Serva di Dio Anfrosina Berardi

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Fanciulla ( San Marco di Preturo, L'Aquila, 6 dicembre 1920 - 13 marzo 1933)

Il 6 dicembre 1920, a San Marco di Preturo, frazione del comune di L'Aquila, venne alla luce l'ultimogenita di Isidoro Berardi, agricoltore, e di Santa Cucchiella, casalinga. Al battesimo, celebrato sei giorni dopo, ricevette i nomi di Anfrosina Altabella: il primo è probabilmente un'alterazione di Ambrogina, dato che l'indomani ricorreva la memoria di sant'Ambrogio di Milano.
I nomi insoliti sembrano una caratteristica familiare: il padre, di limitata cultura, conosceva tuttavia a memoria interi passi della Divina Commedia e, molto probabilmente, dei poemi cavallereschi, dato che aveva chiamato gli altri otto figli Domenico, Goffredo, Oliviero, Aristotele, Quinto, Tancredi, Brandimarte e Cunegonda. Inoltre, accompagnava spesso le funzioni religiose all'organo, su richiesta di don Antonio Sbroglia, parroco e arciprete di San Marco.
Anfrosina trascorse i suoi primi anni stando sempre vicina alla mamma, da cui, come già i suoi fratelli, apprese le prime preghiere. Presto si manifestò in lei un carattere schivo e amante della solitudine, ma anche attivo e servizievole.
A sette anni iniziò le scuole elementari e fece le sue prime amicizie, ma si scontrò anche con alcuni aspetti della vita che la fecero soffrire. Un giorno, durante un litigio tra le compagne, udì pronunciare parole che non aveva mai udito in casa. Tornata in lacrime da scuola, la mamma la consolò dicendole che non aveva commesso un peccato, se non le aveva dette. «È vero, ma mi rimangono piantate qui» rispose la bambina, toccandosi la fronte, «e non vanno più via!».
Da allora prese a fuggire ancora di più dalle compagne che ripetevano, forse inconsapevolmente, quei termini sconvenienti. A volte, qualcuna di esse la seguiva per prenderla in giro: allora riusciva a rasserenarsi solo dopo aver raccontato tutto alla madre.
A scuola era abbastanza diligente, salvo qualche errore di ortografia causato dall'influenza del dialetto. La sua maestra la ricordò in questi termini: «Esemplare il suo comportamento in classe e fuori, sempre attenta allo studio e pronta nell'eseguire i suoi compiti scolastici, aliena dai giochi sbarazzini. Il suo volto illuminato dal sorriso lasciava trasparire la purezza, la limpidezza della sua anima bella».
Alla fine di aprile 1931, Anfrosina prese ad avvertire forti dolori addominali. I genitori, al vedere che le fitte persistevano, chiamarono il medico, dottor Elia Agnifili, che ordinò l'immediato ricovero presso l'ospedale San Salvatore a L'Aquila: si trattava, infatti, di appendicite. Il 10 maggio la bambina entrò in ospedale e venne operata quattro giorni dopo, festa dell'Ascensione del Signore. Sulle prime non le venne accennato dell'operazione, ma quando venne condotta nell'apposita sala capì: non solo, ma chiese di non essere anestetizzata con l'apposita maschera, promettendo che sarebbe stata ferma per tutta la durata dell'intervento. I medici, naturalmente, non l'ascoltarono, ma rimasero colpiti da quel suo atteggiamento.
Tornata a casa, non riuscì a rimettersi per bene: continuava ad essere inappetente e, presto, ricominciarono i disturbi di prima. Per cercare di distrarla, suo fratello maggiore, Domenico, l'invitò a trasferirsi con la mamma a Roma e l'iscrisse alla scuola «Dante Alighieri», per non farle perdere gli studi. Fu un tentativo vano: i dolori alle viscere prendevano la piccola a tal punto da costringerla a piegarsi sulla gamba destra. Le radiografie cui fu sottoposta notarono che si stava verificando una progressiva occlusione intestinale, per la quale non c'era rimedio, neppure un nuovo intervento.
Il medico di famiglia, nonostante la diagnosi, era convinto che lei non avesse voglia di mangiare: senza sentire le sue proteste, le impose di fare duecento metri di corsa. Al termine del percorso, svenne tra le braccia della mamma, senza un lamento.
La preoccupazione maggiore che aveva Anfrosina era morire senza aver ricevuto la Prima Comunione e la Cresima. Mercoledì 13 ottobre 1932, nella chiesa parrocchiale di San Marco, i Sacramenti furono amministrati a lei e alle sue compagne dall'Arcivescovo monsignor Gaudenzio Manuelli. Non poté, tuttavia, partecipare al rinfresco che i suoi familiari avevano approntato per l'occasione: come ha raccontato una sua amica, Bianca, al settimanale della diocesi di L'Aquila, le passava di nascosto dalla madre le pietanze, dato che, a causa dei dolori, non riusciva a mandar giù nulla.
Quella fu l'ultima volta che Anfrosina uscì di casa da viva. A chi veniva a trovarla con aria di compatimento, o commentava che soffriva ingiustamente, rispondeva: «Quello che dite è peccato, è peccato. Non lo dovete dire più! Gesù Cristo sì che era innocente! Egli ha sofferto più di me».
Il fratello Domenico, verso il mese di febbraio 1933, volle tentare un ultimo consulto medico. La ragazzina, venutolo a sapere, lo chiamò in camera sua e gli rivelò, con serenità di sapere di essere prossima a morire, per cui le medicine e i medici non servivano più a nulla. In effetti, da quel mese in poi non si alzò più dal letto: anzi, per oltre due mesi rimase completamente digiuna. Il disfacimento del corpo non le importava: pensava, invece, alla salvezza dell'anima in Paradiso, a cui rimandavano i santini che aveva spesso in mano e che non lasciava specie nei momenti di crisi più acuta.
In quel periodo, iniziarono a manifestarsi in lei episodi straordinari: spesso sembrava fuori dei sensi, intenta a conversare con presenze invisibili. Quando si riprendeva affermava, con tutta semplicità, che la Madonna era venuta a trovarla per rivelarle alcune cose.
Nel giro di poco tempo, il suo nome fu noto in tutto l'Abruzzo. Il numero dei visitatori cresceva col passare dei giorni, e lei li riceveva tutti pazientemente, raccomandando loro di affidarsi alla Madonna, di riprendere ad accostarsi ai sacramenti e di pregare per i defunti.
Il parroco di San Marco veniva spesso a farle visita, così gli domandò di poter ricevere la Comunione. Quando però vide che, come d'uso all'epoca, il Santissimo veniva seguito in processione, si dispiacque a vedere una folla simile; si calmò solo quando le fu fatto presente che Gesù doveva essere accompagnato con onore. In genere, riuscì a comunicarsi due o tre volte a settimana, preparata da don Antonio, che le insegnava, quando non poteva sacramentalmente, a farlo spiritualmente.
A fine febbraio, annunciò ai suoi cari: «Il 2 marzo, alle 2 del mattino andrò in Paradiso. Me lo ha detto la Madonna che verrà a prendermi». I fratelli e molte altre persone, incluse le sue compagne di catechismo, accorsero da lei, che invitava tutti a non piangere. All'ora fissata, ebbe un nuovo colloquio soprannaturale, terminato il quale affermò che la Madonna le aveva concesso di restare per soffrire ancora un po' e che il giorno della sua morte le sarebbe stato preannunciato dall'anima di suo zio Serafino. Dato che i presenti restavano ancora increduli, la ragazzina affermò che la Vergine le aveva dato un bacio sulla fronte. Nei giorni che le rimasero da vivere continuò a ricevere visite e congedava tutti col saluto: «La Madonna vi accompagni».
Giovedì 9 marzo, Anfrosina affermò che l'anima dello zio Serafino era venuta a dirle che sarebbe morta domenica 12. Quel giorno, verso le sei del mattino, si svegliò al suono delle campane e cantò l'Angelus con voce squillante; poco dopo, spiegò ai presenti che la Madonna le aveva riferito che, prima di andarsene, avrebbe dovuto ricevere la sua ultima Comunione e che, per rinforzarsi, poteva assumere un cucchiaio di caffé caldo.
Il mattino dopo, verso le sette, il parroco le portò il Viatico. Dopo il ringraziamento, trascorse il tempo che le rimaneva salutando i genitori e i fratelli, ribadendo la sua certezza: «Io non muoio, ma vado in Paradiso con la Madonna».
Improvvisamente, guardò intorno a sé, sorrise ai genitori, poi alzò un braccio, forse per tracciare il segno della Croce sui presenti; infine, rimase immobile. Erano le dieci del mattino di lunedì 13 marzo 1933.
Come da lei richiesto, Anfrosina fu rivestita dell'abito della Prima Comunione. Il grande afflusso di folla alla camera ardente comportò dapprima il trasferimento della salma sul piazzale antistante, poi il rinvio dei funerali alle sei di sera. Non ci fu la Messa, ma la semplice benedizione della salma, che venne tumulata nel cimitero cittadino.
Sin da poco tempo dopo la morte della ragazzina, le vennero attribuiti eventi inspiegabili e grazie singolari; inoltre, fu vista in sogno da numerose persone. In generale, la sua buona fama proseguì, tanto che nel 1962 venne avviato il processo canonico per l'accertamento delle sue virtù eroiche, dichiarato valido con decreto del 3 aprile 1993. Nel 2010 la "Positio super virtutibus" è stata trasmessa alla Congregazione vaticana per le Cause dei Santi.
I suoi resti mortali riposano attualmente nella chiesa parrocchiale di San Marco Evangelista a Preturo, dove ogni anno, nella domenica più vicina al 13 marzo, si svolge una Messa solenne per chiedere la sua beatificazione.

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