Imprecando e parlando tra sé ad alta voce, infilò il giaccone e si avvolse la sciarpa intorno al viso. I suoi gesti erano rapidi e nervosi. Ogni mattina, sentiva di stare tradendo i suoi principi, ma quel maledetto senso del dovere che fin dall'infanzia le era stato insegnato a rispettare più della sua stessa anima, le impediva di compiere un gesto differente, di riappropriarsi della propria vita.
Quei sogni, quelle speranze che ancora sentiva fremere da qualche parte dentro di sé, facevano di tutto per ribellarsi, per richiamare la sua attenzione, ma lei non riusciva a uscire da quel circo alienante, da quella pagliacciata nevrotica e insensata nella quale era costretta.
Sapeva già che anche quella sera le si sarebbe alzata la febbre, forse le sarebbe scoppiata l'emicrania ancora prima di terminare il turno, quindi afferrò due aspirine dallo scaffale vicino alla porta d'ingresso, le getto nella borsetta che si stava mettendo a tracolla e uscì, sbattendo la porta dietro di sé, senza neanche chiudere a chiave.
Era così ogni singola mattina. Naturalmente, ogni singola
mattina in cui doveva recarsi al lavoro, a uno dei tanti lavori che recuperava come uno straccio pescato nel cesto della biancheria sporca e indossato per disperazione, per non rimanere nudi sul palco degli imputati. Essendo una precaria, non sapeva mai come dove e quando avrebbe lavorato, per quanto tempo e quando le avrebbero versato il ridicolo stipendio che le spettava e che quasi sembrava un'elargizione caritatevole o la paghetta passata di nascosto dalla nonna alla nipotina, piuttosto che la dovuta ricompensa in cambio di un lavoro, solitamente inutile e qualche volta persino umiliante e socialmente dannoso.
Lavoro inutile, questo era il problema principale, pensava, scendendo di corsa le scale.
La sua principale ossessione era quella: quale lavoro avrebbe potuto svolgere per rendersi veramente utile? Esistevano ancora lavori che svolgessero una funzione utile all'interno della società? Utile e disinteressata, quindi non svolti unicamente per una mera questione economica, bensì per dare un contributo alla società, considerando che, dopo lunghe riflessioni, era giunta a questo risultato: che il lavoro non doveva essere un diritto del cittadino e un mezzo per racimolare soldi, bensì un dovere sociale e un mezzo per far progredire e funzionare al meglio la società.
Ogni volta che qualcuno le chiedeva come andava il lavoro, se era riuscita a trovare qualcosa di più stabile, o se le piaceva quello che faceva, le montava il nazi e si metteva a sbraitare. Le persone, a quel punto, pensavano che si trattasse di insoddisfazione, di mancanza di interesse o di semplice pigrizia.
In realtà, lei odiava fortemente tutta questa immensa importanza che veniva attribuita all'argomento lavoro, non per il concetto di lavoro in sé, che, come detto, riteneva non solo utile, ma persino fondamentale, bensì perché per lei il lavoro era solo un elemento marginale della vita, nel quale non le interessava riversare aspettative e del quale, dunque, non amava parlare, forse dopotutto anche perché era insoddisfatta di quei lavori, ma non nel modo che intendevano gli altri. La sua insoddisfazione non nasceva dal desiderio di svolgere un lavoro più interessante o più sicuro o più “in”, bensì dalla consapevolezza dell'inutilità.
Perché laddove gli altri trovavano l'utilità nel denaro che il lavoro procura, lei vedeva nel denaro il lato perverso del lavoro.
Persa in queste riflessioni, quasi non si era accorta di essere già salita sulla metropolitana, affollata come ogni mattina all'ora di punta.
Si soffermò ad osservare i volti e gli atteggiamenti degli altri passeggeri, per lo più soli, isolati, immersi nei loro pensieri e nelle loro preoccupazioni. Vedeva molte persone intente a consultare lo smartphone, ma lei non era una di quelle che giudicava male questi atteggiamenti. Dopotutto, si diceva, con uno smartphone, oggi come oggi, si possono compiere tante diverse azioni: telefonare, inviare chat o sms, giocare, leggere libri o notizie di giornale, o ancora documentarsi sugli argomenti più disparati, ascoltare musica, guardare film e video, scattare foto, girare filmati. Come poteva sapere cosa stessero facendo tutte quelle persone? Quello che più la sconvolgeva era il fatto che quasi tutti se ne stessero isolati e in disparte, senza alzare lo sguardo sugli altri passeggeri. Questa era l'unica cosa che realmente la turbava, ma se per un momento le veniva da pensare a quanta solitudine doveva esserci nelle vite di quella gente, a quanto isolati fossero, subito si correggeva, reindirizzava il suo pensiero, e si diceva che dopotutto forse non era così e che, sempre come supposizione, erano pochi coloro che realmente potevano dirsi soli, soli nell'anima o nella vita. Era probabilmente che in quel momento non stesse facendo altro che proiettare il suo senso di desolazione su chi la circondava. Si domandava sovente se quelle strane sensazioni che talora le capitava di provare in presenza di altri, derivassero davvero da quelli o se non fossero piuttosto, come in questo caso, delle sue proiezioni. Talvolta, ad esempio, le capitava di percepire nella gente una forte componente aggressiva che la respingeva e la spaventava. Non era però lei, forse, quella che, in quei determinati momenti, portava dentro di sé quelle stesse componenti, che vedeva negli altri solo per una situazione di comodo, per non dover portare il peso della sua aggressività e della violenza che sentiva nascere nel suo spirito? Era lei quella corrotta, come ora era lei quella che si sentiva sola, e con lei forse qualcuno d'altro, ma quasi sicuramente, si diceva, non tutti, non tutte queste persone, ignare dei miei pensieri, e forse persino felici della loro vita, delle loro compagnie, delle loro famiglie, delle loro amicizie.
Non bisogna pensare però che lei fosse una persona sola.
Solitaria, sì, ma non sola. Aveva un padre e una madre anche fin troppo presenti, alcuni amici che vedeva ogni settimana e un fidanzato che desiderava ardentemente andare a vivere insieme a lei. Eppure, nonostante queste persone che arricchivano di presenza la sua vita, lei non poteva fare a meno di sentirsi sola, sola interiormente. Si trattava di un malessere che talvolta le stringeva il cuore.
Nel frattempo, era scesa dalla metropolitana e aveva raggiunto il treno sul quale, quel giorno, avrebbe dovuto lavorare: avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro. Sette ore su quello stesso treno, sette ore buttate via disturbando i passeggeri, svolgendo interviste interminabili, prendendo insulti. Estratto il tablet dallo zaino, si infilò il gilet arancione fluorescente d'ordinanza con sopra fissato il badge con il suo nome e salì sul treno.

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Il lungo cammino
General FictionUna giovane donna, insoddisfatta della propria vita e della società nella quale vive, decide di mettere tutto in discussione e di cambiare vita.