Un aereo mi stava per condurre a New York, in quella città, dove nulla , apparentemente, faceva prevedere che tutto sarebbe cambiato. Lì, infatti, si sarebbe giocata la mia vita. Ero sola, finalmente sola. L'unico legame con il mio passato un semplicissimo oggetto, il mio smartphone. Nient'altro. Nessuno mi aspettava all'aeroporto per aiutarmi, avrei dovuto sbrigarmela da sola. E tutto ciò mi metteva addosso un'adrenalina e un entusiasmo fortissimo. Anche un'enorme ansia. Nessuno mi attendeva per avvertirmi di tornare indietro. Per dirmi di non fare quel passo e di non partire mai più.
Mi chiamo Caterina, ma per gli amici sono Kate.
La scuola era finalmente finita, non ce la facevo proprio più! I miei voti quest'anno non erano andati poi così male. Un po' in tutte le materie, ad eccezione della matematica. Avevo sempre odiato quei maledetti numeri! Il fatto è che avevo sempre avuto una fervida fantasia. La mia mente volava via ovunque, un po' come una farfalla giapponese e così non riuscivo mai a concentrarmi su una sola cosa. Figuriamoci sui numeri. Puah!
In ogni caso per quanto mi riguardava la matematica era , per il momento, acqua passata, perché cominciava l'estate. Volevo che quella fosse un po' diversa dalle altre. Non che non mi fossi mai divertita in passato, ma non abbastanza ed ora avevo troppa voglia di scoprire il mondo. Ragion per cui mamma e papà, finalmente dopo tante discussioni, mi avevano permesso di realizzare uno dei miei più grandi sogni: viaggiare da sola e, anche in vista di un mio eventuale spostamento per fare l'università all'estero, visitare la città che più adoravo. Avevo ormai diciassette anni: non ero più una ragazzina.
Avevo dato una sbirciata agli ultimi sms , quello del mio ragazzo Paolo "Mi manchi già tantissimo tesoro, non puoi capire quanto ti amo!", quello della mia amica del cuore Francy "Non dirmelo... ti sei messa davvero le converse?", quello di papà "Bambina mia, ricordati di scrivere non appena l'aereo tocca terra". Poi il dito della mia mano aveva premuto il tasto, click! e lo avevo spento. Adesso c'eravamo solamente io ed il mondo. "A noi due", pensai. Finalmente seduta sul sedile dell'aereo, guardai fuori l'oceano, il cielo, le nuvole, pervasa da un irresistibile e smisurata sensazione di libertà.
L'aereo atterrò a New York alle dieci e quaranta del mattino. A Milano c'era il sole e faceva già molto caldo nonostante l'estate fosse appena agli inizi, mentre lì negli States pioveva. "Si commette l'errore di credere che il tempo sia lo stesso dappertutto, ma non è quasi mai così!" Scesa dall'aereo sentii addosso un brivido di freddo, forse avrei dovuto mettere in valigia qualcosa di più pesante. Ma non me ne curai poi molto, avevo solo voglia di guardarmi attorno. Tutto mi sembrò diverso e fottutamente affascinante, dalle divise degli stuart, alle navette di trasporto, alle tazze da thé e ai bicchieri per le bevande. Non avevo mai viaggiato da sola prima di allora, ero sempre andata in viaggio o con i miei, o con le amiche o con Paolo. Tutto nella mia vita, fino a quel momento, era stato sempre calcolato, predisposto, organizzato nei minimi dettagli, ed ero abituata a che tutto filasse sempre liscio come l'olio. D'altronde provenivo da una famiglia molto ricca, mio padre era un manager di fama internazionale e dirigeva la filiale italiana di una grande azienda multinazionale.
Si era fatto da poco mezzogiorno quando salii su un taxi alla volta dell'albergo che mio padre aveva prenotato la bellezza di un mese prima. "Come è strano il destino", pensai. Accade sempre che proprio quando le attenzioni e le preoccupazioni diventano esagerate, fin quasi a rasentare la mania o addirittura la follia, finisce sempre, per una specie di legge del contrappasso, che qualcosa non va in porto. La prenotazione era stata fatta , infatti, con troppo anticipo e quindi era impossibile prevedere il numero della stanza che mi avrebbero assegnato. Il rischio poi di non trovare posti negli alberghi di quel quartiere centralissimo era sempre dietro l'angolo. L'unica cosa certa era che, comunque, alla receptionist mi avrebbero dato una stanza, e visto l'alto numero di turisti presenti in quel periodo dell'anno nella metropoli americana, non era affatto cosa da poco.
Un uomo grasso e stempiato, probabilmente uno dei proprietari di quel grande albergo newyorkese, seduto dietro il bancone, mi squadrò dalla testa ai piedi prima di porgermi una scheda da compilare.
« Signorina, le posso dare solamente la stanza 127 » - disse e mi diede la chiave.
Estrassi dalla mia borsetta la carta d'identità e gliela porsi. Poi lessi la scheda e iniziai a scrivere per compilarla.
« Kate Malaguti, studentessa. Età 17. Motivo del viaggio, studio ».
Sorrisi mentre lo scrivevo. A tutto avrei pensato in quei giorni americani, tranne che a studiare, e tanto meno a cosa studiare negli anni a venire.
Con gli occhi assonnati, il grassone esaminò il documento che gli avevo dato con fare teatralmente sospettoso, ma si vedeva chiaramente che non gliene fregava nulla di chi fossi e di cosa volessi fare quei giorni, specialmente dopo essersi accertato che qualcuno, cioè a dire mio padre, aveva già ampiamente saldato il conto. Nella mia carta di credito avevo più soldi io probabilmente che non tutti i clienti messi insieme dell'albergo di quel grassone. Tra un anno sarei diventata formalmente proprietaria, nonostante la mia giovanissima età, di alcune case nel centro di Milano, di alcune aziende minori dislocate nell'hinterland milanese, oltre a titoli di rendita, azioni e liquidità varie per un'ammontare pressoché imprecisato. Insomma, avevo sempre avuto davanti a me la prospettiva di un'esistenza materiale alquanto agiata e comoda.
La camera era situata al quarto piano, ed una specie di portiere, o forse anzi un cameriere, perché emanava un certo odore di cucina, non proprio gradevole, mi indicò solerte l'ascensore. Mi scocciava non poco che mi seguisse e mi scortasse fino alla porta della camera che mi era stata assegnata, per cui gli allungai qualche dollaro e così , sorridente, lo liquidai. Presi l'ascensore in fretta, e non appena la porta scorrevole si aprì imboccai uno stretto corridoio con camere da entrambe i lati. Superate le prime sette porte sul lato destro, individuai quella che pareva essere la mia camera. Infilai la chiave nella serratura e mi accorsi che non apriva, ma non desistetti, tanto era la voglia di chiudermi quella porta alle spalle, farmi una bella doccia calda e mettermi in accappatoio davanti alla vetrata che, come in tutti i mitici film americani, dall'alto, dominava lo spettacolare paesaggio newyorchese.
La serratura , evidentemente, funzionava male, e così la porta si aprì. A quella vista rimasi come senza fiato , in apnea, e la richiusi in grande fretta. Avevo sbagliato. Il numero me lo confermò, era il 125 e non il 127. In pratica avevo aperto la porta della stanza a fianco alla mia. Feci un passo indietro ed un bel respiro, ma ero ancora scossa per quella visione. "Ho visto bene? No, non è possibile", pensai dentro di me. Non potevo credere a ciò che avevo visto.
* * *
Se ti va, passa a dare un'occhiata all'altro romanzo, dal titolo "I cerchi del sasso":
https://www.wattpad.com/366283762-i-cerchi-del-sasso-1
STAI LEGGENDO
LA TUA ASSENZA
General FictionE' estate. Una giovane e ricca studentessa, finita la scuola, durante le vacanze, parte per un viaggio a New York. Quel viaggio cambierà per sempre la sua vita. Nell'albergo dove soggiorna, il giorno del suo arrivo, salva per caso la vita a un uomo...