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Piangeva.

Piangeva a dirotto, le lacrime erano ruggenti cascate che inondavano il giovane viso segnato dalla stanchezza, le occhiaie scure erano più che evidenti anche se solo la luce della luna e delle poche stelle, alte nel cielo e così distanti da lei, illuminavano di riflessi azzurrognoli i fili d'erba che circondavano le gambe della panchina su cui sedeva rannicchiata.

Alzò lo sguardo al cielo, quel cielo che aveva preso le distanze da lei per non subire il suo stesso dolore, quel cielo di un blu intenso, quasi nero, che nascondeva per sé i segreti più intimi di ogni essere umano, quel cielo che, dall'alto, vedeva scorrere sotto di sé le vite di milioni e milioni di persone, incurante delle loro emozioni, delle situazioni in cui si trovavano, della piega che stava prendendo la loro vita.

Non riuscì più a reggere lo sguardo e nascose il viso tra le mani tremanti dalla rabbia e dal dolore, appoggiando la fronte imperlata di sudore freddo alle ginocchia.

Osservò le proprie lacrime scivolare a fatica lungo le ciglia folte, alla ricerca di un appiglio, e infrangersi sui pantaloni di jeans dopo una rovinosa caduta nel vuoto.

Si sentiva esattamente nello stesso modo.

Era salita in alto, era arrivata quasi a sfiorare quel cielo imponente che la giudicava con tanta durezza senza darle alcun conforto, era giunta tanto in alto da vedere le vite circostanti muoversi sotto la sua e si era meravigliata di quanto fosse bello il mondo in cui viveva.

Era arrivata quasi in cima, mancava poco per raggiungere la vetta, ma chi le dava il sostegno e la giudava lungo quella scalata così ardua, dura e impervia l'aveva abbandonata prima che potesse trovare un nuovo appiglio per le gambe, facendola precipitare di nuovo nel vuoto fino a ritornare in basso, in balia dell'oblio e del male che le persone attorno a lei le recavano.

Lui si era allontanato senza preavviso, obbligandola a reggere da sola quel fardello che si poteva sostenere solo in due, facendola faticare per rimanere dove era arrivata e facendola poi fallire miseramente sotto gli sguardi di scherno del mondo.

L'aveva ferita, l'aveva fatta stare malissimo e le aveva procurato tanto dolore che il suo cuore si era segnato di cicatrici indelebili, di quelle chiare, sottili, che sembrano sparire ma che rimangono per sempre incise sulla pelle.
Girò il viso verso destra.

C'era un ragazzo, seduto sulla sua panchina. Un ragazzo che non aveva mai visto prima, ma che la guardava con un interesse tale che la mise a disagio. Il ragazzo era voltato con tutto il corpo nella sua direzione, una delle due gambe lunghe era piegata sulla panchina e con un gomito appoggiato sul ginocchio si reggeva il viso, illuminato solo in parte da quella luna a cui tanto ambiva la ragazza.

«Hai finito di guardami?» Bofonchiò, scontrosa. Si vergognava a farsi vedere in quel modo, non si era ancora abituata ad essere così debole. Lei era sempre stata sorridente, riusciva a far stare bene le persone che le stavano attorno e non aveva mai pianto così tanto, ma da quando lui l'aveva lasciata sola era diventato tutto più difficile.

C'era un qualcosa, nei suoi gesti.
Si comportava nello stesso modo allegro di sempre, ma c'era come un velo cupo di tristezza e dolore che rendeva ogni suo movimento più grigio e spento, e anche i suoi amici se ne erano accorti.

«Tu hai finito di piangere?» Il ragazzo parlò a bassa voce, il suo sguardo era un'onda sinuosa che si spostava lungo il viso umido e il corpo rannicchiato della ragazza, ne studiava ogni espressione, ogni piega, ogni angolatura con dedizione e meraviglia.

Cosa ci fosse di meraviglioso in lei e cosa affascinasse tanto il ragazzo, lei non lo sapeva. Credeva di essere nata per fare sorridere gli altri, ma da quando lui non era più al suo fianco non era in grado di sorridere lei stessa e aveva perso ogni voglia di accogliere il mondo in cui viveva con gioia.

Annuì piano, tirando su con il naso e pulendosi le guance dal trucco strappato via con ferocia dalle lacrime impetuose che avevano smesso da pochi minuti di inondarle il viso.

