Capitolo 14

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Mi ero presa una terribile cotta per il cameriere del Bingo, alto, magro, bel sedere, occhi chiari e capelli neri, gentile ed efficiente.
Come al solito mi ero lanciata in un intenso gioco di sguardi. Lui guardava me, io mi voltavo, e i miei occhi incontravano i suoi e si univano in una splendida magia.
Tornai a casa, quella notte, senza pensarci troppo. Ma la sua immagine non mi abbandonò del tutto.
L’indomani continuavo a pensarci. Continuavo a pensare al bel cameriere dagli occhi chiari e continuavo a immaginarmi scene assurde tra me e lui.
Mi vedevo già in abito bianco pronta a dirgli “si.”
Confessai la mia cotta ad un amico che passava intere notti in quel posto.
“Ah, ho capito chi è. Si chiama Manuel.” Mi rispose così dopo che io confessai quella strana ma enorme cotta.
Manuel. Come suonava bene quel nome. E quanto mi piaceva lui.
La notte successiva tornai al bingo, solo per vedere Manuel. Come i suoi occhi incontrarono i miei diventai rossa quanto la stoffa delle poltroncine. Anzi, forse di più.
La mattina dopo mi svegliai di buonumore, avevo sognato per tutta la notte Manuel. Iniziava ad essere una fissa preoccupante. Ma i miei amici erano felici del fatto che io avessi rivalutato il bingo e che iniziasse a piacermi andare li ogni notte un paio d’ore.
A pranzo mia madre provava a chiedermi qualcosa, a dirmi qualcosa, perfino a rimproverarmi. Ma io continuavo a tenerle il muso e a giocare al gioco del silenzio. Lei sbuffava e il pranzo proseguiva in religioso silenzio.
Continuai a non parlarle per i giorni successivi. Ero arrabbiata con lei, ce l’avevo a morte con lei. Ogni volta che avevo bisogno di lei mi voltava le spalle e mi urlava un silenzioso ARRANGIATI. Ma quando c’era da vantare i miei successi scolastici diventavo la figlia perfetta, quella che aveva sempre desiderato.
Quella volta avevo bisogno dei suoi documenti per iscrivermi a questa stramaledetta università, il mio computer stranamente stava funzionando senza rompere troppo le scatole, ma lei non ne voleva sapere di collaborare. Mi liquidò con un “ora no!” e la mia immatricolazione fu rinviata a mai.
Dopo pranzo mi chiusi in camera, con la musica alta, e mi rifugiai sotto le coperte.
Adoravo la musica alta in camera. La riempiva e mi faceva sentire meno sola. Il massimo era ascoltare musica sul letto, con le coperte tirate fin sopra la testa, come se quelle coperte potessero escluderti dal mondo esterno, salvarti dalla vita, dai ricordi.
Ma, purtroppo, era tutto il contrario.
Una volta che ti trovi sotto le coperte, con la sola compagnia della musica, ti senti al sicuro, protetto, e la tua mente si trova libera, libera di sognare, libera di pensare, libera di ricordare.
Quel pomeriggio successe anche a me, iniziai a ricordare il passato. Un doloroso passato. Iniziai a chiedermi del perché dei litigi, del perché io avessi litigato con persone a cui tenevo più della mia stessa vita. Iniziai a chiedermi se ne valesse davvero la pena. Voglio dire, litigare con una persona che si conosce appena è una cosa, puoi smettere di parlarci da un giorno all’altro senza problemi, non avete mica condiviso un pezzo di vita, ma solo un paio d’ore della vostra patetica vita. Ma provate ad immaginare di litigare con una delle persone più importanti della vostra vita. Provate ad immaginare di smettere di parlarci da un giorno all’altro per un motivo più o meno banale. È tutta un’altra cosa. Immaginate di escludere questa persona dalla vostra vita, del tutto.
È difficile, è brutto, è sbagliato. Ma a me era già successo parecchie volte, troppe volte.

Tutte le cose che avrei voluto direDove le storie prendono vita. Scoprilo ora