parte 6

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«Che c’è?» mi chiede incuriosito. «Niente, solo che ti amo.»
Lui arrossisce e ricambia il mio sorriso. Sembriamo entrambi frastornati e ubriachi l’uno dell’altra. Lo adoro.
«Hai almeno pensato all’idea di venire a vivere con me?» mi domanda.
«Me l’hai proposto soltanto ieri. Posso prendere una sola decisione importante alla volta.»
Si massaggia le tempie. «È solo che voglio firmare i documenti il prima possibile. Devo andarmene da quella maledetta confraternita.»
«Potresti prendere l’appartamento per te», suggerisco di nuovo. «Voglio che sia nostro.» «Perché?»
«Perché voglio passare più tempo possibile con te. Per quale motivo esiti? È per i soldi? Pagherei tutto io, naturalmente.»
«No che non lo faresti», sbuffo. «Se accetto, contribuirò. Non voglio vivere a scrocco.» Non riesco a credere che ne stiamo parlando davvero.
«Allora qual è il problema?»
«Non lo so… ci conosciamo da poco. Avevo sempre pensato che non avrei convissuto con nessuno fino al matrimonio…» Non è l’unica ragione: un’altra molto importante è mia madre, oltre alla paura di dover fare affidamento su un’altra persona. Anche se è Hardin. È così che ha fatto mia madre: ha fatto affidamento sul reddito di mio padre, poi lui se n’è andato e lei ha continuato ad aggrapparsi alla remota speranza che tornasse. Ma non è mai tornato.
«Matrimonio? Un’idea piuttosto antiquata, Tessa.» Ridacchia e si siede.
«Cos’hai contro il matrimonio? Non tra me e te, dico in generale.»
«Niente, solo che non fa per me.»
La conversazione si è fatta troppo seria. Non voglio parlare di matrimonio con Hardin, ma mi dispiace sentirgli dire che non fa per lui. Non ho mai neppure pensato all’eventualità di sposarlo, è davvero troppo presto. Ma prima o poi mi piacerebbe prendere in considerazione la possibilità, ed entro i venticinque anni voglio essere sposata e avere almeno due figli. Ho pianificato tutto il mio futuro.
Avevo, mi rammenta il subconscio. Avevo pianificato tutto, finché ho incontrato Hardin, e ora il mio futuro è in continua evoluzione.
«Ti dà fastidio, vero?» chiede lui.
Fare l’amore ha creato tra noi un legame invisibile, ci ha uniti nel corpo e nella mente.
I cambiamenti rispetto al mio programma sono positivi… giusto?
«No.» Cerco di non tradire l’emozione nella voce, ma non ci riesco. «È solo che non avevo mai sentito dire chiaro e tondo a qualcuno che non vuole sposarsi. Credevo che lo volessero tutti… è lo scopo principale della vita, no?»
«Non proprio. La gente vuole solo essere felice, suppongo. Pensa a Catherine: guarda cos’ha portato il matrimonio a lei e Heathcliff.»
Adoro il fatto che parliamo lo stesso linguaggio narrativo. Nessun altro mi parlerebbe così, nel modo che capisco meglio.
«Non si sono sposati tra di loro, ed è questo il problema.» Rido, ripensando a quando c’erano tanti parallelismi tra la mia relazione con Hardin e quella di Catherine con Heathcliff.
«Rochester e Jane?» Jane Eyre: sono piacevolmente stupita che l’abbia citato.
«Stai scherzando, vero? Lui è freddo e anaffettivo. Inoltre chiede a Jane di sposarlo senza dirle che ha già una moglie pazza rinchiusa in soffitta. Non stai portando esempi molto validi.»
«Lo so. Ma mi piace sentirti parlare di personaggi letterari.» Si scosta i capelli dalla fronte, e io gli faccio la linguaccia. «In pratica stai dicendo che vuoi sposarmi? Posso assicurarti che non ho mogli pazze nascoste in casa.» Fa un passo verso di me. Non avrà una moglie, certo, ma sono le altre cose che nasconde a preoccuparmi.
Si avvicina, e il mio cuore sobbalza. «Eh? No, certo che no. Dicevo in generale, non di noi nello specifico.» Sono nuda e sto parlando di matrimonio con Hardin. Che cavolo sta succedendo nella mia vita?
«Perciò non vorresti sposarmi?»
«No. Be’, non lo so… perché ne stiamo parlando?» Poso la testa sul suo petto e lo sento vibrare dal ridere.
«Pura curiosità. Ma ora che hai avanzato un’argomentazione valida, potrei dover rivalutare la mia posizione antimatrimonio. Potresti fare di me un uomo onesto.»
Sembra serio, ma è impossibile che lo sia. Vero? Proprio mentre sto per dubitare della sua sanità mentale, lui ride e mi bacia sulla tempia.
«Possiamo cambiare argomento?» chiedo con voce lamentosa. Perdere la verginità e parlare di matrimonio è davvero troppo per il mio cervello già sovraccarico.
«Certo. Ma non mi arrendo, per quanto riguarda l’appartamento. Hai tempo fino a domani per darmi una risposta. Non aspetterò in eterno.» «Che dolce.» Lo guardo con sufficienza.
«Mi conosci, sono Mister Romanticismo», ironizza posandomi un bacio sulla fronte. «Ora andiamo a fare la doccia. Vederti nuda mi fa venir voglia di buttarti di nuovo sul letto e ricominciare a scoparti.»
Scuoto la testa e mi stacco dal suo abbraccio. Infilo l’accappatoio. «Vieni o no?»
«Mi piacerebbe molto venire, ma per il momento dovrò accontentarmi di una doccia.» Mi fa l’occhiolino e io gli do una pacca sul braccio mentre usciamo in corridoio.
80
SONO quasi le quattro del mattino quando ci stendiamo di nuovo sul letto, dopo la doccia.
«Devo alzarmi tra un’ora», mi lamento.
«Potresti dormire fino alle sette e mezzo e arriveresti comunque in orario.» Arrivare trafelata al lavoro non mi sembra una buona idea, ma effettivamente ho bisogno di dormire. Per fortuna ho fatto quel sonnellino, perciò si spera che non dormirò in piedi durante il mio primo vero giorno di lavoro alla Vance.
«Mmm…» mugolo appoggiata al suo petto.
«Ti sposto la sveglia», dice mentre mi appisolo.
Mi bruciano gli occhi per il poco sonno. Cerco di arricciarmi i capelli, metto un po’ di eyeliner marrone sulle palpebre e indosso il vestito rosso nuovo, con la scollatura quadrata che mette in risalto il seno senza essere volgare. L’abito mi arriva poco sopra il ginocchio, e la sottile cintura marrone in vita dà l’illusione che io abbia dedicato più tempo a prepararmi di quanto abbia fatto in realtà. Valuto di mettermi un po’ di fard, ma grazie alla notte passata con Hardin ho ancora un rossore naturale sulle guance. Infilo le scarpe nuove e mi guardo allo specchio. Il vestito mi sta proprio bene, sono più bella di quanto merito. Mi giro verso Hardin, avvolto nella coperta sul mio letto, i piedi che penzolano dal bordo, e sorrido. Aspetto l’ultimo minuto per svegliarlo. Vorrei lasciarlo dormire, ma sono egoista e voglio salutarlo con un bacio.
«Devo andare», dico, scuotendolo delicatamente per la spalla.
«Ti amo», bofonchia lui, sporgendo le labbra per ricevere un bacio senza aprire gli occhi.
«Vai a lezione?ù gli chiedo subito dopo.
«No», risponde girandosi dall’altra parte.
Gli poso un altro bacio sulla spalla e vado a prendere la giacca e la borsa. Vorrei tornare a letto con lui, lo vorrei tanto. Forse non sarebbe così male vivere con lui; già ora passiamo insieme quasi tutte le notti. Scaccio il pensiero, perché è una cattiva idea: è troppo presto. Troppo presto.
Ma per tutto il tragitto in macchina non faccio che rifletterci. Sto già scegliendo mentalmente il colore delle tende e l’intonaco dei muri. Quando entro in ascensore alla Vance ho già selezionato le tende della doccia e i tappetini del bagno, ma quando arrivo al terzo piano vengo distratta dall’ingresso di un ragazzo in completo blu scuro.
«Salve», dice. Sta per premere il pulsante dell’ultimo piano, ma quando vede che è già acceso si appoggia alla parete.
«Sei nuova?» mi chiede. Profuma di sapone e ha gli occhi di un azzurro freddo, in netto contrasto con i capelli scuri.
«Sono solo una stagista.»
«Solo una stagista?» ride.
«Voglio dire, sono una stagista, non una dipendente vera e propria.» Sono nervosa.
«Anch’io ho cominciato come stagista, qualche anno fa, e poi mi hanno assunto a tempo pieno. Vai alla WCU?»
«Sì, anche tu hai studiato lì?»
«Sì, mi sono laureato l’anno scorso. Per fortuna è finita.» Ridacchia. «Ti troverai bene qui.»
«Grazie, mi piace già.»
Usciamo dall’ascensore. Mentre sto per svoltare l’angolo, il ragazzo dice: «Non ho capito come ti chiami».
«Tessa, Tessa Young.»
Sorride e mi saluta con un cenno della mano. «Io sono Trevor. Piacere di conoscerti,
Tessa.»
Alla reception c’è la stessa segretaria di ieri, e stavolta si presenta: si chiama Kimberly. Sorride, mi dà un in bocca al lupo e mi indica un tavolo pieno di roba da mangiare e caffè. La ringrazio, prendo una ciambella e una tazza di caffè e torno nel mio ufficio. Sulla scrivania trovo una pila di fogli con un biglietto di Mr Vance: mi dice di iniziare il mio primo manoscritto e mi augura buona fortuna. Adoro la libertà di questo stage, è un vero colpo di fortuna. Do un morso alla ciambella, stacco il biglietto dal manoscritto e mi metto al lavoro.
È scritto molto bene, non riesco a smettere di leggere. Sono arrivata a un terzo del testo quando squilla il telefono sulla scrivania.
«Pronto?» dico, e capisco che non ho idea di come devo rispondere al telefono del mio ufficio. Per sembrare un po’ più adulta aggiungo: «Cioè, ufficio di Tessa Young». Mi mordo il labbro e sento un risolino all’altro capo.
«Miss Young, c’è qui qualcuno che desidera vederla. Lo faccio entrare?» chiede Kimberly.
«Tessa, mi chiami Tessa per favore.» Mi pare inopportuno farmi chiamare Miss Young da una persona molto più esperta e più grande di me.
«Tessa», ripete lei, e immagino il suo sorriso cordiale. «Lo faccio entrare?»
«Ah, sì. Aspetti… chi è?»
«Non lo so… un ragazzo… be’, ha dei tatuaggi, molti tatuaggi», bisbiglia.
Scoppio a ridere. «Va bene, esco io», rispondo.
Sono felice che Hardin sia qui, ma allo stesso tempo sono spaventata. Spero non sia successo qualcosa di brutto. Uscita dall’ufficio, lo vedo in piedi con le mani in tasca, mentre Kimberly è al telefono. Ho l’impressione che finga soltanto di parlare con qualcuno, ma non ne ho la certezza. Spero di non dare l’idea di approfittarmi della fantastica occasione che Mr Vance mi offre per invitare gente in ufficio al mio secondo giorno di lavoro.
«Ciao, è tutto a posto?» gli chiedo avvicinandomi.
«Sì, volevo solo vedere come procedeva il tuo primo giorno vero e proprio.» Sorride e giocherella con il piercing al sopracciglio.
«Oh, sta andando a meraviglia…» inizio, ma mi interrompo quando vedo Mr Vance venire verso di noi.
«Bene bene bene… Sei qui per supplicarmi di ridarti il lavoro?» dice a Hardin con un gran sorriso, poi gli dà una pacca sulla spalla.
«Ti piacerebbe, vecchio coglione», ribatte lui ridendo, e io rimango sbigottita. Mr Vance sghignazza e gli sferra un pugno scherzoso. Devono essere amici più di quanto pensassi.
«Allora, a cosa devo l’onore? Oppure sei qui per tormentare la mia nuova stagista?» gli domanda guardando me.
«La seconda che hai detto. Tormentare le stagiste è il mio passatempo preferito.» Sposto lo sguardo tra l’uno e l’altro, spiazzata. Mi piace questo lato scherzoso di Hardin; non mi capita spesso di vederlo.
«Hai tempo di pranzare con me, se non hai già mangiato?» mi chiede. Guardo l’orologio sulla parete: è già mezzogiorno. La mattina è volata.
Rivolgo a Mr Vance un’occhiata interrogativa, e lui fa spallucce. «Hai un’ora di pausa. Dovrai pur mangiare!» Sorride e saluta Hardin dopodiché prosegue in corridoio.
«Ti ho scritto qualche messaggio per avere conferma che fossi arrivata, ma non mi hai risposto», mi dice Hardin in ascensore.
«Non ho neanche guardato il telefono, sono stata risucchiata nella trama di un romanzo», gli spiego prendendolo per mano.
«Stai bene, giusto? Va tutto bene tra noi?» chiede guardandomi negli occhi.
«Certo, perché non dovrebbe?»
«Non… non lo so… mi sono preoccupato perché non mi rispondevi. Pensavo… che forse iniziavi a pentirti di ieri sera.» Abbassa gli occhi.
«Cosa? Certo che no. Davvero, non ho guardato il telefono. Non mi pento di niente, per ieri sera.» Al ricordo non trattengo un sorriso.
«Bene. Che sollievo…» dice con un sospiro.
«Sei venuto fin qui perché pensavi che mi fossi pentita?» È un po’ eccessivo, ma sono lusingata ugualmente.
«Sì… be’, non solo. Volevo anche portarti a pranzo.» Sorride, e mi bacia la mano.
Usciamo dall’ascensore e dal palazzo. Ho sbagliato a non prendere la giacca: mi vengono subito i brividi.
«Ho una giacca in macchina. Possiamo andare a prenderla, e poi proseguire a piedi: dietro l’angolo c’è un posto che si chiama Brio, si mangia molto bene.» Raggiungiamo la sua macchina e lui prende nel bagagliaio un giubbotto di pelle nera. Mi viene da ridere: deve avere un guardaroba intero, lì dentro. Da quando lo conosco non fa altro che tirare fuori vestiti dal bagagliaio.
Il giubbotto tiene molto caldo e profuma di Hardin. Ovviamente mi è grandissimo, perciò rimbocco le maniche.
«Grazie.» Lo bacio sul mento. «Ti sta a pennello.»
Mi prende la mano e proseguiamo lungo il marciapiede. Uomini e donne d’affari ci guardano strano. A volte dimentico quanto sembriamo diversi, visti da fuori. Siamo come il giorno e la notte praticamente in tutto, ma proprio per questo stiamo bene insieme.
Brio è un ristorantino italiano, piccolo ma pittoresco, con un pavimento di piastrelle variopinte e il soffitto affrescato con scene del paradiso: cherubini paffutelli che aspettano fuori da cancelli bianchi e due angeli – uno bianco e uno nero – stretti in un abbraccio. L’angelo bianco sembra intento a trascinare l’altro dentro il cancello.
«Tess?» fa Hardin tirandomi per la manica.
«Arrivo», borbotto. Il nostro tavolo è in fondo al locale. Hardin si siede accanto a me invece che di fronte e appoggia i gomiti sul tavolo. Ordina per entrambi, ma la cosa non mi dà fastidio perché lui ha già mangiato qui.
«Insomma, tu e Mr Vance siete molto amici?» gli chiedo.
«Non direi così. Ma ci conosciamo bene.»
«Mi pare che andiate molto d’accordo. Mi piace vederti così.»
Accenna un sorriso e posa la mano sulla mia coscia. «Ah, ma davvero?»
«Sì, mi piace vederti felice.» Credo che tra loro ci sia più di quanto lascia intendere, ma per il momento non voglio insistere.
«Sono felice. Più di quanto avrei pensato di poter essere felice… in vita mia», aggiunge.
«Cosa ti prende? Stai diventando sentimentale», lo canzono.
«Se vuoi posso rovesciare qualche tavolo e prendere a pugni qualcuno», ribatte lui sghignazzando.
«No, grazie.»
Arrivano i nostri piatti e, a giudicare dal profumo, sembra tutto squisito. Quando assaggio i ravioli che ha ordinato Hardin ne ho la conferma.
«Buono, eh?» si vanta lui con la bocca piena. Per tutta risposta, ne prendo un’altra forchettata.
Alla fine discutiamo su chi deve pagare, ma vince lui.
«Ti sdebiterai più tardi.» Mi fa l’occhiolino quando la cameriera non ci vede.
Torniamo alla Vance, e Hardin entra con me. «Vieni su?» gli chiedo.
«Sì, voglio vedere il tuo ufficio, poi giuro che me ne vado.»
«Affare fatto.» Prendiamo l’ascensore e arriviamo all’ultimo piano. Gli restituisco la giacca e lui se la mette: gli sta benissimo.
«Ehi, di nuovo tu», esclama il ragazzo in giacca e cravatta che incontriamo in corridoio. «E di nuovo tu.» Gli sorrido.
Lui guarda Hardin, che si presenta.
«Piacere, Trevor, lavoro in amministrazione.» Saluta con la mano. «Be’, ci si vede in giro», dice, e se ne va.
Quando entriamo nel mio ufficio, Hardin mi prende per il polso e mi fa girare verso di lui. «Ma che storia è?» sbotta.
Sta scherzando? Abbasso lo sguardo sul polso stretto tra le sue dita e deduco che non stia scherzando affatto. Non stringe forte, ma mi tiene ferma.
«Cosa?»
«Quel tizio.»
«Quel tizio cosa? L’ho conosciuto stamattina in ascensore», rispondo tirando via il braccio.
«Non pareva che vi foste appena conosciuti; stavate flirtando davanti a me.»
Scoppio a ridere. «Cosa dici? Sei pazzo se credi che quello fosse flirtare. L’ho salutato educatamente e lui ha salutato me. Perché dovrei flirtare con lui?» Cerco di parlare a voce bassa: fare una scenata sul lavoro non sarebbe una buona idea.
«E perché non dovresti? Era carino, tutto pulito e ben vestito.»
Mi rendo conto che sembra più ferito e preoccupato che arrabbiato. L’istinto mi suggerisce di insultarlo e cacciarlo via, ma decido di adottare un approccio diverso. Proprio come quando stava mettendo a soqquadro la casa di suo padre.
«È questo che pensi? Che io voglia uno come lui, uno diverso da te?» chiedo in tono pacato.
Hardin è colto alla sprovvista: si aspettava che mi arrabbiassi, invece la mia reazione lo spinge a riflettere. «Non lo so… forse.»
«Be’, ti sbagli, come al solito.» Sorrido. Dovremo riparlarne, ma al momento è più importante fargli sapere che non ha niente da temere, piuttosto che correggerlo. «Mi dispiace se ti è sembrato che io flirtassi con lui, ma non era così. Non ti farei mai una cosa del genere», lo rassicuro. La sua espressione si addolcisce, e io poso una mano sulla sua guancia. Come fa una persona a essere al contempo così forte e così debole?
«Be’… okay.»
Rido e gli accarezzo la guancia. Adoro coglierlo alla sprovvista. «Che m’importa di lui, quando ho te?»
Finalmente sorride. È un gran sollievo aver imparato a disinnescare la bomba-Hardin.
«Ti amo», mi dice, e mi bacia. «Mi dispiace di essere sbottato in quel modo.» «Scuse accettate. Ora lascia che ti mostri il mio ufficio!» esclamo in tono allegro.
«Non ti merito», mormora.
Fingo di non aver sentito. «Allora, cosa te ne pare?»
Ascolta divertito mentre gli mostro ogni dettaglio, ogni libro sulla mensola e il portaritratti vuoto sulla scrivania.
«Pensavo di metterci una nostra foto.»
Non abbiamo foto insieme, e non mi era neppure venuto in mente finché ho posato il portaritratti sulla scrivania. Hardin non sembra il tipo che sorride all’obiettivo, neppure a quello di un cellulare.
«Ah, non mi piace farmi fotografare», dice confermando i miei sospetti.
Ma quando mi vede un po’ imbarazzata dal rifiuto, si sforza di aggiungere: «Be’… magari una. Ma una sola».
«Ci penseremo.» Sorrido.
Sembra sollevato. «Ora possiamo parlare di quanto sei sexy con quel vestito. Mi sta facendo impazzire da quando sono arrivato.» Il suo tono di voce è più basso e sensuale. Fa un passo verso di me e il mio corpo prende fuoco all’istante: le sue parole mi fanno ancora questo effetto.
«Sei fortunata che stamattina non ho aperto gli occhi, altrimenti…» Fa scorrere un dito sulla scollatura dell’abito. «Non ti avrei lasciata uscire.»
Posa l’altra mano sull’orlo del vestito e mi accarezza la coscia.
«Hardin…» Voleva essere un rimprovero, ma la voce mi tradisce: mi esce una specie di gemito.
«Che c’è, piccola… non vuoi?» Mi tira su e mi mette a sedere sul bordo della scrivania.
«È…» Non riesco a pensare, perché le sue labbra sono già sul mio collo. Affondo le dita tra i suoi capelli. «Non possiamo… potrebbe entrare qualcuno…» farfuglio. Faccio fatica a mettere insieme una frase di senso compiuto.
Mi allarga le cosce. «C’è un motivo se hanno messo una serratura sulla porta… Voglio prenderti qui, su questa scrivania. O magari appoggiati alla finestra.» Le sue labbra scorrono più in basso sul mio petto. L’idea mi fa correre un brivido lungo la schiena.
Mi sfiora il pizzo delle mutandine e inspira tra i denti. «Così mi uccidi», mormora quando vede il pizzo bianco del completino che ho comprato ieri. Stento a credere che gli sto permettendo di fare una cosa del genere, sulla scrivania del mio nuovo ufficio, al secondo giorno di stage. L’idea mi eccita e mi terrorizza allo stesso tempo.
«Chiudi a chiave la…» inizio, ma veniamo interrotti dal trillo del telefono. Scatto giù dalla scrivania e corro a rispondere. «Pronto? Qui Tessa Young!»
«Miss Young. Tessa», si corregge Kimberly. «Mr Vance sta per andare a casa, ma prima passerà dal suo ufficio», dice, con una nota divertita nella voce.
Arrossisco e la ringrazio. Evidentemente ha capito quant’è irresistibile Hardin ai miei occhi. 
81
HARDIN se ne va poco dopo, non prima di aver bisticciato con Mr Vance a proposito di una partita di football. Chiedo scusa a Mr Vance per aver accolto un visitatore, ma lui mi risponde che Hardin è uno di famiglia ed è il benvenuto ogni volta che vuole passare a trovarci. Mi tornano in mente le immagini di me e Hardin che facciamo l’amore sulla scrivania, e Mr Vance deve ripetermi tre volte un’informazione sulla busta paga prima che io riprenda contatto con la realtà.
Ricomincio a leggere il manoscritto, e mi appassiono così tanto che quando alzo gli occhi sono le cinque passate. Dovevo uscire un’ora fa, e c’è un messaggio di Hardin sul telefono. Appena salgo in macchina lo richiamo, ma non risponde.
Sulla strada del ritorno c’è poco traffico, ed entrando in camera mi stupisco di vedere Steph sul suo letto. A volte dimentico che abitiamo insieme.
«Da quanto tempo!» esclamo, togliendomi le scarpe con il tacco.
«Già…» fa lei e tira su col naso.
«Stai bene? Cos’è successo?» Mi siedo sul letto accanto a lei.
«Penso che io e Tristan ci siamo lasciati», dice singhiozzando. È strano vederla piangere, di solito è così forte e determinata.
«Perché? E in che senso pensi?» chiedo posandole una mano sulla schiena per confortarla.
«Be’, abbiamo litigato e io l’ho lasciato, ma non dicevo sul serio. Non so perché l’ho fatto… Ero arrabbiata perché lui si era seduto con lei… e io so com’è fatta.» «Lei chi?» domando, ma temo di saperlo già.
«Molly. Dovevi vedere come gli stava appiccicata. Pendeva dalle sue labbra.»
«Ma lei sa che lui sta con te. Non è tua amica?»
«Non gliene frega niente. Farebbe qualsiasi cosa per attirare l’attenzione di un ragazzo.» Vedendola piangere, l’odio che già provavo per Molly si intensifica ulteriormente.
«Non credo che Tristan sceglierebbe lei; ho visto come ti guarda, tiene davvero a te. Dovreste sentirvi e parlarne.»
«E se lo chiamo ed è con lei?»
«Non è con lei», le assicuro. Non ce lo vedo proprio, Tristan, a fuggire con la vipera dai capelli rosa.
«Come lo sai? A volte ti sembra di conoscere una persona, invece non è vero.» Mi guarda negli occhi. «Har…»
«Ciao…» dice Hardin entrando di filato nella stanza. Poi però si ritrova davanti il malinconico quadretto. «Ehm, è meglio se torno più tardi?» chiede dondolandosi sui talloni, a disagio. Non è il tipo che consola una ragazza in lacrime, nemmeno se è sua amica.
«No, vado a cercare Tristan e tento di chiedergli scusa», risponde Steph alzandosi in piedi. «Grazie, Tessa.» Mi abbraccia e scambia un’occhiata imbarazzata con Hardin, poi esce dalla stanza.
Hardin viene a darmi un bacio. «Hai fame?»
«A dire il vero sì.» Dovrei studiare un po’, ma mi sono portata avanti. Non so proprio dove Hardin trovi il tempo per lavorare.
«Stavo pensando che dopo cena potresti chiamare Karen o Landon e chiedere come devo vestirmi per… lo sai. Per il matrimonio.» Sentir nominare Landon mi dà una stretta al cuore: non gli parlo da qualche giorno e sento la sua mancanza. Voglio raccontargli dello stage, e forse anche di me e Hardin. Non ho ancora deciso. Comunque voglio parlargli.
«Sì, chiamerò Landon. Non vedo l’ora di andare al matrimonio!» esclamo. Poi mi rendo conto che anch’io devo trovare qualcosa da mettermi.
«Sì, pure io: non sto più nella pelle, guarda. Potrei essere più emozionato di così?» dice con sarcasmo.
«Be’, sono contenta che almeno ci vai», replico ridendo. «Significa molto per tuo padre e per Karen.»
Scuote la testa, ma devo ammettere che nei pochi mesi da quando l’ho conosciuto ha fatto molti progressi.
«Sì, certo, come no. Andiamo a mangiare», brontola, e prende la mia giacca dalla sedia.
«Ehi, aspetta, devo cambiarmi.» Sento i suoi occhi su di me mentre mi spoglio e tiro fuori in tutta fretta un paio di jeans e una felpa della WCU.
«Sei adorabile. Seducente donna in carriera di giorno, studentessa acqua e sapone di sera.» Le sue parole mi scaldano il cuore, e mi alzo in punta di piedi per dargli un bacio sulla guancia.
Decidiamo di andare al centro commerciale per mangiare qualcosa e poi fare shopping. Chiamo Landon: mi dice che chiederà a sua madre come deve vestirsi Hardin e mi richiamerà subito.
«Perché non cerchiamo prima il vestito per te?» dice lui.
«Neanch’io so cosa mettermi», ammetto ridendo.
«Be’, hai la fortuna di essere bellissima con qualsiasi vestito.»
«Non è vero, sei tu quello che ‘mi sono vestito al buio eppure sono perfetto’.» Sfodera un sorriso impudente e si appoggia allo schienale della sedia. «È vero, no?» Il mio telefono squilla. È Landon.
«Ehi, ciao. La mamma dice che è meglio se ti vesti di bianco. Lo so, non si dovrebbe, ma così vuole lei. E puoi convincere Hardin a mettersi dei pantaloni eleganti e la cravatta?» mi domanda. «Non penso che si aspettino molto da lui, francamente», conclude ridendo.
«Okay, be’, farò del mio meglio per incravattarlo.» Scocco un’occhiata a Hardin, che fa una buffissima faccia perplessa.
«In bocca al lupo. Come va lo stage?»
«Bene. Anzi, benissimo. È un sogno che si avvera. Non ci posso credere: ho un ufficio tutto mio e in pratica mi pagano per leggere. È perfetto. Come va all’università?»
A questo punto Hardin sembra perplesso davvero, e seguendo il suo sguardo vedo Zed, Logan e un ragazzo che non conosco che vengono verso di noi. Zed mi saluta con la mano e io gli sorrido. Hardin mi guarda male e si alza.
«Torno subito», dice avviandosi verso gli altri. Tento di continuare la conversazione con Landon e osservare Hardin allo stesso tempo, ma non so bene cosa fare.
«Be’, non è la stessa cosa di quando sedevamo vicini, ma sono molto felice per te. Almeno Hardin non viene a lezione, quindi non devo averci a che fare», mi spiega Landon.
«Come non viene a lezione? Be’, oggi no, lo so. Ma ieri c’era, no?»
«No, e infatti ho immaginato che si fosse ritirato dal corso di nuovo, dato che non riesce a starti lontano.» Provo un brivido di felicità, nonostante la preoccupazione per le lezioni mancate.
Sposto lo sguardo su Hardin, che mi dà le spalle, ma dalla sua postura rigida capisco che è teso. Il ragazzo che non conosco ha un gran sorriso in faccia, e Zed sta scuotendo la testa. Logan sembra più interessato a un gruppo di ragazze che passano di lì. Hardin fa un passo verso il ragazzo. Non capisco se scherzano o meno.
«Mi spiace tanto, Landon, ma devo richiamarti», dico, e riattacco. Lascio i piatti sul tavolo e raggiungo gli altri, sperando che non ci portino via la cena.
«Ciao, Tessa, come stai?» mi accoglie Zed venendo ad abbracciarmi. Mi sento arrossire e ricambio l’abbraccio, evitando di guardare Hardin. Zed ha i capelli ingellati e dritti sulla testa, una pettinatura che gli dona molto, ed è vestito di nero, con la sua giacca di pelle piena di toppe.
«Hardin, non ci presenti la tua amica?» dice lo sconosciuto sorridendomi. Sento un brivido giù per la schiena. Si vede subito che non è simpatico.
«Ah, sì.» Hardin agita la mano in aria tra me e il ragazzo. «La mia amica Tessa, Tessa, lui è Jace.»
Amica? È un pugno allo stomaco. Cerco di nascondere l’umiliazione e sorrido.
«Vai alla WCU?» chiedo al tizio.
«No, per carità. Il college non fa per me. Ma se tutte le ragazze sono belle come te, forse ci faccio un pensierino.»
Spiazzata, aspetto che Hardin ribatta qualcosa. Ah, già, sono la sua amica. Perché dovrebbe? Resto in silenzio e mi pento di non essere rimasta seduta al tavolo.
«Stasera andiamo al porto, dovreste passare anche voi due», dice Zed.
«Non possiamo, magari la prossima volta», replica Hardin. Vorrei contraddirlo, ma sono troppo infuriata per parlare.
«Perché no?» chiede Jace.
«Domani lei lavora. Io forse posso passare più tardi», spiega. «Da solo», aggiunge.
«Ah, peccato», fa Jace sorridendomi. Scuote la testa per smuovere i capelli biondo scuro che gli ricadono sugli occhi.
Hardin lo guarda torvo. Credo di essermi persa qualcosa. Ma chi è questo qui?
«Sì, passo più tardi da voi», ripete Hardin.
Mi allontano, sento che Hardin mi segue ma continuo a camminare. Non mi chiama per nome, di sicuro perché non vuole che i suoi amici si facciano strane idee, ma continua a tallonarmi. Affretto il passo, entro in un negozio e svolto l’angolo, sperando di seminarlo. Purtroppo non ci riesco: mi raggiunge, mi prende per il gomito e mi fa girare.
«Cosa succede?» chiede, irritato.
«Ah, non lo so, Hardin!» grido. Una vecchietta si gira a guardarmi e le rivolgo un sorriso di scuse.
«Nemmeno io! Sei tu quella che ha appena abbracciato Zed!» strilla lui. Stiamo già attirando gli sguardi della gente, ma sono furiosa e non me ne importa niente.
«Ti vergogni di me, per caso? Insomma, ho capito che non sono la ragazza più figa del circondario, però…»
«Eh? No! Certo che non mi vergogno di te. Sei matta?» sbuffa. Sì, al momento mi sento matta.
«Perché hai detto che ero una tua amica? Continui a chiedermi di venire a vivere con te e poi dici alla gente che siamo solo amici? Cosa vuoi fare, nascondermi? Mi rifiuto di essere il segreto di qualcuno. E mi spiace tanto se non sono all’altezza dei tuoi amici.» Giro sui tacchi e mi allontano.
«Tessa! Accidenti…» esclama lui seguendomi nel negozio. Arrivo ai camerini delle donne, lui pare leggermi nel pensiero e minaccia: «Ti seguo anche lì».
So che lo farebbe, perciò cambio direzione e vado verso l’uscita. «Portami a casa. Subito.» Resto in silenzio e lo precedo di almeno dieci passi mentre usciamo dal centro commerciale e raggiungiamo la macchina. Lui cerca di aprirmi la portiera ma si ritrae quando lo fulmino con lo sguardo. Se fossi in lui mi terrei a debita distanza.
Guardo fuori dal finestrino e penso a tutte le cose orribili che potrei dirgli, ma rimango in silenzio. Non capisco ancora perché abbia tanta paura di dire a tutti che stiamo insieme. So di avere poco in comune con i suoi amici; mi crederanno una sfigata, una perdente. Ma a lui non dovrebbe importare niente di queste cose. Mi domando se Zed nasconderebbe la nostra storia ai suoi amici, e penso di no. Anzi, a ben vedere Hardin non mi ha mai definita la sua ragazza. Probabilmente non dovevo andare a letto con lui così presto, prima di avere la conferma che stavamo davvero insieme.
«Hai finito la scenata?» mi chiede mentre entriamo in autostrada.
«Scenata? Ma scherzi?!»
«Non ho capito cosa ti cambia se dico che sei mia amica; non volevo farlo, mi hanno colto alla sprovvista.» Capisco che mente perché non mi guarda negli occhi.
«Se ti vergogni di me, non voglio più vederti», taglio corto. Affondo le unghie nella coscia per non piangere.
«Non parlarmi così.» Si passa la mano tra i capelli e fa un respiro profondo. «Tessa, perché parti dal presupposto che io mi vergogni di te? È un’idea ridicola, cazzo.» «Divertiti alla festa, stasera.»
«Ma per favore… Mica ci vado, l’ho detto solo per far stare zitto Jace.»
Le mie parole successive sono una pessima idea, lo so, ma parlo perché voglio dimostrare qualcosa. «Se non ti vergogni di me, allora portami alla festa.» «Col cazzo che ti ci porto.»
«Ecco, appunto.»
«Non ti ci porto perché Jace è uno stronzo, tanto per cominciare. E poi, non è il posto adatto per te.»
«Perché no? Non mi rompo mica, sai.»
«Jace e i suoi amici sono su un altro pianeta, Tessa. Cavoli, è troppo anche per me. Un branco di fattoni, la feccia dell’umanità.»
«E allora perché è tuo amico?»
«C’è una bella differenza tra essere in rapporti cordiali con qualcuno ed essere amici.»
«Be’, ma allora perché Zed li frequenta?»
«Non lo so. Jace non è una persona a cui puoi dire di no.»
«Perciò hai paura di lui. Ecco perché non hai detto niente quando ci provava con me.» Jace dev’essere proprio un duro, se Hardin lo teme.
Scoppia a ridere. «Non ho paura di lui, ma non voglio provocarlo. Gli piacciono i giochi; e se io lo provocassi quando ci sei di mezzo tu, ti trasformerebbe in un gioco.» Le sue nocche sono bianche, da quanto stringe il volante.
«Be’, allora meno male che siamo soltanto amici.» Guardo il bellissimo panorama della città che scorre fuori dal finestrino. So di non essere completamente dalla parte della ragione, perché mi sto comportando in maniera infantile, ma non so cos’altro fare. Ora che ho scoperto che Jace è un tipo poco raccomandabile, capisco perché Hardin si è comportato in quel modo. Ma non per questo mi fa meno male.
82
QUANDO arriviamo in camera mi lascio cadere sul letto. Sono ancora arrabbiata con Hardin, ma non quanto prima. Non voglio attirare l’attenzione di Jace più del necessario, ma conoscerlo mi ha fatto sorgere nuove domande a cui so che Hardin non vorrebbe rispondere.
«Mi dispiace davvero, non volevo ferire i tuoi sentimenti», dice. Evito di guardarlo, perché se lo guardassi mi passerebbe la rabbia, invece voglio fargli capire che non tollero più questi comportamenti. «Mi… mi vuoi ancora?» chiede con voce tremante.
Quando finalmente mi giro verso di lui, vedo tutta la sua vulnerabilità. Sospiro: è impossibile restare arrabbiata con lui.
«Sì, certo che ti voglio. Vieni qui.» Gli faccio cenno di sedersi sul letto. Con quest’uomo non ho la minima forza di volontà.
«Mi consideri la tua ragazza?» gli domando mentre si siede.
«Sì. Insomma, mi sembra un po’ stupido chiamarti così.»
«Stupido?» Mi rosicchio le unghie, una brutta abitudine di cui devo ancora liberarmi.
«Tu per me sei più di un’etichetta da adolescenti.» Posa le mani sulle mie guance. Ho un tuffo al cuore e non riesco a non sorridere. Lui rilassa subito le spalle.
«Non mi piace che tu non voglia farlo sapere a tutti. Come possiamo andare a convivere se non vuoi neanche dire ai tuoi amici che stiamo insieme?»
«Non è questo. Vuoi che telefoni a Zed e glielo dica subito? Semmai sei tu quella che dovrebbe vergognarsi di stare con me. Lo vedo anch’io come ci guarda la gente», dice. Quindi si è accorto degli sguardi delle altre persone.
«Ci fissano solo perché siamo molto diversi l’uno dall’altra, ma questo è un problema loro. Non mi vergognerei mai di farmi vedere con te. Mai, Hardin.» «Mi stavo preoccupando, pensavo che tu stessi per arrenderti.»
«Arrendermi?»
«Sei l’unica costante nella mia vita, lo sai, vero? Non so cosa farei se mi lasciassi.»
«Non ti lascerò se non me ne darai motivo», lo rassicuro, ma non riesco proprio a immaginare cosa potrebbe spingermi a lasciarlo. Sono troppo innamorata. Il pensiero di lasciarlo mi provoca un dolore lancinante in tutto il corpo. Mi distruggerebbe. Lo amo, anche se litighiamo ogni giorno.
«Non te ne darò.» Distoglie lo sguardo per un momento, poi torna a fissarmi. «Mi piace la persona che sono con te.»
«Piace anche a me, quella persona.»
Lo amo, amo ogni parte di lui. Tutte le versioni. Ma in particolare mi piace ciò che sono diventata con lui: ci siamo trasformati a vicenda, e in meglio. Sono riuscita a farlo aprire e gli ho donato la felicità, e lui mi ha insegnato a vivere senza preoccuparmi di ogni dettaglio.
«So che a volte ti faccio arrabbiare… be’, spesso, e tu mi fai ammattire.» «Be’… grazie…»
«Solo perché litighiamo non vuol dire che non possiamo stare insieme. Tutte le coppie litigano.» Sorride. «Noi litighiamo un po’ più della media, magari. Siamo persone molto diverse, quindi dobbiamo capire come prenderci. Con il tempo diventerà più facile», mi assicura.
«Non abbiamo ancora comprato i vestiti per il matrimonio», gli faccio notare.
«Oh, maledizione, vorrà dire che non ci possiamo andare», ironizza.
«Ti piacerebbe. È solo martedì, abbiamo tutta la settimana.»
«Oppure possiamo passare il weekend a Seattle, io e te?»
«Cosa?» Mi alzo a sedere sul letto. «Ma no! Ci andiamo, al matrimonio. Però puoi portarmi a Seattle il weekend successivo.»
«No, l’offerta è valida per un periodo limitato.»
«E va bene, dovrò trovare qualcun altro che mi porti a Seattle.» Si irrigidisce. «Non oseresti.» Trattiene a stento un sorriso.
«Oh, sì che oserei. Seattle è la mia città preferita.»
«La tua città preferita?»
«Non ne ho viste molte altre.»
«Qual è il posto più lontano in cui sei stata?»
Poso la testa sul suo petto. Lui si appoggia alla testiera del letto e mi abbraccia. «Seattle. Non sono mai uscita dallo Stato di Washington.» «Mai?» chiede incredulo.
«No, mai.»
«Perché no?»
«Non lo so… Dopo che mio padre se n’è andato non avevamo i soldi per viaggiare. Mia madre lavorava sempre e io ero troppo concentrata sulla scuola e sul desiderio di
andarmene da quella città. Non pensavo a nient’altro che a studiare e lavorare.» «E dove ti piacerebbe andare?» domanda accarezzandomi un braccio.
«A Chawton. Voglio visitare la fattoria di Jane Austen. O a Parigi: mi piacerebbe vedere dove abitava Hemingway quand’era lì.»
«Sapevo che avresti risposto così. Potrei portartici», dice in tono serio.
«Iniziamo da Seattle», ridacchio.
«Dico davvero, Tessa. Posso portarti ovunque vuoi. Specialmente in Inghilterra. Ci sono cresciuto, dopotutto. Potresti conoscere mia madre e il resto della famiglia.»
«Ehm…» Non so proprio cosa dire. È così imprevedibile: un’ora fa mi presenta come un’amica, e ora mi porta in Inghilterra a conoscere sua madre.
«Iniziamo da Seattle?»
«E va bene. Ma ti piacerebbe molto la campagna inglese, dov’è cresciuta Jane Austen…»
Non riesco a immaginare come reagirebbe mia madre se andassi all’estero con Hardin.
Probabilmente mi chiuderebbe in soffitta e non mi lascerebbe più uscire. Non le ho ancora parlato da quando mi ha minacciato e se n’è andata dal dormitorio. Voglio rimandare più a lungo possibile quell’inevitabile discussione.
«Cos’hai?» mi chiede Hardin.
«Niente, scusa. Stavo pensando a mia madre.»
«Ah… le passerà, piccola.» Sembra così sicuro, ma io la conosco meglio di lui.
«Non penso… Cambiamo argomento però.»
Ci mettiamo a parlare del matrimonio, ma dopo un momento il telefono di Hardin vibra nella sua tasca. Mi stacco da lui per permettergli di tirarlo fuori, ma lui non accenna a farlo.
«Chiunque sia, può aspettare.»
Ne sono felice. «Sabato, dopo il matrimonio, restiamo a casa di tuo padre?» gli chiedo, per distrarmi dal pensiero di mia madre.
«Tu vuoi che restiamo?»
«Sì, mi piace stare lì. Questo letto è troppo piccolo.»
«Potremmo stare più spesso da me. Che ne dici di stasera?»
«Domattina ho lo stage.»
«E allora? Puoi portarti dietro il necessario e prepararti in un bagno vero. Non torno in camera mia da un po’; staranno già cercando un nuovo inquilino. Non ti andrebbe di farti una doccia senza che ci siano altre trenta persone nella stanza?»
«Ci sto.»
Mi aiuta a preparare i bagagli. Odiavo la confraternita, la odio ancora: ma l’idea di una doccia in un vero bagno, e del grande letto di Hardin, è irresistibile. Con aria compiaciuta mi porge il completino intimo in pizzo rosso, e io arrossisco infilandolo in borsa. Porto via anche una vecchia gonna nera e una camicetta bianca, per non sfoggiare subito tutti i vestiti nuovi.
«Reggiseno rosso con camicetta bianca?» mi fa notare Hardin. Decido di sostituirla con una camicetta blu.
«Potresti portarti qualche vestito in più, così la prossima volta viaggeresti più leggera», mi consiglia. Vuole che io lasci dei vestiti a casa sua! Dà per scontato che passeremo insieme tutte le notti.
«Sì, forse potrei», concedo, e infilo in valigia il vestito bianco che ho appena comprato e qualche altro vestito.
«Sai cosa semplificherebbe un sacco le cose?» dice mentre usciamo, mettendosi in spalla il mio borsone.
So già la risposta. «Cosa?»
«Se vivessimo insieme.» Sorride. «Non dovremmo decidere ogni volta dove passare la notte, e tu non dovresti fare le valigie. Ti faresti la doccia in privato tutti i giorni… be’, non completamente in privato.» Mi fa l’occhiolino. E proprio quando penso che abbia finito, quando arriviamo alla macchina e mi apre la portiera, aggiunge: «Potresti svegliarti e farti il caffè nella nostra cucina, e prepararti per uscire, e ogni sera ci ritroveremmo a casa nostra. Niente compagne di stanza, confraternite e altre cazzate del genere».
Ogni volta che usa la parola «nostro», il mio cuore manca un battito. Più ci penso, più
mi sembra una buona idea. È solo che ho il terrore di correre troppo. Non voglio rovinare tutto.
In macchina, mi posa la mano sulla coscia e ripete: «Smettila di scervellarti». Il suo telefono vibra di nuovo, ma lui lo ignora. Stavolta inizio a sospettare che non voglia rispondere in mia presenza, ma scaccio quel pensiero.
«Di cosa hai paura?» chiede visto il mio silenzio.
«Non lo so. E se succede qualcosa con il mio stage e non posso permettermelo? O se succede qualcosa tra di noi?»
Si rabbuia, ma solo per un momento. «Piccola, ti ho già detto che pago tutto io. È stata una mia idea, e guadagno più di te, perciò lasciami fare.»
«Non mi importa di quanto guadagni, non mi piace l’idea che paghi tutto tu.»
«Puoi pagare l’abbonamento alla tv via cavo, se vuoi.»
«E la spesa…» propongo. Non so più se ne stiamo parlando in via ipotetica o no. «Affare fatto. Se fai tu la spesa… potresti prepararmi la cena ogni sera.» «Scusa? Il contrario, casomai», ribatto ridendo.
«Una sera io e una sera tu?»
«Ci sto.»
«Allora vieni a vivere con me?» Non penso di aver mai visto un sorriso più largo sul suo viso perfetto.
«Non ho detto che ci vengo, stavo solo…»
«Sai che mi prenderò cura di te, vero? Sempre.»
Non voglio che si prenda cura di me: voglio guadagnarmi ciò che possiedo e pagare la mia parte, ma ho l’impressione che non si riferisca solo ai soldi.
«Ho paura che sia troppo bello per essere vero», ammetto infine, a lui e a me stessa.
«Anch’io», risponde. Mi sorprende, ma è un sollievo che la pensi come me. «Ci penso in continuazione. Tu sei troppo per me, e da un giorno all’altro te ne renderai conto, ma spero che tu non lo capisca mai», ammette continuando a guardare la strada. «Non succederà», replico convinta.
Non risponde.
«Okay», dico per spezzare il silenzio.
«Okay cosa?»
«Okay, vengo a vivere con te.» Sorrido.
Fa un lungo sospiro liberatorio. «Sul serio?» Sorride e gli si formano le fossette sulle guance.
«Sul serio.»
«Non hai idea di quanto mi fai felice, Theresa.» Mi stringe forte la mano mentre svolta nella strada di casa sua. Lo stiamo facendo davvero: stiamo andando a vivere insieme. Io e Hardin. Da soli. In una casa tutta nostra. Il nostro letto. Il nostro tutto. Sono terrorizzata, ma l’entusiasmo ha la meglio sul nervosismo, almeno per il momento.
«Non chiamarmi Theresa, o cambierò idea.»
«Hai detto che solo amici e parenti possono chiamarti Tess.»
Se lo ricorda? Credo di averglielo detto appena l’ho conosciuto. Sorrido. «Non hai tutti i torti. Chiamami pure come vuoi.»
«Oh, piccola, non direi così se fossi in te. Ho una lunga lista di nomignoli piuttosto indecenti da affibbiarti.» Vorrei tanto sentirli, ma è meglio non indagare oltre. Stringo le gambe. Dev’essersene accorto, perché il suo sorriso si allarga.
Sto per dirgli che è un gran pervertito, ma le parole mi restano in gola. Avvicinandoci alla casa vediamo il giardino pieno di gente e la strada ingombra di macchine parcheggiate.
«Porca miseria, non sapevo che stasera ci fosse una festa. È martedì, cazzo. Vedi, è per questo che non voglio più…»
«Non fa niente, possiamo andare subito in camera tua», lo interrompo, cercando di calmarlo.
«E va bene», sospira.
Entriamo in casa e filiamo dritti al piano di sopra. Proprio quando penso di essere riuscita a non incontrare nessuno che conosco, vedo una testa bionda sul pianerottolo del primo piano. Jace. 
83
HARDIN vede Jace nello stesso istante in cui lo vedo io. Si gira a guardarmi, poi torna a voltarsi verso Jace e si irrigidisce. Per un attimo sembra che voglia tornare indietro, ma Jace ci vede, e so che Hardin non vorrà rischiare di inimicarselo battendo in ritirata adesso. Tutt’intorno a noi la festa prosegue, ma io vedo solo il sorrisetto perfido di Jace, che mi spaventa a morte.
Quando arriviamo in cima alle scale, lui ostenta stupore: «Non immaginavo di vedervi qui, dato che non siete venuti al porto».
«Sì, siamo venuti direttamente qui…» inizia a rispondere Hardin.
«Ah, ho capito perché siete venuti qui», lo interrompe Jace, dandogli una pacca sulla spalla. Rabbrividisco quando i suoi occhi marroni si spostano su di me. «È un vero piacere rivederti, Tessa», dice in tono freddo.
Scocco un’occhiata a Hardin, ma lui è troppo concentrato su Jace per accorgersene.
«Piacere mio», mi sforzo di rispondere.
«Be’, meno male che non ci siete venuti, al porto. È arrivata la polizia e ci ha fatto sgomberare, quindi ci siamo trasferiti qui.»
Perciò in giro devono esserci anche gli amici di Jace, gente poco raccomandabile e che non piace a Hardin. Avremmo fatto meglio a restare al dormitorio. Leggo lo stesso pensiero negli occhi di Hardin.
«Ah, che peccato», dice, e cerca di proseguire in corridoio.
Ma Jace lo prende per un braccio. «Venite di sotto a bere qualcosa con noi.» «Lei non beve», sbuffa Hardin, chiaramente irritato.
Purtroppo Jace prosegue imperterrito. «Oh be’, vieni tu, allora. Insisto.»
Hardin mi guarda e io tento di dirgli con lo sguardo: No! Ma poi lo vedo annuire rivolto a Jace. Ma che cavolo?…
«Scendo tra un minuto; vorrei prima… accompagnarla in camera», borbotta, poi mi afferra per il polso e mi tira verso la sua camera prima che Jace possa ribattere. Apre la porta, mi fa entrare e la richiude subito.
«Non voglio andare di sotto», gli dico mentre posa la mia borsa. «Infatti non ci vai.» «Ma tu sì?»
«Sì, ma solo per un minuto. Torno presto», risponde massaggiandosi la nuca.
«Perché non gli hai rifiutato l’invito?» chiedo. Sostiene di non avere paura di Jace, però a me sembra molto intimorito da lui.
«Te l’ho già detto, è difficile dirgli di no.»
«Ha qualcosa con cui ricattarti, o cose del genere?»
«Eh?» Diventa paonazzo. «No… è solo uno stronzo. E io non voglio guai. Soprattutto quando ci sei tu.» Mi viene incontro. «Starò via poco, ma lo conosco, e se non vado a bere qualcosa con lui verrà quassù. E non voglio che ti si avvicini.» Mi bacia sulla guancia.
«Okay», sospiro.
«Però devi restare qui. So che non è l’ideale, con il rumore della musica di sotto, ma non saprei come altro fare.»
«Okay», ripeto. Tanto non voglio scendere. Odio queste feste, e di sicuro non ho voglia di incontrare Molly.
«Dico sul serio. Okay?»
«Sì, te l’ho già detto. Ma non lasciarmi qui da sola troppo a lungo.»
«Non preoccuparti. Domani stesso andiamo a firmare le carte per l’appartamento. Appena esci dalla Vance. Non voglio più avere a che fare con questa merda.»
Neanch’io voglio più avere a che fare con feste del genere e con la mia stanzetta al dormitorio. Voglio mangiare in cucina, non in mensa. Voglio la libertà di una persona adulta. Vivere al campus non fa che ricordarmi quanto siamo giovani.
«Va bene, torno subito. Quando esco chiuditi a chiave e non aprire a nessuno. Io ho la chiave.» Mi dà un rapido bacio sulla bocca e si avvia alla porta.
«Accidenti, sembra che qualcuno voglia ammazzarmi», scherzo per alleviare la tensione. Ma lui esce dalla stanza senza ridere. Però gli do retta, mi chiudo a chiave: non voglio certo che entri qualche ubriaco.
Accendo il televisore, sperando di coprire il rumore che viene dal piano di sotto, ma continuo a domandarmi cosa starà succedendo. Perché Hardin è così in soggezione davanti a Jace, e perché Jace è così viscido? Staranno facendo un’altra partita di quel gioco così infantile, Obbligo o verità? E se Hardin viene costretto a baciare Molly? Se lei gli si siede in grembo come l’altra volta? Detesto essere gelosa, perché mi rende irrazionale. So che Hardin è andato a letto con tante ragazze, compresa Steph, ma Molly mi irrita più delle altre. Forse perché non le sto simpatica, e perché mi rinfaccia a ogni occasione la sua storia con Hardin.
E la prima volta che l’hai vista era seduta a cavalcioni di Hardin con la lingua nella sua bocca, mi ricorda il subconscio.
E alla fine i pensieri diventano troppi. So che dovrei restare qui dentro con la porta chiusa a chiave, ma i miei piedi hanno altri progetti. Mi ritrovo sulle scale.
Arrivata all’ultimo gradino vedo gli orribili capelli rosa di Molly e il suo vestitino succinto. Con mio grande sollievo, Hardin non è nei paraggi.
«Ehi, guarda un po’ chi si vede», dice qualcuno alle mie spalle. Mi giro e mi ritrovo davanti Jace.
«Hardin ha detto che non ti sentivi bene. Spara sempre balle, quello lì.» Sorride e tira fuori dalla tasca un accendino. Lo fa scattare con il pollice e passa la fiamma sull’orlo del gilet di jeans per bruciare qualche filo tirato.
Decido di confermare la bugia di Hardin. «Era vero, ma adesso sto un po’ meglio.» «Così in fretta?» Ride.
La stanza è diventata angusta, opprimente, e sembra più affollata di prima. Cerco Hardin con gli occhi.
«Vieni, voglio presentarti i miei amici», dice Jace. Ogni volta che apre bocca, un brivido mi corre lungo la schiena.
«Ehm… Penso che dovrei… cercare Hardin», balbetto.
«Ma dai! Hardin è con loro, comunque.» Tenta di posarmi un braccio sulle spalle.
Faccio un passo di lato fingendo di non essermi accorta di niente. Valuto di tornare di sopra per non far sapere a Hardin che sono scesa, ma ho l’impressione che Jace mi verrebbe dietro oppure glielo racconterebbe. Entrambe le cose, probabilmente.
«Okay», mi arrendo. Seguo Jace tra la gente e usciamo nel giardino sul retro. C’è poca luce, solo qualche lampadina sulla veranda. Inizio a sentirmi nervosa all’idea di essere con Jace al buio, ma poi incontro lo sguardo di Hardin. La sua espressione è sorpresa, poi arrabbiata, fa per alzarsi ma resta seduto.
«Guardate un po’ chi ho trovato a gironzolare tutta sola», esordisce Jace indicandomi.
«Lo vedo», borbotta Hardin. È su tutte le furie.
Un gruppo di persone che non conosco è seduto intorno a un cumulo di pietre, su cui però non è acceso il fuoco. Ci sono delle ragazze, ma in maggioranza sono maschi, e belli grossi.
«Vieni qui», mi dice Hardin, spostandosi per farmi spazio.
Mentre mi siedo mi guarda come a dire che se non ci fossero quelle altre persone mi strillerebbe in faccia. Jace si sporge a dire qualcosa all’orecchio di un ragazzo dai capelli neri e con una maglietta bianca tutta strappata.
«Perché sei uscita dalla mia stanza?» chiede Hardin, a voce bassa ma in tono deciso.
«Non… non lo so. Pensavo che Molly, forse…» Lascio la frase in sospeso perché capisco che sembro stupida.
«Non ci posso credere», fa lui, esasperato. Il ragazzo dai capelli neri mi porge una bottiglia di vodka. «Lei non beve», dice Hardin togliendomela dalle mani.
«Porca puttana, Scott, lasciala parlare da sola», dice un altro ragazzo. Ha un bel sorriso e non mi fa paura quanto Jace o quello con i capelli neri.
Hardin fa una risatina falsa. «Fatti gli affari tuoi, Ronnie», risponde in tono leggero.
«Allora, chi vuole giocare?» chiede Jace.
Guardo Hardin. «Vi prego, ditemi che non giocate anche voi a Obbligo o verità. E comunque, perché alle feste bisogna sempre giocare?» intervengo.
«Aaah, questa ragazza sa il fatto suo. Già mi piace», commenta Ronnie. Scoppio a ridere.
«Che male c’è a giocare ogni tanto?» biascica Jace. Sento Hardin irrigidirsi accanto a me.
«No, in realtà pensavamo allo strip poker», si intromette un altro ragazzo.
«Oh, neanche morta», ribatto.
«Che ne dite di Succhia e Soffia?» chiede Jace. Rabbrividisco e divento rossa. Non lo conosco, ma non credo mi vada di giocarci con questa gente.
«Mai sentito, ma no, grazie», rispondo. Con la coda dell’occhio vedo Hardin sorridere.
«È divertente, soprattutto dopo che hai bevuto un po’», interviene una voce maschile.
Vorrei bere un sorso dalla bottiglia che Hardin ha in mano, ma devo svegliarmi presto
e non voglio farmi venire il mal di testa.
«Non ci sono abbastanza ragazze per giocare a Succhia e Soffia», dice Ronnie.
«Posso procurarne qualcuna», risponde Jace, ed entra in casa.
«Torna di sopra, per favore», mi bisbiglia Hardin per non farsi sentire dagli altri. «Se vieni anche tu.»
«Okay, andiamo.»
Ma mentre ci alziamo gli altri iniziano a lamentarsi. «Dove te ne vai, Scott?» chiede uno dei ragazzi.
«Di sopra.»
«Dai, non ti vedevamo da mesi. Resta ancora un po’.»
Hardin mi guarda e io mi stringo nelle spalle. «E va bene», concede, e mi riaccompagna davanti al fuoco spento. «Torno subito. Stavolta resta dove sei. Sul serio.» Lo guardo storto: mi sembra piuttosto ironico che mi dica così mentre mi lascia in compagnia delle persone meno raccomandabili della festa.
«Dove vai?» gli chiedo.
«A prendere da bere. Ne avrai bisogno anche tu.» Sorride ed entra in casa.
Guardo alternativamente il cielo e le braci per evitare conversazioni imbarazzanti. Non funziona.
«Allora, da quanto vi conoscete tu e Hardin?» domanda Ronnie, bevendo un sorso di liquore.
«Da qualche mese», rispondo educatamente. C’è qualcosa di confortante in Ronnie; la sua presenza non mi innervosisce come quella di Jace.
«Ah, non da tanto, quindi?»
«Be’, no, non da tanto. E tu da quanto lo conosci?» chiedo, cercando di approfittare dell’occasione per ottenere più informazioni possibili sul conto di Hardin. «Dall’anno scorso.»
«Dove vi siete conosciuti?»
«A una festa. Be’, a molte feste.» Ride.
«Allora siete amici?»
«Sei curiosa, eh?» interviene il ragazzo dai capelli neri.
«Sì», rispondo, e lui ride. Non sono poi così male, questi ragazzi. Meglio di come li dipingeva Hardin. Dov’è finito, a proposito?
Qualche minuto dopo riappare con Jace e tre ragazze. Ma che succede? Jace e Hardin sembrano immersi in una conversazione, e a un certo punto Jace dà a Hardin una pacca sulla spalla e ridono entrambi.
Hardin ha in mano due bicchieri di plastica. Sono felice che non ci sia Molly tra le ragazze che lo seguono. Si siede con me e mi guarda con aria divertita. Quantomeno sembra più rilassato di prima.
«Ecco», mi dice, porgendomi uno dei bicchieri.
Lo osservo per un momento prima di prenderlo. Un solo bicchiere non sarà la fine del mondo, mi dico. Riconosco subito il sapore: è la stessa roba che abbiamo bevuto la sera in cui ho baciato Zed. Hardin mi fissa mentre mi lecco le labbra dopo aver bevuto.
«Ora ci sono abbastanza ragazze», dice Jace, indicando le nuove arrivate.
Le squadro e mi sforzo di non giudicarle. Sono tutte in minigonna, con magliette di colori diversi. Quella con la maglietta rosa mi sorride, perciò decido che mi sta più simpatica delle altre.
«Tu non giochi», mi dice Hardin all’orecchio. Vorrei rispondergli che faccio quel che mi pare, ma poi si sporge verso di me e mi cinge in vita con un braccio. Lo guardo sorpresa, ma lui sorride e basta.
«Ti amo», bisbiglia. Le sue labbra sono fredde sul mio orecchio, mi danno un brivido.
«Okay, sapete tutti come funziona», esordisce Jace a voce alta. «Dobbiamo disporci in un circolo più stretto. Ma prima diamo il via alla festa.» Con un ghigno, tira fuori qualcosa dalla tasca, un piccolo oggetto bianco, e lo avvicina alla fiamma dell’accendino.
«È erba», sussurra Hardin. Lo immaginavo, anche se non l’avevo mai vista dal vivo.
Osservo Jace soffiare una nuvoletta di fumo. Poi porge la canna a Hardin, che scuote la testa per rifiutare. Ronnie la prende, tira una lunga boccata e tossisce forte.
«Tessa?» chiede, porgendomela.
«No. No, grazie», rispondo, e mi stringo a Hardin.
«Va bene, ora giochiamo», dice una delle ragazze, estraendo qualcosa dalla borsa.
Tutti si alzano e si dispongono seduti in circolo sul prato.
«Vieni, Hardin!» esclama Jace, ma Hardin scuote la testa.
«Sono a posto così, amico.»
«Allora ci serve un’altra ragazza, a meno che tu non voglia rischiare di ritrovarti in gola la lingua di Dan.» Ronnie scoppia a ridere. Dan dev’essere il ragazzo dai capelli neri. Un altro ragazzo, taciturno, con i capelli rossi e una folta barba, fa un tiro dalla canna e la restituisce a Jace. Finisco di bere dal mio bicchiere e prendo quello di Hardin. Lui mi guarda perplesso ma mi lascia fare.
«Vado a chiamare Molly, ci starà di sicuro», dice la ragazza con la maglietta rosa. Quando sento quel nome, l’odio ha la meglio sul buonsenso. «No, gioco io», dico.
«Davvero?» mi chiede Jace.
«Ha il tuo permesso?» chiede Dan a Hardin con un ghigno.
«Faccio quel che mi pare, grazie tante», ribatto, in tono brusco ma con un sorriso innocente.
Evito accuratamente di guardare Hardin: mi ha già detto che non devo giocare, ma non sono riuscita a tener chiusa la mia boccaccia. Scolo anche il suo bicchiere e vado a sedermi accanto alla ragazza con la maglietta rosa.
«Devi sederti tra due ragazzi», mi spiega lei.
«Ah, okay.» Mi alzo.
«Gioco anch’io», borbotta Hardin, e viene a sedersi. Istintivamente mi siedo accanto a lui, ma evito ancora di incrociare i suoi occhi. Jace si siede dall’altro lato.
«Penso che Hardin dovrebbe sedersi qui per rendere il tutto più interessante», osserva Dan, e il rosso annuisce.
Hardin sembra contrariato, ma va a sedersi davanti a me. Non capisco il senso di questi spostamenti: che importa chi sta seduto vicino a chi? Quando Dan si accomoda vicino a me, mi assale il nervosismo. Stare tra lui e Jace mi mette molto a disagio.
«Possiamo iniziare?» piagnucola la ragazza con la maglietta verde, seduta tra Hardin e
il rosso. Jace si fa consegnare un pezzo di carta da una delle ragazze e lo appoggia sulla bocca.
Ma cos’è?
«Pronta?» mi chiede.
«Non so come si gioca», confesso. Sento sghignazzare una delle ragazze.
«Metti la bocca dall’altra parte del foglio e succhi; non devi far cadere il foglio, altrimenti devi baciare la persona che ti siede accanto», spiega.
Oh no. Lancio un’occhiata a Hardin, ma lui sta guardando Jace.
«Cominciamo da questo lato, così lei vede come si fa», dice la ragazza seduta accanto a Jace.
Non mi piace per niente, questo gioco. Spero che finisca prima che arrivi il mio turno. O quello di Hardin. E poi mi sembrano tutti un po’ troppo cresciuti per questo genere di giochi. Perché gli studenti universitari non si lasciano mai sfuggire un’occasione di baciare perfetti sconosciuti? Guardo passare il foglio dalla bocca di Jace a quella della ragazza; non cade. Trattengo il respiro mentre Hardin recupera il foglio dalla ragazza e lo passa all’altra. Se bacia una di loro… Per fortuna il foglio non cade. Cade però tra il ragazzo dai capelli rossi e la ragazza con la maglietta gialla, e i due si baciano. Con la lingua. Distolgo lo sguardo, inorridita. Vorrei alzarmi e andarmene, ma il mio corpo non vuole muoversi. Ora tocca a me.
Ho la gola serrata quando Dan si gira verso di me con il foglio sulle labbra. Non ho ancora capito bene cosa devo fare, quindi chiudo gli occhi, poso le labbra sull’altro lato del foglio e inizio a succhiare. Sento aria calda attraverso il foglio: Dan ci sta soffiando. Ma ho già intuito che è troppo difficile e il foglio cadrà. Nello stesso istante mi accorgo che il foglio atterra sulla mia gamba e percepisco le labbra calde di Dan sulle mie. Appena ci sfioriamo, qualcuno strattona Dan all’indietro.
Apro gli occhi, ma prima che riesca a capire cosa sta succedendo Dan è già riverso a terra e Hardin è sopra di lui, e gli stringe le mani intorno al collo.
84
ARRETRO precipitosamente, reggendomi con le mani a terra, mentre Hardin solleva la testa di Dan, sempre tenendolo per il collo, e la sbatte sull’erba. Per un attimo mi domando se avrebbe fatto la stessa cosa sul cemento della veranda o vicino alle pietre intorno al fuoco, e ho paura di rispondermi: perché in quel momento Hardin alza un pugno e lo sferra sul mento di Dan.
«Hardin!» grido, scattando in piedi. Tutti ci fissano, Jace sembra divertito e persino Ronnie ha l’aria di godersi lo spettacolo.
«Fermatelo!» li scongiuro, ma Jace scuote la testa. Hardin sferra un altro pugno sul viso già insanguinato di Dan.
«Lasciali sfogare, era da un po’ che doveva succedere.» Mi rivolge un ghigno. «Vuoi bere qualcosa?»
«Eh? No, non voglio bere qualcosa! Ma che cazzo di problema hai!» strillo.
Ormai si è riunito un capannello di persone che fa il tifo per l’uno o l’altro. Dan non ha ancora picchiato Hardin, e ne sono felice, ma voglio che Hardin smetta di fargli male. Ho troppa paura per andare a separarli, ma quando vedo Zed uscire in giardino mi sbraccio e gli grido di raggiungermi.
«Fermalo, ti prego!» urlo. Sembrano tutti felicissimi di vedere una rissa, tutti tranne me. Se continua così, Hardin ucciderà quel ragazzo. Me lo sento.
Zed si avvicina a Hardin. Lo prende per il retro della maglietta e lo strattona all’indietro. Lo coglie alla sprovvista, quindi non ha difficoltà a separarlo da Dan. Infuriato, Hardin cerca di tirare un pugno a Zed, ma lui lo schiva e gli posa le mani sulle spalle. Gli dice qualcosa che non riesco a sentire e poi annuisce rivolto a me. Hardin ha gli occhi iniettati di sangue, le nocche ferite e la maglietta strappata. Ansima come un animale selvatico che ha ucciso una preda. Non vado da lui, so quant’è arrabbiato con me. Lo vedo. Non ho paura di lui come forse dovrei. L’ho appena visto perdere completamente il controllo nel modo peggiore possibile, eppure rimango convinta che non alzerebbe mai un dito su di me.
