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Perdere il controllo.

È questo che mi spaventa.

Non riuscire più a tenere le redini della mia vita.

No, non è del cibo che ho paura.
Io amo il cibo, tutto così colorato, gustoso, energico.
È quello che si scatena nella mia testa quando ci entro in contatto che mi terrorizza.
Fortunatamente la maggior parte delle volte riesco a domarla, la mia mente pazza.

Altre volte sono troppo debole per sedarla, e fallisco.
Ed inciampo nell'abbuffata, il mio incubo peggiore.

Per gentile concessione della solitudine, la me sana - e per quanto cerchi di nasconderlo, so perfettamente che la folle ossessione ha contaminato anche lei - esce dal corpo della me malata e, sostanzialmente, sfoga i suoi desideri repressi come se quella fosse l'ultima possibilità di farlo per tutto il resto dei giorni rimasti.

Tutte le voglie accumulate in mesi e mesi di restrizione si ribellano, ed è il finimondo.

È questione di pochi secondi: uno sgarro durante il pasto programmato in ogni singola caloria, e il mio cervello si sente libero di dare il via all'abbuffata.

Mi abbandono impotente al vortice vizioso. Non mi oppongo, non ci riesco: i miei occhi vedono ma il cervello non risponde ai comandi. Nemmeno le voci hanno in quel momento la forza sufficiente a far prevalere il loro potere sulla mia apatia temporanea, che mi porta alle briciole dei biscotti in fondo al sacchetto, alla pentola degli avanzi del pranzo sudicia e vuota, allo stomaco dolorante e potenzialmente esplosivo, al casino totale.

Se il tuo santo buon senso riesce a far capire al tuo cervello che il misfatto appena compiuto era in realtà l'unico modo in cui il tuo corpo poteva informarti del suo disperato bisogno di energia, sei salva.

Ma se il tuo cervello è cronicamente ibernato da un disturbo alimentare, ecco che i sensi di colpa uccidono istantaneamente il miracoloso zampillo di sana lucidità e ti spingono con la forza al bagno, facendoti inginocchiare con taglienti colpi di frusta al cospetto del signor water, costringendoti a infilarti due dita in gola e giù, raschia, giù, ingurgita acqua, di nuovo giù, raschia ancora, finché il povero stomaco si arrende a cedere la sua conquista ai tubi di scarico.

La gola brucia, la pancia fa male.
All'inizio ero convinta che il fine giustificasse i mezzi. Adesso non ne sono più sicura. Qual è il mio obiettivo? Essere magra?
Forse, all'inizio.
Non lo so.

Forse tutto sarebbe diverso se riuscissi a darmi delle risposte.

Forse.

Le incertezze non sono mai sazie.

La prima volta che sono riuscita a vomitare dopo una disastrosa abbuffata mi sono sentita potente ed euforica.
Potevo mangiare tutto ciò che volevo senza prendere peso: ero forte.
Ero forte perché ero riuscita a trovare una mia soluzione a quel desiderio universale: insomma, a chi non piacerebbe soddisfare il proprio palato senza poi doverne sopportare le fastidiose conseguenze?
Sapevo che tante persone non erano capaci di procurarsi il vomito. Ma io c'ero riuscita, ero una delle prescelte.
Ero forte perché avevo osato stipulare un'alleanza diabolica con il mio peggior nemico, il cibo. Ero forte perché mi stavo offrendo volontaria alla morte, eroina della mia irragionevole, stupida, vaga causa.

Solo ora, a distanza di anni, con i denti rovinati, la gola martoriata e le cicatrici delle ulcere, testimoni invisibili di un tetro dolore, mi sono convinta che in diciotto anni non sono mai stata forte.
E l'assoluta sottomissione alla subdola malattia mi ha privato della possibilità, in un lontano futuro, di diventarlo.

acqua e ghiaccio // la mia storiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora