Justin Mead guardava l'orologio al muro e si perdeva ad immaginare le sue attività sociali. Avrebbe dovuto rimanere in ufficio altre due ore e mezza, tra fotocopie, lettere, mail,....
Justin non aveva mai voglia di lavorare. Non ne aveva mai avuta molta di vivere in generale. L'origine di tale comportamento era ignoto anhce a lui medesimo. Si limitava a sospirare di tanto in tanto, cercando di non perdere il ritmo del suo respiro. Il respiro era fondamentale. Se si dimenticava di controllarlo, si perdeva nei meandri maledetti della fantasia e le ore sembravano non passare mai.
Mancavano due ore al termine dell'orario di lavoro.
Con estrema pazienza, Justin respirava, prendeva fascicoli, li passava in fotocopia, li depositava nei vari divisori della grande parete orientale e tornava alla scrivania. L'indomani ogni avvocato dello studio avrebbe trovato il materiale per i loro casi.
L'odore di carta calda lo infastidiva. Il clima già rovente dall'estate imperante e dall'afa rendeva quelle ore già abbastanza infernali.
Mentre terminava il fasciolo dell'avvocato Vernon, si arrestò. Si era dimenticato una pagina. Come era possibile? RIprese il fasciolo originale, lo sfogliò e notò che mancava una pagina anche lì. Per un istante, dubitò se tralasciare tale foglio o se avrebbe dovuto informanrne i suoi superiori. In quell'indugio, sentì le porprie sicurezze venire meno. Cosa avrebbe dovuto fare? Non lo sapeva. Inconsciamente, richiuse il fascilo e lo appoggiò nel suo settore. Prese l'originale e lo depose in un altro. Con un profondò respiro ignorò di essere stato testimone di quella incongruenza. Si guardò intorno, trasse un altro respiro e si sedette al computer.
Mancavano ancora un'ora e tre quarti alla fine dell'orario di lavoro.
***
Tornato a casa, Justin estrasse il telefonino dalla tasca. Non aveva ricevuto nessuna risposta da quando aveva mandato un messaggio di scuse ai suoi contatti. Alla fine, per la nausea aveva preferito rimanere a casa. Per la precisione, aveva preferito rimanere nel suo monolocale. Avrebbe speso la serata alla sua solita maniera: una corsa nel parco a due isolati, un po' di flessioni e addominali, la cena a base di ravioli al vapore, gallette di riso e insalata mista e streaching sul tetto del palazzo, al cospetto delle luci della metropoli e del cielo.
Per seguire la sua solita inclinazione, Justin aveva dovuto tralasciare un aperitivo con un paio di amici, tralasciare il cinema del mercoledì e l'invito a casa di Bruce per la sua laurea. Aveva rinunciato a tutto questo per la sua solita routine, per cui nutriva un rispetto quasi religioso.
Mentre si preparava per uscire, lo chiamò al cellulare Nicole.
- Ho letto il tuo messaggio, è un vero peccato che tu non venga.
- Già, anche a me.
- Sei proprio così malato?
- Sì, mi sta venendo anche il catarro.
- Peccato? Vuoi che passi da te con qualcosa?
- Oh, non disturbarti, dai. Ce la farò.
- Okay, se lo dici tu...
- Domani raccontami di come è andata.
- Ah, lo farò di certo, ma vedrai che sarà la solita cena. Non hanno mica chiamato una celebrità! Sarà la solita cena tra amici, nnete di più.
- Capisco.
- TI saluto, allora.
- Anch'io. Divertiti.
- Anche tu, mi raccomando.
- Ci proverò.
Al termine della chiamata, Justin chiuse il telefono, lo appoggiò sul mobile e se ne uscì.
Mentre camminava per strada, sorse nelle sue emozioni un vago senso di colpa, mista a paura. Ebbe la sensazione che avrebbe perso tutti i suoi amici se avesse persistito in quell'atteggiamento misantropo. Cosa avebbe dovuto fare? Ignorare?
Il semaforo si illuminò di verde e i passanti attraversarono la strada.
Justin, immerso nel suo grigio umore, si aggregò a loro.
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DEATH HEART STONE
General FictionI racconti-magazzino delle mie incontinenze creative. "A metaphor of all the untranslatable obviousness" (James Clark)