Justin sedeva ad una panchina del parco dii fronte a casa sua. Osservava una partita di basket tra ragazzi del quartiere. Tra tutti ne conosceva solo uno, John,il figlio di un suo amico di college che ogni tanto salutava la mattina. John conosceva appena Justin. Ogni tanto lo guardava distrattamente.
Per tutta la partita, Justin osservò il ragazzo sudare, lamentarsi e mostrare con delle facce grugnite la sua frustrazione. Appariva evidente che non possedesse una grande tecnica di gioco e in quanto al fisico...
Non disse nulla. Si limitò ad alzarsi e ad andarsene quando il risultato appariva più che mai evidente. Per distrarsi, entrò nella gelateria lì a fianco. Ordinò un gelato dai gusti normali: cioccolata, fragola e vaniglia. Mentre aspettava, entrarono anche i ragazzini del campetto da basket e si misero a contemplare i cartelloni con i gusti. Tutti, nel giro di mezzo minuti operarono la loro scelta dei tre gusti. Alcuni tentennarono per un attimo. Solo John rimase imbambolato, vagamente ansioso e indeciso. Appariva totalmente spaesato. Si portava un dito alla bocca, sfogliava il cartellone dall'alto in basso ma sembrava che il suo sguardo non si fissasse su niente, incapace di concentrarsi.
Justin osservava a distanza, seduto ad un seggiolino, contro la vetrina.
I ragazzi ordinarono e si andarono a sedere poco distante da Justin. Il ragazzino invece rimaneva sul posto, indeciso. Gli altri lo chiamavano, lo canzonavano, lui sorrideva nervoso, si giustificava come un pagliaccio ma non prendeva nessuna decisione. La situazione si concluse con un nulla di fatto. Il ragazzo si scusò, se ne andò al bagno e quando tornò, gli altri avevano già divorato il oor gelato e se ne uscirono. Justin li vide scomparire dietro l'angolo.
***
Tornando a casa, Justin passò dal supermercato per prendersi la verdure del minestrone sarale. Al reparto frutta e verdura, notò molte casalinghe indecise su quale tipo di verdura fosse più matura. Al reparto dolci vide giovani studenti indecisi su quale pacco di pastine prendersi. Passando davanti al reparto delle cioccolate, Justin si lasciò tentare da una offerta. Una voce soffocante però emerse e volle impedirgli di spendere soldi così alla leggera. Si sentì anche egli indeciso e per un momento se ne imbarazzò. Con il trascorrere dei minuti, poi, cominciò a provare una vaga angoscia. Perchè dava tutta questa importanza ad una barretta di cioccolata? Dava dando troppo valore ad una scleta simile, ne era cosciente. Ma perchè allora, sentiva sorgere in sè, quella strana riluttanza a prendere una decisione?
Si sentiva come negli antichi tempi del college, quando agiva solo perseguendo il proprio guadagno personale. Senza guadagno, non muoveva un dito da casa. Senza godimento, non provava nemmeno a guardarsi un film o leggersi un libro. Se non aveva garanzie della sua vittoria, non ci provava neanche a giocare con gli altri ragazzi. Questo si ricordò del suo passato. Gli tornò pure in mente l'origine del suo silenzio: senza la garanzia di aver sempre ragione, non si metteva ad aprir bocca con nessuno. Solo con se stesso si limitava a parlare, sapendo di oter contare almeno sulla propria auto-considerazione. Si ricordò di come parlasse la sera sempre con se stesso. Tutavia, alla cassa, rimase zitto e pagò.
***
A casa, frugando nel cassetto delle spezie, ritrovò quella spiacevole sensazione. Gli pareva impossibile, ma sentiva un nodo allo stomaco. Non aveva molta fame, quella sera. Così decise di non mngiare. Si stese sul divano e si mise a riflettere.
Si rese conto ben presto di non avere una grande forza di vlontà. Anzi, non ne aveva per niente. Ogni sua azione, rifletteva, si svolgeva dietro una ricompensa. Cos'era, il cibo? Il voto all'università? Il risultato? Per non parlare dei periodi di autoerotismo al liceo. E chi se ne fregava delle ragazze, allora? E la sua vita non si espandeva se non a suon di ricompense. Forse per questa ragione della vita ne ignorava ogni lato essenzialle. Certo, lavorava, pagava le sue bollette, ma si limitava all'indispensabile.
Con il tramontare del sole , Justin si rese conto di quante occasioni di vita si fosse lasciato sfuggire e che non avesse sfruttato proprio per il mancato tornaconto personale.
Fu allora che realizzò il dramma del senso della vita: anche qualcosa la vita non avesse avuto un senso per cui essere vissuta, si sarebbe comunque continuato a vivere. VIvere era inevitabile, che poi ci fosse unsenso appariva sencondario, ora.
Justin però si incaponiva sulla questione del senso della vita. Se la vita non ha un senso, non ha senso vivere.
- Dove è la mia ricompensa? - Si chiedeva.
QUesto accadeva nei momenti in cui si perdeva nella memoria, in questi istanti circolari in cui aveva sepolto una parte falsa e alvagia di sè, capricciosa e pigra, schiava dell'ipnotica ricompensa.
Poi, stanco, chiudeva gli occhi e si addormentava.
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DEATH HEART STONE
General FictionI racconti-magazzino delle mie incontinenze creative. "A metaphor of all the untranslatable obviousness" (James Clark)