5.

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[Mi ero completamente dimenticata di aver scritto questo capitolo]

"When I walk every step's a painful drag,
When I talk every word is a leaden bag
And I wonder:
What am I doing?
What am I winning?
What am I losing?
Stop it now! "

Appoggio la pila di libri sul banco e cerco un sostegno a cui aggrapparmi perché sento che le gambe stanno per cedere. Mi succede troppo spesso, ultimamente, ed è una sensazione strana: è come se le ossa diventassero di gelatina molliccia, o peggio, d'aria; e pochi istanti dopo mi ritrovo puntualmente accasciata a terra, troppo debole per combattere contro la forza di gravità. Sono esausta, ho il fiatone. Mi sistemo i jeans che continuano a cadermi; sono troppo larghi, e le cinture che ho in casa non hanno buchi a sufficienza.
"Tempo fa ti stavano bene", ripete sempre con una certa malinconia la mamma, come se si stesse riferendo a qualcuno che non vede da tanto tempo, o che forse non c'è più.

Quando ero viva ero il suo orgoglio.

Ci divertivamo ad andare nei negozi e provare quanti più vestiti potevamo e volevamo. Vedevo un non so che di fierezza, quando mi guardava uscire dal camerino.
Mi diceva che la rendevo felice soltanto con un sorriso.

Ora s'incupisce all'istante quando le dico che ho bisogno di vestiti, perché sa che anche una 38 mi starebbe troppo larga e che finiremmo per cercare nel reparto bambini.
Adesso non è più felice, perché io non sono più capace di sorridere.

Credevo che smettendo di mangiare quei pantaloni strappati e poco attillati mi sarebbero piaciuti di più addosso.
Credevo che rimpicciolendomi mi sarebbero stati meglio, ancora più larghi, insomma, come vanno di moda adesso.
Non so se il premio in palio fosse veramente questo, essere bella e alla moda.
La realtà è che comunque ho vinto, ma sono stata premiata con una terapia in psichiatria, cinque pasti forzati e sei boccette di pillole che impediscono al mio cervello di collassare.

- Tutto bene? Sei riuscita a trovare posto per quel libro?

Manca una settimana e mezza all'inizio del nuovo anno scolastico ed io, invece di avere la possibilità di godermi gli ultimi scorci d'estate, mi trovo rinchiusa in una biblioteca a respirare polvere e a scacciare le tarme dai libri, per guadagnarmi crediti.
Per mantenere la mia fedina scolastica pulita, anche se so di averla già irrimediabilmente macchiata smettendo di mangiare.

- Sì, tutto bene.

Non riesco a stare in piedi per più di dieci minuti e sono troppo stanca per sprecare altro fiato e costruire una frase più lunga di tre parole, però va tutto bene.

- Stavo cercando un posto per questo libro.

Paola, la bibliotecaria, scruta la copertina, poi mi guarda negli occhi, sconsolata.

- Ungaretti è nello scaffale dall'altra parte della stanza, sezione poesia. Mi sembrava di avertelo già spiegato.

La mia memoria non tiene, è in letargo, congelata. Non funziona.

- Sì, perdonami, devo essermi distratta un momento.

Troppe persone che non conosco affatto mi chiedono se va tutto bene, ultimamente. Mi studiano attentamente con i loro sguardi giudici traboccanti di compassione, pronti ad intavolare i soliti dispiaceri per la mia situazione e ad augurarmi un'impossibile guarigione.
Io rimango imperturbata, impassabile.
Mi chiedo solo perché 'tutto bene'.
È una domanda stupida, perché sai già la risposta prima ancora che ti venga data dal diretto interessato. Quando chiedi ad una persona se va tutto bene sei quasi completamente sicuro che ti risponderà affermativamente.
Perché, effettivamente, il contrario accade piuttosto di rado, dato che difficilmente una persona confessa le proprie debolezze ad uno sconosciuto.

Prendo il libro e questa volta seguo le indicazioni datemi, trascino i piedi come se le mie scarpe fossero fatte di cemento.

'Ungaretti, Ungaretti... Dopo quale lettera viene la U?'
Impiego del tempo per ripetere l'alfabeto, stupido cervello, muoviti, fa' il tuo lavoro.
Vago con lo sguardo tra i titoli dei libri cercando di rimanere il più paziente possibile, mentre aspetto che le mie mani ricevano gli impulsi elaborati da quei pochi neuroni che ancora hanno energia per funzionare.

Prima di uscire dalla stanza, respiro profondamente e mi sistemo nuovamente i pantaloni: per arrivare alla postazione-stagista dietro il bancone della biblioteca, devo prima attraversare un'aula piena di studenti neo-universitari che si stanno preparando ai test di ammissione.

Inspira.

Espira.

Vai.

Inizio a camminare, fingendomi indifferente alle ripetute occhiate che sento posarsi nei miei dettagli più fragili: le scapole e le clavicole sporgenti, le gambe sottili, le guance scavate, l'ombra violacea delle occhiaie mescolata al color carne del fondotinta disteso con troppa poca cura.
Percepisco distintamente i loro pensieri, uno per uno; posso immaginarli: sono le considerazioni di persone che non capiscono, che non possono capire ; rimbombano senza tregua nella mia testa e s'imprimono negli angoli più sicuri per loro, che possono lavorarsi per bene il mio cervello intorpidito e impressionabile; più irraggiungibili per me, che non riesco a scrostarli via.

Quando tutto iniziò, ricevevo complimenti a non finire.
Incassavo lusinghe continue, come se avessi compiuto un'impresa che mai avrebbero pensato potessi affrontare.

Mi sentii rinascere.

Fu una bella sensazione. Ricordo di aver pensato che caspita, se la seconda era stata così febbricitante, venire al mondo per la prima volta doveva essere stata una figata pazzesca!

Mi sentivo forte, potente, capace di fare l'impossibile.
Ma durò poco.

Ho iniziato a dissolvere la mia energia così come fa un albero che si prepara al lungo letargo invernale: cominciai a perdere la mia femminilità, i capelli cadevano così facilmente, a ciocche e ad ogni mio tocco, un pò come fanno le foglie secche tormentate dal vento - credevo di rimanere senza nel giro di poco tempo; la pelle si faceva sempre più sciupata, livida e sottile; il ciclo sparì; stavo lentamente sfumando in una morte indolore e non me ne rendevo conto.

acqua e ghiaccio // la mia storiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora