Capitolo 1

3.4K 240 18
                                    

Il sole era alto nel cielo e illuminava la città dalle bianche mura, rendendola una piccola gemma luminosa, mentre nella via maestra i banchetti del mercato la coloravano con le tinte delle sette tribù che abitavano il regno di Daitya: i capelli rossi della giovane, che marciava spedita lungo la via principale, si perdevano nella stoffa della lunga veste che la indicava come un'accolita della Dea Coccinella, dispensatrice di buona sorte e di fertilità.
La ragazza teneva ben stretto il cesto di paglia contro il fianco e, di tanto in tanto, allungava il collo per osservare le merci esposte: «Buondì, Tikki» la salutò allegra una donna, passandole una mela rossa come il suo vestito: «Hai sentito stanotte?»
«La terra ha tremato. Lo so» mormorò la giovane, afferrando il frutto e posandolo nel cesto, piegando le labbra in un sorriso mesto: «La Gran Sacerdotessa ha detto che non è nulla di cui preoccuparsi: la terra trema quando gli dei sono adirati, ma noi di Daitya non abbiamo fatto nulla...»
«Noi no» sentenziò la donna in maniera spiccia, scuotendo il capo e tirando su con il naso: «Ma quelli di Routo credono ancora di essere il grande impero di un tempo...»
La ragazza annuì, portandosi indietro una ciocca di capelli rossi e fissando un punto imprecisato a ovest: Routo e Daitya, due isole vicine ed entrambe memoria di un antico impero che era andato perduto; dell'antico impero lei, come tutti, aveva solo sentito parlare: la sua rovina andava molto indietro nel tempo, perché qualche testimone fosse ancora vivo.
Si narrava di una grande nazione, che aveva imbrigliato l'energia più grande dell'universo e l'aveva piegata al proprio volere, sfidando così gli dei che avevano ripagato l'arroganza degli uomini distruggendo quell'impero e lasciando come memoria le due isole.
Quanto fosse vero di questa storia, che i sette Gran Sacerdoti narravano, Tikki non lo sapeva: forse era solo una leggenda o forse era veramente la storia del suo popolo...
L'unica cosa di cui era certa era che i rapporti fra Daitya e Routo, noto anche come il Regno al di là del mare, erano tesi: Daitya aveva appreso la lezione del grande impero perduto, mentre Routo no.
Routo voleva ancora il potere, il dominio su quella grande forza di cui, però, non aveva il filone energetico più forte, che scorreva sotto la terra di Daitya.
«Finché i sette dei proteggeranno Daitya, non c'è niente da temere» dichiarò Tikki, sorridendo alla donna e iniziando a scegliere fra la frutta, prendendo quelli che le sembravano più maturi e succosi; era immersa nel suo lavoro quando una cacofonia di voci e rumori le giunse alle orecchie, facendola voltare, in tempo per osservare una figura maschile vestita di nero correre lungo la via del mercato, fermandosi a pochi metri da lei: «Tikki!» esclamò il fuggitivo, raggiungendola e afferrando un drappo di stoffa cremisi, sistemandosela addosso, come se fosse una matrona della tribù della Coccinella, nascondendo così la sua veste scura e simbolo dell'appartenenza del giovane uomo alla tribù del Gatto Nero: «Non dire niente alle guardie e sarò tuo debitore a vita.»
«Cosa hai combinato stavolta, Plagg?» domandò la ragazza, fissando il giovane negli occhi verdi e sospirando al sorriso scanzonato che gli piegò le labbra: «Dimmi che non centrano ancora le accolite del tempio della Farfalla, ti prego.»
«Mi proteggeresti lo stesso, Tikki?» le domandò l'altro, afferrando alcuni frutti e mettendoli nel cesto della ragazza: «Comunque no, niente vergini stavolta: avevo solo scommesso con Vooxi che sarei riuscito a entrare nel tempio del suo dio e...» si fermò, voltandosi indietro e tirando maggiormente la stoffa rossa sul volto, quando alcune guardie passarono di fianco a loro: «...e di prendere un certo calice.»
«Hai rubato nel tempio del Dio Volpe?» esclamò la ragazza, venendo immediatamente zittita dalle mani bruciate dal sole di Plagg: come per le loro vesti, gli adoratori del Dio Gatto rendevano scure le loro pelli, rimanendo ore sotto il sole fin da piccoli.
Se andava indietro con la memoria, non riusciva a ricordare Plagg con la pelle candida: il giovane accolito del Gatto Nero era sempre stato abbronzato e scuro.
«Non ho rubato, ho solo preso in prestito.»
«Plagg...»
«Stanotte riporterò il calice, dopo averlo fatto vedere a Vooxi.»
Tikki scosse il capo, sospirando esasperata e tornando a scegliere la frutta, buttando distrattamente alcune mele più acerbe nella cesta e sorridendo appena alla mercante, che ascoltava curiosa la loro conversazione: «Ti conosco fin da quando eri piccolo e sono certa che non riporterai mai quel calice al suo posto.»
«Non è vero!»
«Sì, che è vero!»
«No. Stanotte lo riporterò, promesso.»
«Plagg...»
«Mi deludi, Tikki. Non credi a una promessa del tuo futuro sposo?» dichiarò il giovane, facendole l'occhiolino e portando una mano alla bisaccia che teneva appesa alla cintura dei pantaloni, dando alcune monete alla fruttivendola, prendendole poi il cesto di vimini dalle mani e guardando la ragazza: «Dove andiamo adesso?»
«Io continuo la mia spesa» dichiarò Tikki, afferrando il bordo del cesto e tirandolo per sottrarlo alla presa di Plagg, senza riuscirci: «Tu puoi andare a deflorare altre vergini, per quel che mi riguarda.»
«Sei gelosa, Tikki?» domandò Plagg, ridendo e voltandosi verso la donna del banchetto: «E' pazza di me, c'è poco da fare.»
«Nei tuoi sogni» sentenziò la ragazza, facendo più forza sul cesto e togliendolo dalle mani del ragazzo, marciando poi spedita fra le bancarelle del mercato, trattenendo la voglia di voltarsi indietro: sapeva che Plagg era rimasto dove l'aveva lasciato e quasi sicuramente la stava fissando, aspettando il momento in cui si sarebbe voltata.
Ma non gli avrebbe dato quella soddisfazione.
Mai e poi mai.

Tikki, la prima Portatrice {Completata}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora