Hamburger Burghy...
Hamburger, hamburger, @àX?? e patatine, allegria e felicità... Più gusto di Burghy nessuno ti da.
Il jingle vincente è quello che resta in testa una vita intera. Quello di Burghy ancora mi ronza nella mente perché c'è quella parola mancante che mi tormenta fin dall'infanzia. Un'anomalia, una parola strana non del tutto chiara, qualcosa d'insolito insomma.
Che caspita canticchiava il bambino della pubblicità?
Alcuni miei compagni di scuola ipotizzavano un "minchia" subliminale teorizzando che spingevano noi ragazzi a fare sesso. In effetti, il padre del bambino insegnava che per farsi la ragazza dovevi offrire il pranzo; non a lei, ma alla nonna, per distrarla. È anche vero che gli allungava un "deca", un biglietto da diecimila lire. Invidiavo quel bambino, suo padre era uno di quelli che insegnano a vivere nel mondo vero e danno le dritte giuste.
Mio padre, nemmeno l'ha mai pensata, figuriamoci darmi davvero dei soldi per il mio svago.
Per questo, da adolescente, usavo il Burghy come punto d'incontro visto che facevo qualche lavoretto per potermi permettere la discoteca, il cinema, i fumetti e un King Bacon ogni tanto. Andavo in San Babila, ma non da quello famoso come ritrovo dei Paninari all'angolo con Corso Europa e Largo Arturo Toscanini. A me piaceva quello in galleria di Corso Vittorio Emanuele II, quello della scala di cemento all'interno della galleria.
La stessa scala che ora sto fissando sgomento. Sono tornato in Milano da due giorni, ma per impegni di lavoro non sono riuscito a liberarmi prima. Sapevo che avevano rifatto tutto, ma non credevo fino a questo punto. Cioè, non c'è più nemmeno la galleria, c'è solo il negozio di moda Banana Republic.
La scala ora è marmorea, super chic, e inserita nel negozio come scala privata. I manichini sembrano i fantasmi dei miei coetanei degli anni novanta, quando ci radunavamo là sotto il sabato pomeriggio per spacciare gli inviti e i pass del Black Stone, una discoteca che oggi non esiste più.
Mi chiamavano tutti "Lele, quello del Burghy della scala".
Ero là tutti i sabati dalle sei in poi.
Mi facevo Corso Buenos Aires a piedi fino a San Babila per lo spaccio dei miei volantini. Ne avevo diversi; col timbro "Lele", sempre, poi c'erano quelli con la bibita gratuita e infine quelli speciali Vip per la sala privata che però erano quadrati e contati.
Ogni fine settimana mi sparavo una quantità industriale di chilometri, per non parlare di tutti gli altri giorni. Su e giù dalla metropolitana e via di piedi con le mie scarpe da ginnastica All Star nere che oggi chiamano genericamente sneakers e sono per fighetti. Le mie erano consumate e buone a ogni stagione. Volevo comprarmi le Buffalo, ma la verità è che non potevo permettermele come tante altre cose.
Non ero un Paninaro, non ero un Metallaro, non ero un Dark, non ero un Punk di via Torino, che indossavano i retaggi dei cugini inglesi sempre sull'orlo dell'estinzione, non ero nemmeno un tipo da discoteca. Non ero nulla di etichettabile.
Non mi piaceva l'idea di fare gruppo con qualcuno perché mi piaceva frequentare tutti. Avevo amici ricchi e poveri, parlavo con i miei coetanei e con quelli più grandi trovando ogni volta dei ponti d'incontro su cui sostare per un reciproco scambio d'opinione.
Non ero Comunista, non ero per Berlusconi, simpatizzavo per Pannella ma solo perché a diciassette anni non puoi non trovare grande uno che dice liberalizziamo le canne.
In molti mi chiedevano come potessi avere amici così diversi fra loro e io dicevo sempre che mi ponevo così com'ero e senza alcun doppio fine. Se piacevo bene, altrimenti ciao!
Scrivevo per il giornalino della scuola, l'ITCS Schiaparelli - Gramsci, e facevo parte del comitato studentesco.
Non fumavo, le sigarette. Non bevevo alcolici se non qualche coca-cola e rum. Non avevo il motorino.
Non ero brutto, ma non ero nemmeno uno strafigo da rivista. Eppure c'era chi mi trovava bello forse perché ero popolare e questo mi creava un'eco a scuola di cui però non sentivo mai nulla se non attraverso qualche mia amica, che mi riferiva quel che dicevano su di me. Ero quello che veniva definito "un tipo", per quel che significa. Non l'ho mai capito.
Comunque, mi ritrovavo dediche sul banco, in bacheca e anche nella cassetta del giornalino, ma sempre anonime.
Forse volevano capirmi, cercavano di incasellarmi ieri come oggi ma senza successo.
Perché sono sempre stato solo Lele e nulla più e la gente non capisce che si può vivere anche senza etichetta.
A diciassette anni devi avere le tue etichette, devi essere parte del branco o altrimenti t'isoli. Dicevano.
Sbagliato. Io ero sempre in compagnia pur stando fuori dal branco di turno.
Però, ho conosciuto un tipo nel 1993 che mi ha fatto capire che ero anch'io parte di un branco senza saperlo; quello degli outsider che spaventano tanto il sistema.
Uno che va contro corrente per istinto naturale. Un "diverso" inconsapevole ma tranquillo.
Lui era invece un diverso ribelle, magnifico e fatale.
Il 1994 è stato l'anno che più di tutti mi ha cambiato, però.
L'ultimo anno di scuola, l'ultima autogestione, l'ultimo capodanno da studente, il diploma, l'ultima estate, l'inizio della chiusura dei Burghy in favore dei Mc Donald's, ma soprattutto il mio drastico cambio di vita.
O meglio, il mio approccio alla vita.
È stato l'anno in cui ho capito come funzionava il mondo vero, quanto fosse ipocrita e corrotto, e che dovevo farmi furbo se volevo sopravvivere.
Gli idealisti come me non hanno vita facile, soprattutto quando non sono disposti a piegarsi davanti alle autorità imposte non per meritocrazia ma per raccomandazione o dittatura. Però, noi esistiamo ancora. Resistiamo.
Mentre entro nel negozio Banana Republic, tento e mi sforzo di rivedere il mio Burghy in qualche angolo, ma non c'è più nulla che possa ricondurmi a quei tempi ormai andati, agli anni '90 se non la scala che ora mi accingo a salire ripercorrendo i miei ricordi.
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Nel tempo di mezzo
RomanceSiamo quelli che vivono nel tempo di mezzo. Non abbiamo età. Esistiamo e basta. Qui, tra un battito del cuore e l'altro. E non ha importanza se erano gli anni '90, quando Gabriele Spinelli aveva diciassette anni e per pagarsi la discoteca e i fumett...