capitolo 1

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Ne percepii la paura prima ancora di sentirne le grida.
Il suo incubo palpitò in me strappandomi al mio stesso sogno, che aveva a che fare con una spiaggia e una tipa sexy che mi spalmava l'olio abbronzante.
Alcune immagini - sue, non mie - si riversarono nella mia mente: fuoco e sangue, il puzzo di fumo, il metallo ritorto di un'auto. Le immagini mi avvolsero, soffocandomi, finché una parte razionale del cervello mi ricordò che non si trattava di un sogno mio.
Mi svegliai, lunghe ciocche di capelli castani appiccicate alla fronte.
Dinah era nel suo letto, si agitava e strillava. Saltai fuori dal mio, e attraversai alla svelta le poche decine di centimetri che ci separavano.
«Dinah» dissi, scuotendola. «Dinah, svegliati!»
Le urla cessarono, rimpiazzate da sommessi piagnucolii. «Andre» gemette.
«Oddio.» La aiutai a mettersi seduta.
«Dinah, è passato. Svegliati!»Dopo qualche istante batté le palpebre aprendo gli occhi, e nella luce fioca mi accorsi che un barlume di coscienza cominciava a farsi strada nella sua mente.
Il respiro affannoso rallentò, e Dinah si chinò verso di me, poggiandomi la testa sulla spalla.
La circondai con un braccio e le passai una mano sui capelli.
«Va bene» le dissi con dolcezza. «Va tutto bene.»
«Ho fatto di nuovo quel sogno.»
«Lo so.»
Rimanemmo sedute così per qualche minuto, senza dire nient'altro. Quando percepii che il suo turbamento era passato, mi allungai verso il comodino tra i nostri letti e accesi la lampada.
Risplendeva di una luce tenue, ma non ci occorreva averne molta di più per riuscire a vedere.
Attirato dal chiarore, il gatto del nostro coinquilino, Oscar, saltò sul davanzale della finestra aperta.
Tenendosi alla larga da me - per una qualche ragione i dhampir non piacciono agli animali - saltò sul letto e sfregò la testa contro Dinah, facendo piano le fusa.
Gli animali non avevano problemi con i Moroi, e tutti amavano Dinah in modo particolare. Sorridendo, lei gli grattò il mento, e la sentii calmarsi ancora di più.
«Quando abbiamo fatto l'ultima nutrizione?» chiesi, studiando la sua espressione.
La pelle, già chiara, era ancora più pallida del solito. Occhiaie scure le segnavano gli occhi, ed era ammantata da un'aura di fragilità. A scuola avevamo avuto una settimana intensa, e non riuscivo a ricordare quand'era stata l'ultima volta che le avevo dato del sangue. «Sono passati... più o meno due giorni,vero? Tre? Perché non hai detto niente?»
Scrollò le spalle e non volle guardarmi negli occhi. «Eri molto occupata. Non volevo essere...»
«Chi se ne frega» dissi, mettendomi in una posizione più comoda. Non c'era da stupirsi che sembrasse tanto debole. Oscar, che non mi voleva vicino, balzò via e tornò alla finestra, dove poteva rimanere a guardare tenendosi a distanza di sicurezza. «Avanti. Facciamolo.»
«Mila...»
«Vieni qui. Ti farà sentire meglio.»
Piegai la testa di lato e scostai i capelli, lasciando scoperto il collo. La vidi esitare, ma la vista del mio collo e di ciò che le offriva fu troppo invitante. Un'espressione affamata le attraversò il viso, e le sue labbra si schiusero un poco, snudando i canini che teneva sempre nascosti quando era in mezzo agli esseri umani. Quei canini contrastavano in modo singolare con i suoi tratti. Con quel viso carino e i capelli biondi aveva più l'aria di un angelo che quella di un vampiro.
Mentre i denti si avvicinavano alla mia pelle, sentii il battito del cuore accelerare in una mescolanza di paura e attesa.
Avevo sempre odiato la sensazione che mi dava l'attesa, ma non potevo farci niente, era una debolezza che non riuscivo a scrollarmi di dosso.
I canini mi penetrarono a fondo, e gemetti per quella breve vampata di dolore. Che poi si dissolse, rimpiazzata da una magnifica, dorata estasi che sentii diffondersi per tutto il corpo. Era di gran lunga meglio di qualunque altra volta mi fossi trovata sbronza o strafatta. Meglio del sesso, o perlomeno di come me lo immaginavo, visto che non lo avevo mai fatto. Era un manto di puro,raffinato piacere che mi avvolgeva e prometteva che al mondo ogni cosa sarebbe andata bene. Si protrasse, ancora e ancora; le sostanze chimiche nella saliva di Dinah indussero una scarica di endorfine, e così persi coscienza del mondo, coscienza di chi ero.
Poi, con mio grande rammarico, cessò. Tutto era durato meno di un minuto.
Dinah si ritrasse, passandosi la mano sulle labbra mentre mi scrutava in volto. «Stai bene?»
«Io... sì.» Mi lasciai ricadere all'indietro sul letto, in preda alle vertigini dovute alla perdita di sangue. «Mi basterà dormirci su. Sto bene.»
I suoi occhi scuri mi guardavano apprensivi. Si alzò.
«Vado a prenderti qualcosa da mangiare.»Le mie proteste giunsero goffamente alle labbra, ma lei se ne andò prima che riuscissi apronunciare una frase.
L'ebbrezza del morso era scemata sin da quando Dinah aveva interrotto il contatto, ma qualcosa si attardava ancora nelle mie vene, e mi sentivo un sorriso ebete sulle labbra. Voltando la testa, diedi un'occhiata a Oscar, ancora seduto alla finestra.
«Non sai cosa ti perdi» gli dissi.
Ma la sua attenzione era rivolta verso l'esterno. Acquattandosi, rizzò il pelo corvino. La coda cominciò a ondeggiare.
Il mio sorriso svanì, e mi sforzai di mettermi seduta. Il mondo girava, e aspettai che si fermasseprima di provare a mettermi in piedi. Quando ci riuscii, le vertigini ricominciarono, e questa volta non vollero sapere di andarsene. Nonostante tutto mi sentivo abbastanza bene da barcollare fino alla finestra e dare un'occhiata insieme a Oscar. Lui mi guardò con circospezione, si fece un po' più in là, e poi tornò a occuparsi di ciò che aveva catturato la sua attenzione, di qualunque cosa si trattasse.
Una brezza calda - stranamente calda per l'autunno di Portland - scherzò con i miei capelli mentre mi sporgevo. La strada era buia e abbastanza tranquilla. Erano le tre del mattino, più o meno l'unica ora del giorno in cui il campus di un college si acquieta almeno un poco. La casa in cui avevamo affittato una stanza negli ultimi otto mesi si trovava nel quartiere residenziale del college, in una via con abitazioni vecchie e male assortite. Dall'altra parte della strada, un lampione sfarfallò, pronto a fulminarsi. Proiettava ancora una luce sufficiente a permettermi di riconoscere il profilo delle automobili e degli edifici. Nel nostro giardinetto riuscii a scorgere le sagome di alberi e cespugli.
E di una donna che mi guardava.
Indietreggiai di colpo per la sorpresa. C'era qualcuno accanto a un albero del giardino, a qualche metro da me, che avrebbe potuto guardare con facilità attraverso la finestra. Era così vicino che con ogni probabilità avrei potuto tirargli addosso qualcosa e colpirlo. Era così vicino che di certo avrebbe potuto vedere ciò che Dinah e io avevamo appena fatto.
Le ombre lo ammantavano a tal punto che persino la mia vista potenziata non riusciva a distinguerne le sembianze, a parte l'altezza. Era alta. Davvero alta. Rimase lì per un solo istante, a malapena visibile, poi fece un passo indietro, scomparendo nell'ombra proiettata dagli alberi infondo al giardino. Ero piuttosto certa di aver scorto qualcuno avvicinarsi e unirsi a lei prima che le tenebre inghiottissero entrambi.
Chiunque fossero quelle figure, Oscar non le gradiva. A parte me, di solito andava d'accordo con tutti, e si indispettiva solo nel caso in cui qualcuno rappresentasse una minaccia concreta. Il tizio là fuori non aveva in alcun modo minacciato Oscar, ma il gatto aveva intuito qualcosa, qualcosa che lo aveva messo in allarme.
Qualcosa di simile a ciò che aveva sempre percepito in me. Una paura gelida mi attraversò, quasi sradicando, ma non del tutto, l'incantevole beatitudine del morso di Dinah. Mi allontanai dalla finestra e mi infilai un paio di jeans che trovai sul pavimento,barcollando durante l'operazione. Poi afferrai il mio giaccone e quello di Dinah e i nostri portafogli.
Ficcai i piedi nel primo paio di scarpe che riuscii a individuare e infilai la porta.
Al piano di sotto, trovai Dinah nella minuscola cucina, intenta a rovistare nel frigorifero. Jeremy,il nostro coinquilino, era seduto al tavolo, la mano che gli reggeva la fronte mentre fissava triste il manuale di analisi matematica. Dinah mi guardò sorpresa.
«Non avresti dovuto alzarti.»
«Dobbiamo andare. Adesso.»
Spalancò gli occhi, e un istante dopo parve capire. «Stai... davvero? Ne sei sicura?» Annuii. Non sapevo spiegare come, ma ne ero certa. Lo sapevo e basta.
Jeremy ci guardava incuriosito. «Che c'è che non va?»
Mi venne un'idea. «Prendi le chiavi della sua macchina.»
Lui fece correre più volte lo sguardo tra me e lei. «Che stai...»
Senza esitare Dinah gli si parò davanti. La sua paura si riversava in me attraverso il nostro legame psichico, ma c'era anche dell'altro: l'assoluta fiducia che avrei pensato io a tutto, che saremmo state al sicuro. Come sempre, sperai di essere degna di tanta fiducia.
Dinah fece un largo sorriso e guardò Jeremy diritto negli occhi. Per un attimo lui ricambiò lo sguardo, ancora confuso, poi mi accorsi che stava per cedere. Gli si velarono gli occhi e la guardò adorante.
«Abbiamo bisogno di prendere in prestito la tua macchina» disse Dinah con voce gentile. «Dove sono le chiavi?»Lui sorrise, e io rabbrividii. Avevo una notevole capacità di resistere alla compulsione, ma riuscivo ancora a riconoscerne gli effetti quando era diretta contro un'altra persona. E poi per tutta la vita mi ero sentita ripetere che usarla era sbagliato. Tuffando la mano in tasca, Jeremy ci consegnò un mazzo di chiavi che penzolava da una grossa catena rossa.
«Grazie» disse Dinah. «E dov'è parcheggiata?»
«In fondo alla strada» rispose Jeremy con aria sognante. «All'angolo. Vicino a Brown.» A quattro isolati di distanza.
«Grazie» ripeté Lissa, indietreggiando. «Quando ce ne andiamo, rimettiti subito a studiare. Dimentica di averci visto stanotte.»
Lui annuì con fare servizievole. Avevo l'impressione che si sarebbe buttato in un precipizio in quel preciso istante, se Dinah glielo avesse domandato. Tutti gli esseri umani erano ricettivi alla compulsione, ma Jeremy si stava rivelando più arrendevole della maggior parte di loro. Il che ci faceva comodo, in quel momento.
«Avanti» le dissi. «Dobbiamo muoverci.»
Uscimmo, dirette all'angolo di cui aveva parlato Jeremy. Avevo ancora le vertigini per il morso e continuai a inciampare, incapace di muovermi veloce quanto avrei voluto. Più volte Dinah dovette sostenermi per impedirmi di cadere. Per tutto il tempo, l'ansia affluì in me dalla sua mente. Feci del mio meglio per ignorarla; avevo già le mie paure di cui preoccuparmi.
«Mila... Cosa faremo se ci prendono?» bisbigliò. «Non ci prenderanno» dissi con impeto. «Non glielo permetterò.»
«Ma se dovessero trovarci...»
«Ci hanno trovato altre volte. E non ci hanno prese. Andremo in macchina fino alla stazione e poi partiremo per Los Angeles. Perderanno le nostre tracce.»
Lo feci sembrare semplice. Mi comportavo sempre così, anche se sfuggire a persone con cui eravamo cresciute non era per niente semplice. Fuggivamo da due anni ormai, nascondendoci ovunque fosse possibile e cercando di finire la scuola superiore, nient'altro. Il nostro ultimo anno era appena iniziato, e il quartiere residenziale del college ci era parsa una sistemazione sicura. Eravamo a un passo dalla libertà.
Non aggiunse altro, e percepii la sua fiducia tornare a crescerle dentro. Era sempre stato così fra di noi. Io ero quella che prendeva l'iniziativa, che si preoccupava di far succedere le cose, anche se in modo impulsivo, a volte. Lei era quella più prudente, quella che ci rifletteva su, che esaminava le cose a fondo prima di agire. Due comportamenti che avevano una loro utilità, ma al momento l'impulsività era ciò di cui avevamo bisogno. Non c'era tempo per l'incertezza.
Dinah e io eravamo migliori amiche fin dai tempi dell'asilo, da quando la nostra maestra ci aveva messo in coppia per imparare a scrivere. Costringere una bimba di cinque anni a scrivere lettera per lettera Dinah Jane Milika Ilaisaane Hansen Amasio e Karla Camila Cabello Estrebao andava ben oltre la crudeltà, e noi avevamo - o meglio, io avevo - reagito nel modo giusto. Avevo scagliato il quaderno contro la maestra e l'avevo chiamata bastarda fascista. Ancora non sapevo cosa significassero quelle parole, ma sapevo bene come colpire un bersaglio in movimento. Da allora Dinah e io eravamo diventate inseparabili.
«L'hai sentito?» chiese all'improvviso.
Mi ci volle qualche secondo prima di riuscire a percepire quello che i suoi sensi più acuti avevano già captato. Passi, che si facevano più veloci. Feci una smorfia. Rimanevano ancora due isolati.
«Dovremo correre» dissi, afferrandole il braccio.
«Ma tu non puoi...»
«Corri.»
Dovetti metterci ogni grammo della mia forza di volontà per non svenire sul marciapiede. Dopo aver perso sangue e mentre ancora metabolizzava gli effetti della saliva di Dinah, il mio corpo non voleva saperne di correre. Ma ordinai ai muscoli di darsi una mossa e mi aggrappai a Dinah mentre i nostri piedi martellavano l'asfalto. Di regola avrei potuto correre più veloce di lei senza eccessivi sforzi, prima di tutto perché era scalza, ma quella notte era lei a sorreggere me.
I passi che ci inseguivano risuonarono più distinti, più vicini. Vedevo macchie nere ballarmi davanti agli occhi. Più avanti, riuscii a scorgere la Honda verde di Jeremy. Oh Dio, se solo fossimo riuscite a farcela... A tre metri dall'auto, una donna si materializzò sulla nostra traiettoria. Ci fermammo di colpo, e io strattonai Dinah per il braccio per tirarla indietro. Era lei, la donna che avevo visto dall'altra parte della strada mentre mi osservava. Era più grande di noi, doveva avere all'incirca venticinque anni,ed era alta quanto me l'ero immaginata, forse due metri, due metri e cinque. E in altre circostanze -se, per esempio, non fosse stata impegnata a ostacolare il nostro disperato tentativo di fuga - l'avrei trovata un bel tipo. Capelli castano lunghi fino alle spalle legati in una corta coda di cavallo. Occhi verdi. Un lungo soprabito marrone, uno spolverino, penso si chiami così.
Ma in quel momento quanto fosse bella era irrilevante. Era solo un ostacolo che separava Dinah e me dall'auto e dalla libertà. I passi alle nostre spalle si fecero più lenti, e capii che i nostri inseguitori ci avevano raggiunto. Ai lati scorsi altro movimento, persone che ci accerchiavano. Dio.
