Solo lavoro

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Il giorno mi accoglie come fa una mamma con il suo bimbo: abbracciandolo stretto fino a fargli male.

Mi sono dimenticato di chiudere le persiane e la luce fioca di un cielo plumbeo è comunque troppo forte per i miei occhi. Forse una gru sarebbe più indicata per aiutarmi ad alzarmi da questo divano.

Faccio quello che gli altri abitanti di questo pianeta fanno comunemente tutti i giorni che Dio gli manda: mi spoglio e vado a ficcarmi sotto la doccia. Solo che io mi tolgo i vestiti che indossavo il giorno prima. Mi sono addormentato vestito sul divano. Succede spesso.

Apro l’armadio e non perdo tempo a scegliere l’abito per questa giornata, anche perché ho solo vestiti e scarpe uguali.

Acquisto sempre la stessa giacca, la stessa camicia, gli stessi pantaloni, gli stessi calzini. Faccio così per non perdere tempo a scegliere cosa mettere prima di uscire.

Mentre mi rado, mi guardo le cicatrici che il tempo ha scavato sul mio volto. Mi sembrano più evidenti di quelle che mi porto sul corpo.

Ahi, brutta cosa questa di pensare al tempo che passa.

Accendo la radio e alzo il volume.

Provo a non pensarci. È un lusso che non mi posso permettere.

Quando esco da casa, vedo un uomo appoggiato alla mia macchina. Non fosse che quel brutto muso mi accompagna da non so quanti anni, la giornata sarebbe cominciata proprio male.

Clark, il mio socio, sta aspettando di andare a colazione. Cazzo avevo dimenticato che avevamo appuntamento stamattina.

Ci salutiamo mandandoci allegramente a farci fottere. È diventato un rito scaramantico più che un saluto.

È difficile parlare normalmente con uno di quelli con cui hai diviso la paura di morire.

Con Clark siamo stati in Golfo insieme. Stessa unità. Abbiamo visto tante di quelle cose che al nostro ritorno avevamo i capelli grigi.

Avevamo ventiquattro anni e la cosa bella fu che nessuno diceva niente di quello che era veramente successo. Quando provavamo a raccontarlo, ci prendevano per il culo.

Abbiamo smesso di farlo, improvvisamente.

Sembravamo il gatto e la volpe. Solo che lo sembravamo e basta.

Il F.B.I. lo chiamava per sapere come dovevano muoversi i suoi uomini. Il tutto avveniva senza che nessuno dovesse mai sapere niente.

Una volta, un loro pezzo grosso, durante un delicato e colto confronto dialettico disse che sarebbe stato disdicevole se i contribuenti avessero saputo che i loro soldi erano spesi per pagare, come informatori, gente della specie di Clark.

Non che ricordi bene cosa accade, anche perché, mentre tentavo di toglierglielo di dosso da quel damerino impomatato, Clark mi mollò una gomitata allo stomaco che mi fece vedere santi, angeli e tutto il coro e per un po’ il mondo assunse toni sfumati e nebbiosi, quel giorno. Gli rimasi attaccato come un cane all’osso e questo forse salvò l’uomo del F.B.I. Ora, però ha il naso un bel po’ deviato a destra e forse respira con il buco del culo.

Clark non ama parlare molto, ma oggi è ancora più taciturno del solito e in più sbuffa come un mantice e quando Clark sbuffa, non è un bel segno.

Una volta arrivati al distretto, lui mi chiede se voglio che rimanga in macchina. Gli rispondo che troverà carissimi amici che lo attendono con ansia. L’ennesimo “vaffanculo” è coperto dal rumore degli sportelli che si chiudono.

Una volta nel distretto, la giovane Sergente che fa il turno con Mallory, ci avvisa che ci stanno aspettando dal capo.

Clark scuote la testa e annusa l’aria come un cane che fiuta la pista per la caccia.

Mentre saliamo le scale, incontriamo qualcuno che si ricorda di Clark e fa una battuta sul suo ultimo arresto.

Il poveraccio si fa un piano più veloce che se fosse sceso in ascensore. Tutti spianano i cannoni verso di noi e Mallory urla come una gallina spennata.

La porta dell’ufficio del capo si spalanca e noi vi entriamo senza dargli il tempo di chiederci spiegazioni.

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