Capitolo 2. Un battito nuovo - 2 Parte

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MICHAEL

Guardavo quel dolce angelo accanto a me, mentre Susan se ne stava a braccia incrociate ad aspettare che io accettassi o meno il suo invito. Non mi piaceva deludere una donna, poco prima avevo promesso alla dott.ssa Summers che sarei andato a pranzo con lei, nel bar dell'ospedale, ma tutt'un tratto non ne avevo poi così tanta voglia. Non ne avevo neanche prima, quando lei me lo aveva accennato, avrei di gran lunga preferito restare in quella stanza, accanto a Grace. Quella ragazza aveva bisogno di essere rassicurata e io ero l'unico che potessi farlo; ero il suo medico, spettava a me darle la mia parola che sarebbe andato tutto bene e che non doveva preoccuparsi di nulla. Quando sono arrivato davanti alla sua camera e l'ho vista concentrata sul cibo, mi sono fermato a guardarla, senza nemmeno preoccuparmi di poter risultare invadente ai suoi occhi o a qualsiasi altri occhi che mi avrebbero visto, ma rimasi catturato da qualcosa che mi impedì di agire con raziocinio e di bussare alla porta anziché restarmene fermo a fissarla mentre litigava con il cibo.

«Vada pure, dott. Reed», disse Grace d'un tratto. «Io cercherò di riposare un po', stanotte non ho chiuso occhio. »

«Sicura? », le chiesi, ricoprendole la mano d'istinto.

«Michael, lasciamola dormire», insistette Susan, su di giri. «Non hai motivo di restare qui, sta bene. »

Annuì, con lo sguardo rivolto verso Grace, verso i suoi occhi scuri come la pece che per un attimo mi ipnotizzarono totalmente, fino a che non decisi di alzarmi e andare a pranzare con Susan. «Riposa, allora. Per qualsiasi cosa, fammi chiamare. »

Grace annuì percettibilmente, poi abbassò il capo e strinse le coperte nei pugni delle proprie mani. Vedere una ragazza della sua età, nel fiore della gioventù, costretta a stare immobile su un letto d'ospedale mi faceva un gran male al cuore. Agli inizi, quando vedevo un ragazzo, o peggio un bambino, in quello stato, mi chiedevo dove fosse Dio in quel momento, perché li aveva fatti ammalare e perché non faceva niente per loro. Pian piano capì che l'unico che avrebbe potuto fare qualcosa, che avrebbe potuto salvarli in qualche modo, ero io. Ero una specie di dio in terra, insieme agli altri medici. Ma non potevo salvare tutti, il potere che avevo tra le mani non era smisurato, aveva un limite. La scienza, la medicina, aveva dei limiti che non erano ancora stati superati, ma eravamo arrivati lontano e saremmo arrivati ancora più lontano, di questo confidavo ciecamente. Per il resto, avrei fatto tutto il possibile affinché chiunque passasse tra le mie mani riuscisse a ritrovare il sorriso e la gioia di vivere. E Grace, tra le mie mani, avrebbe ritrovato tutto questo. Per me, era una missione; salvare vite umane e restituirgli il diritto di vivere.

Le accarezzai la testa bionda, scostandole i capelli dalla fronte, e le sorrisi. «Ci vediamo dopo. »

***

Susan aveva preso dell'insalata, mentre io un cheeseburger con patatine; quella scena mi fece tornare indietro nel tempo, a quando stavo ancora con Isabel. Susan me la ricordava in ogni aspetto, soprattutto in quello deciso ad ottenere ciò che voleva; in quel caso, pranzare insieme a me. Isabel era una donna tosta, sicura di sé, ed era stata lei a prendere l'iniziativa ai tempi dell'università e a baciarmi; io ero insicuro, timido, non avrei mai trovato il coraggio di compiere un gesto del genere. Inoltre, non sapevo bene cosa provassi per lei e all'epoca ero concentrato esclusivamente sui miei studi e su quello che era il mio sogno. Lei era il tipo di donna che mi piaceva, femminile, con la lingua biforcuta, a volte sfrontata ma era quello che volevo. Solo col passare degli anni mi resi conto che mi ero sbagliato, totalmente, e di essere legato a una donna che in realtà non conoscevo affatto e di cui quasi con certezza non ero innamorato. Era una notizia che ti lasciava a pezzi, la donna che credevi fosse il grande amore della tua vita era soltanto un'illusione, un abbaglio che avevo preso a vent'anni.

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