Per recuperarci avevano mandato quasi una dozzina di guardiani. Stentavo a crederci. La regina in persona non viaggiava con una simile scorta.
In preda al panico e non nel pieno controllo della mia razionalità, agii d'istinto. Mi avvicinai a Dinah, costringendola a mettersi dietro di me, lontano dalla donna che sembrava essere il capo.
«Lasciala stare» gemetti.
«Non toccarla.»
La sua espressione era indecifrabile, ma distese una mano in quello che, almeno nelle sue intenzioni, doveva essere un gesto rassicurante, come se io fossi un animale rabbioso che si preparava a sedare.
«Non ho intenzione di...»Fece un passo avanti. Troppo vicino.
La attaccai spiccando un balzo, in una manovra offensiva che non usavo da due anni, da quando Dinah e io eravamo fuggite. Fu una mossa stupida, l'ennesima reazione dovuta all'istinto e alla paura.
Lei era una guardiana esperta, non una novizia male addestrata. E in più non si sentiva debole e neppure sul punto di perdere conoscenza.
E, ragazzi, se era veloce. Avevo dimenticato quanto sapessero essere rapidi i guardiani, come potessero muoversi e colpire quasi fossero cobra. Deviò il mio assalto come se stesse scacciando una mosca, e le sue mani si abbatterono su di me scaraventandomi all'indietro. Non penso avesse intenzione di colpirmi così forte, con ogni probabilità voleva solo tenermi lontana, ma la mia mancanza di coordinazione rese inutile la mia capacità di reazione. Non riuscii a ritrovare l'equilibrio e iniziai a cadere, puntando diritta verso il marciapiede con una strana angolazione, di bacino. Avrebbe fatto molto male. Molto. Solo che non lo fece. Con la stessa rapidità con cui mi aveva bloccato, la donna si proiettò in avanti e mi prese per un braccio, rimettendomi in piedi. Quando ritrovai l'equilibrio, mi accorsi che mi fissava o, per essere più precisi, che mi fissava il collo. Ancora disorientata, non riuscii a rendermi subito conto di che cosa si trattasse. Poi, piano piano, la mano che avevo libera corse alla gola e sfiorò la ferita lasciata da Dinah un attimo prima. Quando ritrassi le dita, notai del sangue scuro e viscoso sui polpastrelli.
Imbarazzata scrollai il capo, e i capelli ricaddero in avanti, attorno al viso. Li avevo folti e lunghi, e coprirono il collo. Li avevo fatti crescere proprio per quello.
Gli occhi chiari del mio assalitore indugiarono ancora per un momento sul morso ormai nascosto,poi cercarono i miei. Sostenni il suo sguardo con fare sprezzante e cominciai subito ad agitarmi, liberandomi dalla sua presa. Mi rendevo conto che, se avesse voluto, avrebbe potuto trattenermi anche per tutta la notte, ma mi lasciò andare. Lottando contro il capogiro e la nausea raggiunsi di nuovo Dinah, e raccolsi le forze per un nuovo attacco. All'improvviso, la sua mano strinse la mia.
«Mila» disse calma. «Non farlo.»
Al principio le sue parole non sortirono alcun effetto su di me, ma pensieri tranquillizzanti iniziarono a poco a poco a farsi spazio nella mia mente, affluendo attraverso il legame. Non si trattava esattamente di compulsione - lei non l'avrebbe mai usata su di me - ma seppe essere convincente, tanto quanto il fatto di essere state surclassate e di essere disperatamente in inferiorità numerica. Mi convinsi anch'io che lottare sarebbe stato inutile. La tensione abbandonò il mio corpo,e mi afflosciai in segno di sconfitta.
Intuendo la mia sottomissione, la donna si fece avanti, concentrandosi su Dinah. Aveva un'espressione placida. Le fece un inchino e riuscì a dimostrarsi aggraziata, il che mi stupì,considerata la sua altezza. «Il mio nome è Lauren Jauregui» disse. Riconobbi un vago accento russo.
«Sono qui per riportarla alla St. Vladimir's Academy, principessa.»

Vampire Academy (Camren & Norminah)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora