestò. «In tutta la mai vita nessuno mi ha mai considerato come stai facendo tu, e ti conosco solo da due giorni! Nemmeno mia madre si è mai preoccupata così per me.»
«Non dovresti parlare così.»
«Così come? È la verità.»
Rimanemmo un po' in silenzio, poi Frank sospirò e io alzai lo sguardo per osservarlo.
«Gerard?»
«Dimmi.»
«Ho sonno, io dormo sul divano, tu vai pure in camera, ok?»
«Assolutamente no!» esclamai. «Dopo quello che ti è successo secondo te ti lascio da solo?»
«È una domanda a trabocchetto?» fece lui.
«No, io resto con te. Preferisci rimanere sul divano o vuoi andare in camera?»
Lui ci pensò un attimo, poi sembrò arrivare ad una soluzione. «Preferisco rimanere sul divano.»
«Perfetto, allora io vado un secondo in bagno, tu intanto dormi, ok? Torno subito.»
Quando tornai era già bello che addormentato.
Mi misi a gambe incrociate sul tappeto vicino al suo viso e appoggiai i gomiti sul bordo del divano, per poi mettere la testa sugli avambracci che avevo incrociato sulla morbida stoffa.
Rimasi lì per non so quando tempo, a guardare Frank che dormiva, la mano poggiata sul petto che si abbassava e alzava lentamente, gli occhi grandi chiusi, le guance morbide e leggermente arrossate, le labbra sottili e chiare leggermente aperte. Non mi sarei mai stancato di fissarlo, mai.
Gli spostai una ciocca di capelli dalla fronte e lui non si accorse di nulla, evidentemente aveva il sonno pesante. Così cominciai ad accarezzargli i capelli delicatamente finché anche io non mi addormentai.

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