Guardò di sbieco il ragazzo seduto alla sua destra, la poca luce notturna giocava con i tratti del suo viso, alterando le forme e le curve del naso, degli occhi, delle labbra.

«Meglio» disse il ragazzo, «Non devi perdere il tuo tempo piangendo.»
Lei si passò con stanchezza le mani umide sui pantaloni e abbandonò la schiena conto alla panchina arrugginita.

Il pianto non le aveva dato tregua, si sentiva stremata, privata di tutte le forze da un mostro di dolore, rabbia e lacrime.

«Piangere è un modo per sfogarsi. Serve molto più delle urla, dei pugni, dei calci, dei singhiozzi.» Disse, appoggiando il mento sulle ginocchia e stringendo le braccia attorno alle gambe.

Ora che si stava pian piano calmando, il freddo la stava avvolgendo tra le sue braccia ruvide. «Mi fa bene piangere.» Mormorò poi.

Il ragazzo soffiò, le labbra si arricciarono in una piega perfetta e simmetrica anche sotto la luce scarsa della luna.

Erano labbra piene, forti, ma al tempo stesso sottili e delicate, capaci di infrangere o realizzare i sogni di una persona con un soffio appena accennato.
«A nessuno fa bene piangere.» Disse, scuotendo quasi impercettibilmente la testa e guardando in basso, verso le proprie scarpe bianche.

Quello fu il primo istante in cui gli occhi di lui non scrutavano la ragazza e il suo corpo, e lei avvertì quasi una mancanza, un senso di vuoto e di vulnerabilità senza lo sguardo deciso del ragazzo su di sé.

«È la scusa più usata quando le persone si rendono conto che stanno per crollare. È inevitabile piangere e tutti dicono che faccia stare meglio solo perché non vogliono ammettere quanto si sentono deboli mentre cedono.» Il ragazzo tornò a guardare lei, i suoi occhi erano accesi di una luce diversa dal riflesso della luna, diversa da qualsiasi altra luce che avesse mai visto negli occhi di qualcuno.

Sotto un certo aspetto era quasi spaventoso, l'ardore che metteva nelle proprie parole e la rabbia che queste trasmettevano erano spiazzanti.

«Se ti dava tanto fastidio potevi anche andartene, prima» disse lei, sentendosi in parte accusata dal ragazzo, «Nessuno ti ha obbligato a stare fermo qui a guardarmi piangere.»

Però, in qualche modo, il gesto del ragazzo le aveva fatto piacere. Le aveva dato una strana sensazione di conforto il fatto che un ragazzo sconosciuto si sedesse insieme a lei su una panchina arrugginita del parco di Seoul mentre lei si lasciava sommergere dall'oceano di dolore che aveva cercato di confinare un bicchiere troppo piccolo.

«Volevo stare qui.» Rispose semplicemente lui, scrollando appena le spalle e tenendo lo sguardo fisso in quello distrutto di lei. Rimase stupefatta dalle parole del ragazzo.

Erano due semplici parole, parole che avrebbero potuto significare la più piccola inezia, eppure la colpirono. La colpirono perché lui aveva desiderato rimanere lì, al suo fianco, a vederla piangere, a osservarla, a guardare da lontano mentre crollava, senza interferire e senza darle il conforto che lei non avrebbe mai accettato.

«Ah» disse solo, incapace di aggiungere altro. Si sentiva strana, quelle parole avevano risvegliato un torpore nel suo stomaco che si stava irradiando lentamente in tutto il corpo, linfa vitale che scorreva nelle vene.

Chiuse gli occhi e lasciò che il suo corpo agisse da solo, scollegò quel peso pieno dei postumi del pianto, di brividi, lividi, sudore e occhi brucianti dalla mente, rilassata e incuriosita dal ragazzo accanto a lei.

Aprì gli occhi e vide che lui la stava ancora osservando con quel l'espressione curiosa e concentrata che aveva tenuto per tutto il tempo. Poi la domanda le sorse inaspettata e lasciò senza parole lei stessa, come la visione di una branco di delfini vicino alla riva. «Perché sei rimasto?»

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Spulciando nelle mie opere, ho trovato una storia di due anni fa che avevo già pubblicato in precedenza per poi "declassarla" a bozza per usarla in un concorso.
Dato che il concorso è finito, ho deciso di ripubblicarla perché questa è una short story a cui tengo particolarmente.
Love you,
Mati

¹⁵⁰ ᵐⁱⁿᵘᵗᵉˢ - ˡʲʰDove le storie prendono vita. Scoprilo ora