Siamo quelli che vivono nel tempo di mezzo. Non abbiamo età. Esistiamo e basta. Qui, tra un battito del cuore e l'altro. E non ha importanza se erano gli anni '90, quando Gabriele Spinelli aveva diciassette anni e per pagarsi la discoteca e i fumett...
«Lele, a che ora torni a casa?» grida mia madre dalla finestra della cucina che si affaccia nel cortile interno.
Non è possibile! Ho fatto il solito foglio che ho messo sulla parete in camera mia per non subire più questa domanda, come tante altre, ma sembra non funzionare. Del resto, sono solo più di dieci anni che me lo chiede. L'unica nota positiva è che l'anno prossimo non me lo potrà più chiedere e certo non mi mancherà.
Mi giro e sollevo lo sguardo verso di lei.
«È mercoledì, esco alle dodici e quaranta.»
«Allora sei a casa per l'una?» continua con i riccioli pieni di mèche che spuntano dal rosmarino e dalla salvia sul piccolo davanzale. Sono agganciati col filo spinato per sicurezza visto che sotto c'è la guardiola della portineria e c'è un forte rischio che caschi un vaso in testa a un malcapitato.
«No» scuoto il capo. «Vado al Burghy oggi, come ogni mercoledì.» Siamo a metà settembre e a soli dieci giorni di scuola e già sto' messo così: sklerato.
Cioè, non arrivo a Natale, di questo passo.
«Torni per cena?»
«Sì...»
«Chiama se tardi» dice socchiudendo la finestra, ma s'incastra gli occhiali nella tendina a fiori. Così coglie l'occasione per aggiungere: «Hai capito?»
«Sì, ciao» replico e riprendo a camminare rapido, ma non faccio in tempo a giungere al portone.
«Lele!»
Mia madre è di origine emiliana e, sebbene viva a Milano fin da bambina, non ha perso il vizio del paese e quello di gridare dalla finestra. Non la sopporto quando fa così. Detesto queste scenette mattutine.
«Che c'è?» le chiedo girandomi soltanto.
«La tessera per chiamare ce l'hai?»
«Sì!» sentenzio e la saluto. «Ho tutto. Ciao.» Vado al portone e la portinaia Graziella è nei pressi che spazza il marciapiede.
«Ciao, Lele» mi dice mentre io le sorrido.
«Ciao, buona giornata» le dico mentre lei aggiunge di fare il bravo. Anche lei la sua solita frase la deve dire perché altrimenti non è contenta.
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Tengo le mani sui braccioli del mio zaino Invicta e cammino rapido per via Padova fino al numero cinque dove citofono al mio amico Giovanni, che chiamo il Giova. Abbiamo fatto le elementari e le medie insieme. Ora andiamo allo stesso istituto, ma per un caso del destino. Comunque non siamo in classe insieme.
«Scendo» dice secco con la voce metallica. I suoi genitori hanno il negozio di ferramenta sempre qui al cinque. Lui è uno dei pochi fortunati che conosco; dopo il diploma ha il lavoro assicurato e lui non ha altre pretese o idee per cambiare questo suo futuro saldatogli addosso. È un ragazzo simpatico e semplice con una salute di ferro. Riesce a prendersi un raffreddore ogni tre anni e basta. È affidabile e preciso; il Giova è uno senza sorprese, il classico "ragazzo a posto".