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No, mi sono appena reso conto che iniziare a scrivere come fosse una lettera che davvero ti spedirei, non avrebbe senso. Perché non te la spedirò, perché non posso spedirtela - e anche se potessi probabilmente vista la situazione la terrei nella scatola delle scarpe che hai lasciato a casa mia, con tutte le altre che verranno, se mai verranno. Dipende da come mi sentirò appena finita di scrivere questa. Dipende dal conto delle lacrime che mi sfuggiranno e da quello dei sorrisi che mi strapperai, pur non essendo qui fisicamente.
Prima mi ha preso il panico. Non sono abituato a tutto questo, ora come ora penso che non mi abituerò mai, che forse non la vorrò mai, non davvero. Mi ha preso il panico, perché tu non c'eri. Perché avevo bisogno di te, perché non posso prendermi cura di una bambina appena nata... faccio fatica a prendermi cura di me stesso, come dovrei fare a prendermi cura di lei? Le ho dato la colpa di tutto, in questi giorni. L'ho incolpata perché tu non ci sei, perché sono irritabile, perché mi manchi, perché perdo la pazienza più facilmente del solito. Le ho dato tutta la colpa perché ho mal di testa e non riesco a mangiare e quando finalmente riesco a prendere sonno lei inizia a piangere. Non so perché pianga, non lo capisco. Non so se sia perché vuole mangiare, essere cambiata o solo presa in braccio. Non lo so, perché quando la prendo in braccio piange più forte, direttamente nelle orecchie, ma non fa più male del dolore che provo ogni volta che la guardo e mi ricordo che non ci sei. Prima mi ha preso il panico, perché era tranquilla nel mio letto, immersa in quel piumone che a te piaceva tanto; e dormiva, devo ammettere che per un secondo - uno solo - ho pensato che fosse bellissima, anche se mi ricordava te. E dormiva, piccolissima al centro di quel letto gigante, con le coperte che forse ancora odorano un po' di te a circondarla, a tenerla al sicuro. Come se tu fossi stata con lei.
Mi ha preso il panico quando l'ho sentita scoppiare a piangere, in reazione al cane dei vicini che abbaiava. Avrei solo voluto uccidere quel maledetto cane. Davvero, uscire dall'appartamento come un tornado, fare le scale di corsa salendo gli scalini due alla volta, e uccidere prima il cane e poi i vicini. Mi avrebbero preso per pazzo, se solo avessi suonato al loro campanello a mezzanotte passata, ma se non mi fossi preoccupato così tanto per lei, probabilmente l'avrei fatto. E non so nemmeno se fosse panico o consapevolezza, so solamente che lei strillava le proprie lacrime alla stanza vuota, e so che tu non c'eri... ma quando l'ho presa in braccio, stringendomela al petto il più delicatamente possibile - ché ho ancora paura di romperla - ha smesso di piangere. Ci ha messo qualche minuto, ma alla fine si è abituata al calore del mio corpo, credo. Forse aveva solo bisogno di essere tenuta stretta, di sentire qualcosa che non fosse l'odore di una madre che non la vedrà mai. Forse le ho sussurrato qualcosa e alla fine si è calmata. Non lo so, amore. So solo che non riuscivo a respirare, perché forse talmente abituato a vedere le cose andare male, una volta che sono andate per il verso giusto non riuscivo a crederci.
E mi sono messo a piangere. Non avevo ancora pianto. Mi ero ripromesso di non farlo. Ma erano lacrime diverse; non erano le lacrime di un ragazzo triste che non avrebbe più visto l'amore della propria vita, erano lacrime di sollievo perché questa bambina alla quale avevo dato la colpa di tutto per giorni e che a stento ero riuscito a guardare e a toccare, aveva appena smesso di piangere grazie a me. Come se mi avesse finalmente riconosciuto, come se dopo giorni avesse finalmente capito che nonostante tutto io l'avrei protetta, che non volevo farle del male. Mi sono messo a piangere come per sfogare il panico che nemmeno capivo da dove venisse, ho pianto ed è stato come liberarsi di un peso e insieme accettare una cosa che credevo di non volere. Perché credevo che visto che tu non c'eri, non aveva senso volere questa bambina. Questa bambina che, cosa poi? Sarebbe cresciuta con un genitore solo, del tutto incompetente e capace solo di guardarla con l'odio negli occhi. So di averla guardata male. Di non averla voluta. Di averla metaforicamente spinta via. Di aver pensato che sarebbe stato meglio perdere lei piuttosto che te. L'ho pensato, e nemmeno me ne vergogno, non ci riesco, è troppo presto.
Mi sono fatto prendere dal panico e ho pianto perché mi sono reso conto che questa bambina è mia figlia. Che non è colpa sua. E che invece di trattarla male perché tu non ci sei, devo iniziare a guardarla e ricordarmi che è anche tua, non solo mia. Sperare che abbia i tuoi occhi e i tuoi capelli e le tue labbra, e che prima o poi mi si riempia il cuore a guardare lei, ricordando la sua bellissima mamma.
Ah, l'ho chiamata come volevi tu.
L'ho chiamata Luna.
C'e anche la luna piena, fuori dalla finestra, e in qualche modo sono riuscito a tirar fuori un sorriso, quando ho chiamato mia madre e gliel'ho raccontato. Credo abbia sorriso anche lei. Credo che dopotutto sia stata fiera di me, anche se faccio ancora schifo come padre e non ho idea di cosa sto facendo il novanta per cento del tempo. Ma penso che mia madre abbia capito che almeno ci sto provando.
Perché, prima di salutarmi, mi ha sussurrato che tu saresti stata fiera di me. Che saresti stata felice di vedere che anche se faccio fatica non mi sto arrendendo. E che quando Luna ha smesso di piangere tra le mie braccia a te sarebbe spuntato il più bel sorriso di sempre.
È bastato immaginare te sorridere per sorridere di rimando.
Ed è bastato per farmi addormentare.
Almeno fino alla prossima crisi di pianto, al prossimo pannolino sporco o al prossimo biberon da scaldare nel microonde.

Luna [z.m. au]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora