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Nicholas Oak, il ragazzo spettinato, mi aveva consigliato di sedermi per un attimo e riprendermi, eventualmente.

Non appena il giovane si rimise al lavoro, offrendosi gentilmente di prepararmi una cioccolata calda, presi in mano il cellulare. Dovevo parlare con qualcuno. Qualcuno che conoscessi, preferibilmente.

Nick mi aveva detto che eravamo a Los Angeles. E gli risi in faccia, fu più forte di me, perché era palesemente impossibile. Come potevo io, Michelle, normalissima ragazza che fino a cinque minuti prima era ad ascoltare musica in camera sua, in un paesino fottuto dai lupi in provincia di Lecco, in Italia, essere ora a Los Angeles, nella costa più lontana a ovest degli Stati Uniti, con indosso un grembiule nero?

Avevo controllato. E a meno che non mi si fosse drogato il GPS, sembravo davvero essere a Los Angeles. Pensai fosse uno scherzo, era l'unico pensiero razionale che riuscivo a formulare.

Non capivo come avessero fatto, ma me lo avrebbero di certo spiegato dopo avermi mostrato la posizione delle telecamere. Per quanto riguardava il GPS, pensai non fosse così difficile farlo confondere.
Oltretutto, perché a Los Angeles stavamo tutti parlando italiano? A quella domanda, lui mi guardò, rispondendo che abbiamo sempre parlato inglese e che lui non conosceva una parola d'italiano. A stento aveva superato gli esami di spagnolo, a scuola, e malgrado l'immane sforzo non ricordava nemmeno più nulla, dalla consegna del test. Mi disse che lo stavo davvero preoccupando.

Non replicai, ma quel discorso non stava né in cielo né in terra. Come fai a parlare in inglese così fluentemente senza nemmeno accorgertene, con la netta certezza di star parlando italiano? Ero confusa, ma non stupida. Avrebbero dovuto organizzarlo meglio, come scherzo. Anche se c'era una chilometrica lista di cose che non riuscivo ancora a spiegarmi.

Cercai Rebecca tra i contatti su Whatsapp ma notai subito la mancanza di tacche.

«Scusa...» esordii. Lui si girò, sorridendomi con disponibilità. «Qui non prende, internet?»

Aggrottò la fronte: di certo avrebbe dovuto funzionare. Poi alzò le sopracciglia, come avesse ricordato qualcosa d'improvviso.

«In cucina no. Devi andare in sala, oppure fuori» disse, porgendomi la tazza contenente del denso cioccolato, scuro, cremoso e fumante. Inspirai a fondo, riempiendo i polmoni del suo profumo, dolce e caldo.

«Prova» propose dopo che lo ringraziai, indicando con un gesto rilassato dell'indice la porta aperta, schermata dalla tendina in perline.

Mossi qualche passo oltre la porta. Solo il bancone mi separava dalla sala, ma già comparse la prima tacca.

«Bene, grazie» disse sbrigativa la ragazza dai capelli platino e lilla, prendendomi la tazza dalla mano e poggiandola su un piattino, poggiato a sua volta su un vassoio rotondo.

La fissai, interdetta.

Poggiò con fare artistico due marshmallows sul piattino e prendendomi di mano anche il telefono, infilandolo poi nella grande tasca del mio grembiule, mi porse il vassoio, che presi solo per istinto e non per cortesia.

«Tavolo cinque.»

Sollevai un sopracciglio.

Lei roteò gli occhi al cielo «Quello vicino alla vetrata all'angolo, Smemorina.»

«Io non lavoro qui.» mi decisi a farle notare, seccata, dal momento che parve non aver colto il dettaglio. Oltretutto, quella era la mia cioccolata, che Nick aveva preparato per me.

«Sì, è esattamente quello che dirai se non ti sbrighi a servire il tizio» mi liquidò, portando le mani alla mia schiena e proiettandomi verso la sala.

MichelleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora