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«Nonostante gli anni ho serbato un ricordo abbastanza nitido di come tutto ebbe inizio per noi.
Perché non sai quante volte...» si portò il pollice e l’indice fra i denti, come se alcune parole si fossero incastrate proprio lì. 
«... Non sai quante volte» riprese «mi sono chiesta come sarebbe stata la mia vita, la nostra vita, senza quella sera dei primi di ottobre.»
I suoi occhi corsero oltre la finestra, alle luci provenienti dagli appartamenti vicini, che filtravano dalle persiane chiuse, quasi volesse penetrare con lo sguardo le intimità domestiche di altre persone, di altre famiglie, come se in quelle esistenze avesse potuto trovare le risposte che cercava o una riappacificazione con quella ferita lontana.

«Era il 1979, tu avevi 5 anni, un mese dopo ne avresti compiuti 6. Io in quel periodo... Beh erano anni difficili, come avrai letto, studiato. Erano anni molto violenti, assassinii, morti. La tragica fine di Aldo Moro. Non passava giorno che non ci fossero notizie di scontri di piazza fra polizia, studenti, contestatori, esponenti di movimenti politici extraparlamentari, giovani di sinistra e giovani di destra. E per le strade erano comparse le pistole, le famigerate P38. Si sparava e si moriva. Anche partecipare a una manifestazione era diventato pericoloso. Ricordo sempre l’episodio di Giorgiana Masi, di qualche anno prima – che forse anche tu hai sentito nominare negli anni –. Una ragazzina, una studentessa delle superiori, uccisa a Roma da un proiettile vagante, sparato dalle forze dell’ordine per dei tumulti, dei casini, a seguito di un’iniziativa dei Radicali. Morta semplicemente perché si trovava lì. Così. Senza altra spiegazione se non la cattiva sorte, la sfortuna. Oppure un mondo sbagliato dove la più assoluta normalità, la vita quotidiana, può convivere con l’insensatezza più sfrenata. E anche morire dipende da un’inezia. Da un momento maledetto...
Terribile, no?! 
E non fu neppure un caso isolato. Molti altri, quell’anno, trovarono una morte altrettanto assurda in situazioni simili. Con la tua nascita, io invece avevo anticipato il cosiddetto “riflusso”, avevo lasciato l’Università già da qualche anno, le sue tensioni, i suoi problemi e mi ero rifugiata nella vita familiare. Anche se la parola rifugiata è sbagliata. Io ho sempre voluto formare una famiglia, una famiglia normale, dove la moglie fa la moglie e la mamma. Insomma non avvertivo l’esigenza di una liberazione, di un’emancipazione, come dicevano alcune amiche femministe. Del resto a casa mia aveva sempre comandato mia madre, non c’erano discorsi, senza che nessuno l’avesse mai liberata. Mio padre poi, si fosse s’azzardato... Insomma avevo lasciato l’università senza troppi rimpianti. Ero felice così, avevo te e Ray, e non avevo altri pensieri che quelli della casa. Pensa, la mia preoccupazione principale in quei giorni di fine novembre – oggi fa sorridere solo all’idea – era ultimare i regali di Natale e comprare gli ultimi addobbi per l’albero. Lo facevamo l’otto dicembre, per l’Immacolata: era un rito familiare. T’immagini che problemi avevo?!» le scappò un sorriso triste.
«Comunque... Ray rincasò tardi quella sera, avevo addirittura già apparecchiato per la cena, cosa che normalmente faceva lui. Si mise a tavola senza dir nulla, se non un saluto a mezza bocca. Teneva gli occhi bassi ed era insolitamente taciturno, lui che normalmente aveva una gran chiacchiera in casa. Soprattutto in quel periodo, che era pieno di entusiasmo per il nuovo lavoro che Velio gli aveva trovato a settembre dell’anno prima nella sua stessa azienda chimica, la Zodans. Quando gli chiesi cosa avesse mi fece intendere che non avrebbe parlato di fronte a te. Il suo volto mi preoccupò, e dunque mi sbrigai a darti da mangiare e metterti a letto. Quando tornai a sedere, dopo una mezz’ora abbondante, lo trovai con una bottiglia di Vin Santo ammezzata, che mi ricordavo piena, e gli occhi dentro un bicchiere vuoto. Mi disse che era stato a trovare sua madre. Era sola perché Velio era fuori Italia, in uno dei suoi frequenti viaggi di lavoro all’estero.»
«Fuori Italia dove?» chiese Giovanni.
Lei si strinse nelle spalle. «A parte con tuo padre, Velio parlava di rado del suo lavoro in famiglia, di quello che faceva. Figurarsi dei viaggi di lavoro. Forse Esther, tua nonna, lo sapeva dove andava, anzi sicuramente, ma solo raramente lo diceva anche a noi. Capitava che ci portasse un souvenir e allora magari qualcosa in più ce lo raccontava. Ma se non eri tu a incalzarlo, a chiedergli, a fargli domande, lui, di suo, non prendeva l’iniziativa...»
«Ho capito» la interruppe Giovanni «andiamo avanti.»
«Sì, scusami... Ray, insomma, all’uscita del lavoro era passato a trovarla proprio perché era sola, e lei aveva approfittato della assenza di Velio per dirgli una cosa importante, anzi una rivelazione, una rivelazione terribile, dolorosa... Una di quelle cose...» lei sembrò esitare, come se quel dolore, rinfocolato dalla memoria, tornasse a gonfiarle nel petto, a ingolfarle la gola.
«Cosa gli disse?» la spronò allora lui, sporgendosi verso di lei.
La donna lo guardò, mostrando gli occhi arrossati, sul punto di piangere di nuovo. «Lei aveva fatto una scoperta...  Aveva scoperto che suo figlio Alessio, fratello di Ray, si faceva... Si faceva d’eroina. Si drogava, come quelli di cui i giornali di allora riempivano le cronache, con episodi raccapriccianti...»
Giovanni cadde a corpo morto sullo schienale, e per qualche istante contemplò l’aria con occhi vuoti. 
«Non ci credo! Non è possibile!» si scosse, cercando gli occhi della madre. «Me lo ricordo bene lo zio: era allegro, pieno di vita... Scherzava sempre col babbo... Anche dopo, negli anni, ho visto decine e decine di foto di feste in famiglia e mai che non fosse sorridente...»
La donna annuì, comprendendo perfettamente l’incredulità del figlio che le ricordò la sua di allora, quella ancor più disperata di Raymond, e di altri amici con cui aveva sentito il bisogno di condividere il peso di quella verità. Una verità che nessuno accettava, tanto era stridente con l’apparenza vitale di Alessio e con il suo impegno politico contro il “Sistema”.
«E come la prese il babbo?»
«Ne era sconvolto. Come se gli avessero annunciato – che so – l’amputazione di tutte e due le gambe. Era affranto, per il fratello, al quale era legatissimo, e per la madre. La quale, certa di una reazione scomposta del marito che non era assolutamente un tipo tollerante e comprensivo, gli aveva tenuto nascosta la cosa, portando su di sé tutto il peso di quella terribile verità. Con Ray si era invece aperta, anche perché gli chiese una mano per aiutare Alessio. Ma lui, nonostante l’eroina, rimaneva una persona dalla forte personalità, difficile anche da aiutare. Sapevo che faceva politica, era stato uno dei leader del movimento studentesco di Firenze ed era sempre stato in prima linea nelle contestazioni di quegli anni. Ray quindi cercò di parlarci, ma sembrava che Alessio si rifiutasse di ascoltarlo. Come se ci fosse un’ostinazione in quel suo vizio. Per tuo padre, questa storia del fratello era diventata una croce. Poi, dopo un mesetto, mi disse che la situazione si stava normalizzando. Così mi disse. Non compresi bene cosa volesse dire, ma non volli approfondire, mi feci bastare quella parola che divenne per me una sorta di muro da non valicare. Non avevo più voglia di tormentarmi, di angosciarmi, e dunque ne approfittai. Era un modo – se vuoi egoistico – per accantonare la questione, farla scivolare nel dimenticatoio dove avrebbe smesso di far male. Fu – ne più ne meno – un’ingenua forma di autodifesa. Ma tant’è...
Così, senza bisogno di parole, spiegazioni, Ray comprese il mio atteggiamento e smettemmo di parlarne, come se la cosa si fosse risolta da sola o non fosse più un nostro problema, sebbene, non di rado, il suo volto si velasse di ombre che avevo imparato a temere. 
Ma purtroppo la cosa non si era affatto risolta...» A quel punto pianse.

I signori delle ombre (Vincitore Wattys 2017)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora