Capitolo 2

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Fintantoché possiedi una posizione di prestigio, denaro, fama, gloria, le persone ti cercano, di venerano e osannano, ti ritrovi circondato da lacchè pronti a obbedire a ogni tuo minimo capriccio a costo di ottenere la tua attenzione e, con questa, una posizione di rilievo nella tua mente, illuminandosi di luce riflessa. Se tu hai una posizione, le persone non amano te, ma la posizione che occupi, il tuo denaro, la notorietà che ti
accompagna, dunque ti ritroverai circondato da opportunismo, immerso nel più bieco e ipocrita servilismo. La gente striscia ai tuoi piedi, di eleva a deità per tenerti buono, per ricevere una bustarella a natale, una raccomandazione per un posto di prestigio, un invito alle serate dove c'è gente che conta, ossia gente come te, da venerare e leccare.
Quando poi ti capita, per sventura o caso, di perdere, di
abbandonare quella posizione elevata, quando non sguazzi più nell'oro, quando sei tu ad aver necessità di una mano, una raccomandazione e, perché no, una bustarella che risollevi la tua sorte, allora ti ritrovi solo, condannato, infangato dagli insulti e dalle malelingue. Allora comprendi, comprendi realmente, che tutti coloro che prima ti circondavano lo facevano per puro opportunismo. E tu lo comprendi solo a quel punto, quando è oramai troppo tardi, quando non ti è più possibile tornare indietro e prestare attenzione, cercando persone vere, persone che non ti abbandonino nella sciagura. La fossa di coccodrilli ti dilania, ti lascia smembrato, a brandelli. Ti ritrovi solo, ma è proprio a quel punto che puoi capire, aprire gli occhi, e che puoi ricominciare dalla realtà: con la tua immagine offuscata e grigia, vai allora in giro per il mondo, e a te si accostano solo amici reali che non possono chiederti nulla, che nulla possono pretendere. Nella povertà è dunque la verità. Nella sciagura, l'amicizia. Avrai vicino poche persone, perché pochi sono coloro che hanno un cuore e un cervello, che si avvicinano agli altri esseri per comunione d'intenti, di pensieri, di vita, anziché per sfruttarne la forza, la potenza, il valore.
Fu così che Ivan, da uomo ricco, rispettato, acclamato e ricercato da tutti, circondato da persone che contavano, inserito nei migliori ambienti del suo paese, nella élite più rinomata, si trovò, da un giorno all'altro, solo, abbandonato da tutti, gettato nel fango della miseria più nera, e da lì dovette ricominciare, superare, sconfiggere i demoni che gli invasero mente e anima, i demoni del risentimento, della delusione, della perdita di identità.
L'identità la perse davvero, quella vecchia identità che per qualche decina d'anni lo aveva avvolto e protetto, non poteva più indossarla e, riguardandola a distanza già solo di qualche mese, la rivide esternamente in tutta la sua mascherata cinicamente teatrale, macchinosa, viscidamente grassa e untuosa come una scrofa travestita da principessa.
Si mise a girare il mondo, con quei pochi oggetti personali che gli erano rimasti chiusi in una sacca. I suoi indumenti si andavano lacerando, il suo viso e la sua barba si ingrigivano.
Quella pelle un tempo liscia e perfetta era sempre più profondamente solata dalle linee del tempo, mentre la sua mente si apriva a ogni passo di più; si estendeva a ogni sguardo nuovo, a ogni insulto ricevuto così come a ogni nuovo gesto di amicizia.
Comprendeva nuove cose, apprendeva nuove vite, e oramai sapeva bene che non sarebbe più potuto tornare indietro, a quel vecchio lui al quale un giorno, in seguito a particolari circostanze, lo volevano far ritornare. Alcuni anni dopo la sciagura e la rovina, quando oramai aveva calpestato le strade di mezza Europa con le sue scarpe logore e gli abiti a brandelli, venne infatti a fatica rintracciato, grazie alla polizia del luogo nel quale si era stanziato in quei giorni, e gli venne riferito che era l'unico erede di una immensa fortuna e che, finalmente, avrebbe potuto tornare nel suo ambiente, riabilitare la sua immagine, riacquistare tutto il prestigio che lo aveva abbandonato. Bene disse, e accettò di tornare nel suo paese per presenziare a una importante festa, in occasione della quale erano stati invitati tutti quei suoi falsi amici di un tempo che, senza vergogna della loro meschinità, si erano subito accalcati in quel vasto salone nel quale il nostro sarebbe dovuto comparire per fare un discorso.
Erano pronti a perdonargli – loro, a perdonargli! - quello
scivolone, il fatto di essere caduto in miseria; erano pronti a tornare a servirlo e venerarlo, ma Ivan non era più l'uomo di un tempo. Tutti erano convinti, quella fatidica sera, che si sarebbero trovati davanti il loro vecchio protettore, vestito di tutto punto, il quale avrebbe ripreso le fila abbandonate dieci anni prima senza per questo apportare alcuna modifica a ciò che era avvenuto in passato.
Ivan invece si presentò al ricevimento vestito di stracci, con il suo sacco in spalla, le poche cose che possedeva e che voleva possedere sempre con sé. Le guardie all'ingresso non volevano farlo entrare, scambiandolo per un qualsiasi parassita che volesse intrufolarsi per rubare. Fosse dipeso da lui, se ne sarebbe andato in quello stesso momento, ma il notaio che gli aveva fatto notificare l'eredità e che aveva già avuto modo di incontrarlo, alcuni giorni prima, sapeva come lui si sarebbe presentato, sapeva cosa aveva in mente, dunque rassicurò le guardie che quello era il loro capo, l'uomo della serata, e lo introdusse nell'androne. Gli domandò ancora una volta se fosse proprio sicuro di ciò che stava per fare. Nikolaij era un giovane notaio, assurto da poco tempo a quella carica, naturalmente non senza
raccomandazioni, ma, nonostante questo, era un uomo onesto e buono, uno dei pochi ancora rimasti, o forse semplicemente non ancora rovinato da quell'ambiente. Aveva subito preso a cuore il caso di Ivan, lo aveva incontrato e avevano discusso a lungo.
Sapeva che era inutile tentare di farlo desistere dal suo intento, comprendeva bene le sue ragioni e, al contempo, ammirava il suo coraggio e la sudeterminazione.
Quando entrò nel salone, chiedendo di non venire annunciato per vedere da vicino e dal vivo le reazioni di quei presunti amici, le prime persone che lo videro si scostarono, mentre loro volti assumevano un'aria tra il disgustato e l'offeso. Qualcuno si mise a sussurrare ai vicini, ora puntando uno sguardo di sbieco sul nuovo venuto, ora distogliendolo significativamente. Ivan avanzava, mentre tutt'intorno si creava il vuoto, un vuoto certo non generato dal rispetto. Era evidente che fino a quel momento nessuno lo aveva riconosciuto.
Fu infine uno dei camerieri ad avvicinarglisi. Si trattava di un uomo di mezza età, poco più anziano di Ivan, il quale aveva lavorato per molti anni nella sua casa, disprezzandolo apertamente per quei suoi antichi comportamenti manierati e falsi, ma al contempo provando un forse sentimento di tristezza quando questi cadde in rovina.
Quell'uomo di umili origini provava, in quel momento, un forte senso di empatia nei confronti del suo antico padrone.
Guardando quegli occhi grigi, si era reso conto del cambiamento che doveva essere intervenuto in quell'uomo, così decise di sostenerlo in qualche modo, di dimostrargli che, qualunque cosa avesse fatto in quel contesto, lui sarebbe stato al suo fianco.
Questo diceva il suo sguardo quando, avvicinatosi, domandò con voce forte e ferma se il padrone desiderasse da bere. Ivan posò una mano sulla spalla dell'uomo e lo ringraziò, chiamandolo per nome e prendendo un bicchiere.
I sussurri divennero allora più intensi e profondi, come il ronzare di un unico gigantesco insetto. Un uomo corpulento uscì dal gruppo e, tendendo la mano, gridò:-Vecchio amico, quanto tempo è passato! Ma che scherzo è mai questo? Hai proprio voluto prenderci tutti quanti in giro presentandoti qui travestito da
straccione!
Gli strinse la mano, battendogli una pacca sulla spalla.
– Michail Nicolevich Bordekinij, ti stai ingannando mio buon vecchio amico. Nessuno scherzo ai vostri danni: questi sono i miei panni che vesto da oramai dieci anni a questa parte, dovresti saperlo. Non fingerti stupito, Michail, tu stesso mi dicesti, l'ultima volta che ci vedemmo, che uno come me non meritava altro che finire nel fango. Non te ne ricordi? Oh, ma non ti porto rancore, non darti pena. Sono certo che non lo facesti per cattiveria, ma per pura ignoranza. E comunque non fosti l'unico, quindi rilassati e goditi questa magnifica serata tra... amici... se così possiamo dire – disse Ivan, sorridendo e allontanandosi dall'uomo grasso.
Adesso anche altri iniziarono ad avvicinarglisi, a tendergli la mano: volti sorridenti, pacche sulle spalle, la gente iniziava a riconoscerlo, ad animarsi, e fingeva, per non incorrere nello stesso errore di Nicolevich, di non accorgersi di quell'abbigliamento che aveva destato così tanto scandalo nei primissimi minuti dopo il suo ingresso.
Lui ricambiò i saluti, mantenendo uno sguardo aperto e vigile, osservandoli con un viso che non lasciava trapelare rabbia, ma tristezza.
– Si vede che avete patito molto in questi anni, caro Alessandrovich. Dovete provare una grande tristezza nel vostro cuore. Chissà quante sciagure e umiliazione avete dovuto sopportare – gli disse una giovane donna. Doveva avere poco più di vent'anni. Aveva un viso tondo e roseo, due occhi neri che lo guardavano in modo inespressivo, senza trasmettere quel calore che ci sarebbe attesi dalle parole pronunciate.
– Gentile signorina, mi duole dirle che la tristezza che provo in questo momento e che lei ha così bene letto nei miei tratti, non deriva dalla vita che ho vissuto in questi ultimi anni la quale, sebbene sia stata ricca di difficoltà e ingiustizie, mi ha insegnato molto, soprattutto sulla natura dell'uomo, e mi ha fatto trovare alcuni veri amici lungo il cammino. Dunque quale tristezza dovrei provare pensando alla ricchezza interiore che ho ottenuto? No, signorina – proseguì guardandola dritta negli occhi – la tristezza che provo oggi è per voi: per lei, così giovane e inesperta della vita, e per tutti coloro i quali sono intervenuti qui questa sera, con i loro vestiti eleganti, le loro buone maniere, i loro sorrisi ineffabili. La mia tristezza nasce dalla prima parte della mia vita, quella che ho condiviso con tutte queste stimabili persone, perché allora ero cieco, ero sordo. Ero cieco perché non vedevo il reale valore delle cose, ero sordo perché non sentivo cosa diceva il mio cuore. Oggi che sono qui, il rischio è che io perda tutto quanto ho guadagnato in umanità in questi anni, che non sappia essere forte come vorrei e che mi lasci trascinare giù dalla corrente, dal vortice. Che ricominci ad ascoltare il canto delle sirene insieme a tutti voi. Perdere quanto ho guadagnato in questo periodo sarebbe per me assai più penoso e umiliante di quanto non sia stato perdere le mie ricchezze, la mia posizione di prestigio in questa acclamata società. Il fango che mi ricoprirebbe allora non sarebbe quello della strada e della vita, quello delle fatiche che si attraversano per raggiungere la verità, ma sarebbe il fango dell'onta che causerei alla mia anima, l'onta di un tradimento del quale io per primo non potrei mai discolparmi.
La giovane ebbe un fremito, le labbra le si irrigidirono per un istante e i suoi occhi si spalancarono, ma fu solo un attimo, perché subito abbassò il capo e lasciò passare l'uomo facendo un passo indietro. Ivan le carezzò una guancia, quindi proseguì verso il palco sul quale era stato montato un microfono perché tutti potessero sentire il discorso che aveva promesso di fare.
Non tutti avevano sentito quanto aveva detto alla giovane, ma chi era lì appresso iniziava a mormorare e a mostrare i primi segni di tensione.
– Dev'essere malato
– Forse è ubriaco, avrà bevuto. Chi fa quella vita...
– Ha trovato Dio...
Riuscendo a cogliere alcuni stralci di conversazioni, sorrise e gettò uno sguardo al giovane notaio, il quale, vedendo il sorriso su quel volto grigio, lo ricambiò a fatica. Già, Ivan aveva previsto quelle reazioni e lo aveva avvertito che non tutto sarebbe stato così semplice come avrebbe voluto che fosse.

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