Nobody knows

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Prologo

 Quarta domenica di un caldo aprile a Londra

Lui è tornato.  Come al solito ubriaco e puzza come un maiale. L’odore delle Camel si diffonde nell’appartamento. Vivo a Londra, il centro del mondo, della libertà. Ma il mio mondo non ne ha di libertà. Il mio mondo è una prigione nascosta. Nessuno sa e nessuno vede. Nessuno si accorge delle mie urla la notte, quando sono costretta a compiacerlo. Nessuno mi guarda negli occhi e vede la tristezza di una vita che non ho scelto.

I miei capelli sono unti dall’olio che ho usato per friggere le cotolette. Sono le sue preferite. Ogni domenica gliele preparo. Ogni volta che le vede nel piatto, si mette a ridacchiare come un bambino. La scena mi fa sempre sorridere perché non riesco a immaginarlo bambino. Questi sono i pochi momenti in cui riesco a tirare un sorriso vero che viene da dentro, non come quelli falsi che cerco di fare davanti a tutti gli altri. Ma velocemente ritorno alla realtà. Chi voglio ingannare? Mi sento sporca, vuota più di quanto io pensi. La sensazione di essere un oggetto per soddisfare i suoi capricci  non mi abbandona. Mi tratta come un pezzo di carta igienica. Cerco di essere obbediente, ma lui si comporta come un bambino e mi usa come un giocattolo. Non sa che ho anche io dei sentimenti e una vita, un’anima che viene straziata  ogni volta che lui si presenta alla mia vista. Dire che mi fa schifo è poco.

<< Cucini bene.>> accenna a un sorriso. I suoi occhi sono beati e felici. Lo lascio da solo  nella stanza. Il profumo della carne si diffonde in tutta la casa. È agnello. Un piccolo e semplice agnello che è morto per nutrire un lupo, un mostro. Sento la sua risata fragorosa nella sala da pranzo. Non so perché ride e non mi interessa. Sono impegnata a fare il bucato e non posso distrarmi proprio ora. Annuso il profumo della candeggina. Mi salgono in mente brutti ricordi. Anzi, per la mia coscienza e per il mio corpo sono felici. Svito il tappo e lo accarezzo.

<< Lo potrei fare di nuovo, che ne dici?>> sussurro a me stessa.

6 mesi. Sono passati solo 6 mesi da quando ho provato a suicidarmi. Mi ricordo quel giorno come se fosse ieri. Avevo aperto la bottiglia di candeggina. L’avevo annusata con desiderio e poi l’avevo bevuta tutta di un fiato. Avevo calcolato anche l’ora in cui sarei morta, ma non avevo considerato gli imprevisti. Ero quasi morta, libera per la prima volta. Mi sentivo “Libera” da un mondo a cui mi hanno affidato, un mondo costruito sulla violenza e sulla sopraffazione, e un mondo che ho dovuto accettare piano piano inconsapevolmente. Ecco come mi sono sentita quel giorno.  Ero confusa e un miliardo di sensazioni ed emozioni mi hanno colpito, per la prima volta tutte insieme, travolgendomi. Il pavimento era freddo e quel giorno di autunno ero destinata a spegnermi, perché non avevo più né la forza né la luce per continuare a brillare. Ma il Signore, che tante volte ho invocato, ha voluto un destino diverso per me.  Lui è entrato e vedendomi a terra si è infuriato, rattristato e innervosito. Un vulcano di emozioni. Ha cercato di rianimarmi ma senza successo. Non ne era capace e credo che nemmeno ora abbia imparato. Forse crede che non ci proverò più. Ha sollevato da terra quel corpo che non aveva voglia di vivere un giorno di più, quel corpo che stava per morire. E la paura della morte si leggeva nei suoi occhi e nei suoi gesti, per la prima volta, affettuosi nei miei confronti. I miei occhi guardavano solo il soffitto. Non avevo più  la forza di guardare altrove, i miei sensi non funzionavano più.  Alla fine ha deciso di portarmi in ospedale. I medici hanno fatto di tutto per disintossicarmi. È mancato poco e avrei raggiunto un altro mondo.  Mi ricordo ancora le loro voci concitate che urlavano per curarmi al meglio. Ma le ferite dell’anima nessuno le può curare, restano e basta. Come i miei lividi che percorrevano tutto il mio esile corpo, segnando i punti in cui a lui piaceva colpirmi. I medici erano stupiti e i loro occhi erano pieni di pietà. Sapevano che cosa mi aveva fatto, ma io non ho avuto il coraggio di denunciare, allora e nemmeno oggi, che sono qui, in questa stupida e monotona stanza.

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