Imprevisti

44 5 2
                                    

"Sebastian veramente torna a dormire non e il momento" alle mie parole il piccolo parve rammaricato e tornò verso la sua stanza. Io, come facevo tutte le sere, cinsi mia madre con un braccio e la feci sedere in salotto. Mentre ascoltavo, appoggiata al muro dietro al divano, i suoi singhiozzi scemare nel silenzio tombale mi tornò quella spiacevole sensazione allo stomaco. Era un misto tra ansia e disperazione, contrastati da un moto di rabbia che mi risaliva bruciante per tutto lo stomaco. Ormai ero io l'ancora di salvezza della mia famiglia. In quei momenti mi chiedevo cosa potesse portare un uomo a odiare così tanto un suo fratello. Quale anima era capace di concepire un idea tanto subdola e disgustosa come quella della deportazione di noi ebrei al fine di creare una cosa impossibile come quella di una razza completamente pura. Razza. Una parola che non significa nulla e significa tutto.  Persino il termine accendeva in me conati di vomito. Eravamo paragonati a squallidi animali selvaggi quando le uniche bestie erano loro. I nazisti. I soldati che facevano ispezione nelle case e si portavano via chi volevano. La gente che faceva segnalazioni su ebrei pericolosi per la loro famiglia. Tutte quelle anime che avevano permesso ad Hitler di portare avanti un simile progetto, ma più divampava il mio odio verso tutte quelle persone più mi odiavo io, perché infondo stavo provando gli stessi esatti sentimenti che i tedeschi e gli italiani, che tanto criticavo, riservavano nei miei confronti e nei confronti della mia gente. Eravamo tutti bestie? Ero dalla parte del torto o della ragione? Tutte domande che mi impedivano di fare sonni tranquilli. Se c'era una cosa che sapevo era che volevo vivere. Mi afferrai il capo e cominciai a respirare affannosamente presa da un attacco di panico. Mia madre che nel mentre della mia crisi esistenziale all'ordine del giorno si era recata nella sua stanza, accorse in mio aiuto e mi portò un bicchiere ricolmo di acqua fresca. Lo mandai giù in tre profondi e lunghi sorsi nel tentativo di spegnere il fuoco che mi divampava l'anima. Con mano tremante rimisi il bicchiere nelle mani calde di mia madre. Lei mi guardò serie e con una fermezza tale che non le vedevo dalla scomparsa di mio padre. Erano passati nove mesi dalla scomparsa di mio padre, nove mesi da quando mamma era in cinta. "Il bambino.....sta per nascere. I miei occhi balzavano dal suo sguardo al suo ventre apparentemente uguale al solito e si fermarono all'altezza del suo ombelico dove mia madre aveva appoggiato la sua pallida mano come a proteggere qualcosa, o qualcuno. In quei momenti il conflitto dei miei sentimenti si faceva sempre più acceso e dilaniante, tanto che mille sorsi di acqua ghiacciata non avrebbero potuto spegnere. Come mi sarei dovuta sentire? Disperata, perchè o un'altra vita era in pericolo? O forse dovevo prenderlo come un messaggio di speranza mandato dal cielo?.

Quella notte presi tutti gli asciugamani della casa e aiutata da mio fratello feci nascere il piccolo spinta da una determinazione e una consapevolezza di cui non mi capacitavo. Piansi, di gioia quando vidi la testolina di Gabriel venire alla luce e di disperazione, mia madre si sentiva male. Faticava a respirare, ma i giorni seguenti sembrò ristabilirsi. Tutto sembrava normale, quando una mattina vidi mia madre stesa a terra. Corsi affannata da lei e mi inginocchiai vicino al suo grembo dove le braccia stringevano Gabriel e il beverone da cui beveva il latte. Il bimbo continuava a strillare spaccandomi i timpani, così lo presi in braccio e mentre gli davo il latte attendevo inquieta che mia madre parlasse. La vidi fremere e mentre la luce stava lasciando il suo corpo, sussurrando riuscì a dire "Nella stiva...salvatevi" e si spense. Seguirono da parte mia singhiozzi incontrollati e pianti isterici che si confondevano tra le parole di Sebastian che aveva assistito alla scena.

Non sapevo cosa fare, ero confusa e a mio carico avevo due bambini a cui badare. I vicini quel giorno le sentirono le urla. Pensarono bene di chiamare i "rinforzi". Quella stessa notte mentre cercavo di consolare mio fratello e di allattare il bambino sentii bussare forte alla porta. Tutti e tre ci zittimmo immediatamente. Un altro colpo alla porta. Senza pensare corremmo alla stiva sotto il pavimento che richiusi appena in tempo. Si sentì un tonfo pesante e delle voci. Non riuscivo a capire quello che dicevano, ma quelle voci, quei passi sordi mi riempivano la testa. Tenevo premute le mani sulle bocche di Gabriel e Sebastian. Restammo in quella posizione un paio d'ore e uscimmo lentamente. Mentre aiutavo i piccoli percepii sotto di me un foglio di carta, lo presi e lo misi in tasca. I soldati avevano portato via il corpo di mia madre e fortunatamente non si erano accorti della nostra presenza.


ComeTulipaniDove le storie prendono vita. Scoprilo ora