Ora che la rissa è finita, quasi tutti rientrano in casa. Dan giace riverso sul prato e Jace lo aiuta ad alzarsi. Si asciuga il sangue dal viso con la maglietta e sputa una disgustosa miscela di sangue e saliva.
Hardin si gira a guardarlo e cerca di tornare verso di lui, ma Zed lo trattiene.
«Fanculo, Scott!» grida Dan. Jace si interpone tra loro. Ah, solo ora ha deciso di intervenire. «Aspetta solo che il tuo piccolo…» strilla Dan.
«Chiudi il becco, cazzo», sbotta Jace. Dan si zittisce all’istante.
Guarda me, e io indietreggio di un passo. Mi chiedo cosa intendesse Jace quando ha detto che «era un po’ che doveva succedere». Hardin e Dan sembravano andare d’amore e d’accordo fino a pochi minuti fa.
«Torna in casa!» grida Hardin, e capisco subito che dice a me.
Decido di dargli retta, per una volta, e corro in casa. Tutti mi fissano, ma non mi importa. Sgomito per farmi largo tra la gente e filo in camera di Hardin. Devo aver dimenticato di chiudere a chiave quando sono uscita: perché, come se non avessi già visto abbastanza orrori, trovo una grande macchia rossa sul tappeto. Qualcuno dev’essere entrato e deve aver rovesciato un bicchiere. Fantastico. Corro in bagno, prendo un asciugamano e lo inumidisco. Torno in camera, chiudo a chiave la porta e mi metto a strofinare la macchia, ma riesco solo ad allargarla e a renderla più vistosa. Sento girare la chiave nella porta e cerco di alzarmi in piedi prima che entri Hardin.
«Che cazzo fai?» Guarda l’asciugamano che ho in mano, e poi la macchia sul tappeto.
«Qualcuno… ho dimenticato di chiudere a chiave quando sono scesa», dico. Lo vedo dilatare le narici e fare un respiro profondo. «Scusa», continuo.
È inferocito, e non posso neppure arrabbiarmi con lui perché è tutta colpa mia. Se gli avessi dato ascolto e fossi rimasta in camera non sarebbe successo niente.
Si stropiccia il viso, con aria frustrata. Faccio un passo verso di lui. Ha le dita insanguinate, come quella volta allo stadio. Mi toglie l’asciugamano dalle mani e d’istinto arretro di un passo. Gli leggo la confusione negli occhi, mentre usa la parte pulita dell’asciugamano per togliere il sangue dalle nocche.
Mi aspettavo che irrompesse nella stanza e si mettesse a spaccare tutto e a strillarmi in faccia; invece resta in silenzio, il che è ancora peggio.
«Potresti dire qualcosa, per favore?»
Risponde ancora più lentamente del solito. «Credimi, Tessa, è meglio se non parlo, adesso.»
«Sì che devi parlare.» Non sopporto questo silenzio arrabbiato.
«No», ringhia.
«Sì! Devi parlarmi, dirmi cosa cavolo è successo laggiù!» continuo, indicando la finestra.
Stringe i pugni lungo i fianchi. «Porca puttana, Tessa! Devi sempre insistere! Ti ho detto di restare nella mia stanza – te l’ho ripetuto più volte – e tu che cazzo fai? Non mi dai retta, come al solito! Perché è tanto difficile starmi a sentire?» grida. Sferra un pugno al comò, incrinando il legno.
«Perché, Hardin, tu non hai il diritto di darmi ordini dalla mattina alla sera!»
«Non ti do ordini. Cercavo di tenerti lontana da cose come quella che è appena successa. Ti avevo avvertita che quelle persone erano pericolose, e tu invece ti sei messa a parlare con Jace e ti sei offerta volontaria per il gioco! Ma che cazzo ti è passato per la testa?» Gli si tendono così tanto le vene del collo che ho paura che esplodano.
«Non sapevo che gioco fosse!»
«Sapevi che non volevo che giocassi, e l’unico motivo per cui hai deciso di partecipare è che qualcuno ha fatto il nome di Molly. Per via di questa assurda ossessione che hai per lei!»
«Scusa? Assurda ossessione, dici? Forse non mi piace che il mio ragazzo andasse a letto con lei!» Ho le guance in fiamme. La gelosia e l’astio che provo per Molly sono un po’ eccessivi, forse, ma Hardin ha tentato di strozzare un ragazzo solo perché mi aveva quasi baciata.
«Be’, mi spiace dovertelo dire, ma se hai un problema con tutte le tipe che mi sono fatto, sarà meglio che cambi università.» Resto sbigottita. «Non hai avuto niente da ridire sulle ragazze che erano là fuori», soggiunge.
Vado nel panico. «Quali ragazze?» Mi si mozza il fiato. «Quelle tre che giocavano con noi?»
«Sì, e praticamente tutte le ragazze che sono a questa festa.» Mi fissa senza tradire alcuna emozione.
Cerco qualcosa da dire, ma non trovo le parole. Il fatto che Hardin sia andato a letto con tutte e tre quelle ragazze, e in pratica con l’intera popolazione studentesca femminile della WCU, mi dà la nausea. E la cosa peggiore è che me l’ha rinfacciato in questo modo. Devo sembrare così stupida, a stargli appiccicata, quando tutti sanno che sono solo una delle tante. Lo sapevo che si sarebbe arrabbiato, ma questo è un colpo basso anche per lui. Mi sembra di essere tornata al nostro primo incontro, quando cercava in tutti i modi di farmi piangere.
«Che c’è? Ti stupisci? Non dovresti», conclude.
«No.» Infatti non sono stupita, neanche un po’. Sono ferita. Non per il suo passato, ma per il modo in cui mi ha trattata, spinto dalla rabbia. L’ha detto in quel modo solo per farmi male. Batto le palpebre per non piangere, ma le lacrime escono lo stesso. Gli volto le spalle.
«Vattene», dice, andando alla porta.
«Cosa?» esclamo, girandomi verso di lui.
«Vattene e basta, Tessa.»
«E dove?»
Non mi guarda. «Torna al dormitorio… non lo so… ma non puoi restare qui.»
Il dolore che sento nel petto aumenta a ogni secondo di silenzio che passa tra noi. Vorrei scongiurarlo di lasciarmi restare, pretendere che mi spieghi perché ha reagito in quel modo, ma sono troppo umiliata dalla freddezza con cui mi sta cacciando. Prendo la borsa dal letto e la metto in spalla. Quando arrivo alla porta mi giro a guardarlo e spero che mi chieda scusa o che cambi idea, ma lui si volta verso la finestra e mi ignora completamente. Non so come tornare al dormitorio, dato che siamo venuti con la sua macchina e con l’intenzione di passare la notte insieme. Non ricordo l’ultima volta che ho dormito da sola nella mia stanza, e il pensiero mi innervosisce.
In fondo alle scale mi sento tirare per il retro della felpa, e mi giro trattenendo il fiato e pregando in silenzio che non sia Jace o Dan.
È Hardin. «Torna di sopra», dice, con gli occhi rossi e la disperazione nella voce.
«Perché? Mi hai chiesto di andarmene.» Fisso il muro dietro di lui.
Sospira, mi prende la borsa e torna su per le scale. Valuto di andarmene ugualmente, senza borsa, ma è stata proprio la mia testardaggine a cacciarmi in questo guaio.
Sbuffo e lo seguo in camera. Chiude la porta, si gira e mi mette con le spalle al muro.
Mi guarda negli occhi. «Mi dispiace.» Spinge i fianchi contro i miei e appoggia una mano sulla porta accanto alla mia testa per non farmi muovere.
«Anche a me.»
«È che… a volte perdo la pazienza. Non è vero che sono andato a letto con quelle ragazze. Be’, non con tutte e tre.»
Mi sento sollevata, ma solo un po’.
«Il mio primo istinto, quando mi arrabbio, è di fare più male possibile all’altra persona. Ma non voglio che tu te ne vada, e mi dispiace di averti spaventata picchiando Dan. Sto cercando di cambiare, di cambiare per te… di essere l’uomo che meriti. Ma è difficile. Tanto più quando tu fai di tutto per farmi incazzare.» Mi accarezza la guancia e mi asciuga le lacrime.
«Non avevo paura di te», dico.
«Perché no? Mi sembrava di sì, quando ti ho preso l’asciugamano.»
«No… Be’, un po’ sì, in quel momento, per via della macchia sul tappeto. Ma in realtà avevo più paura per te, quando stavi picchiando Dan.»
«Paura per me?» Drizza le spalle. «Non è riuscito a tirarmi nemmeno un pugno.»
Lo guardo con sufficienza. «Voglio dire che temevo che tu lo uccidessi, o qualcosa del genere. Rischi un sacco di guai, se prendi a botte qualcuno.»
Ridacchia. «Vediamo se ho capito: ti preoccupavi delle ripercussioni legali?»
«Piantala di ridere, sono ancora arrabbiata con te», ribatto, incrociando le braccia. Non so bene perché sono arrabbiata con lui, a parte il fatto che mi ha cacciata.
«Anch’io ce l’ho ancora con te, ma sei molto buffa.» Posa la fronte sulla mia. «Mi fai ammattire», mi dice. «Lo so.»
«Non ascolti mai quello che ti chiedo e devi fare sempre il bastian contrario. Sei testarda e quasi intollerabile.» «Lo so.»
«Mi provochi e mi causi un mucchio di stress inutile, e non parliamo neppure di quando hai quasi baciato Dan sotto i miei occhi.» Mi sfiora il collo con le labbra, dandomi un brivido.
«Quando sei arrabbiata dici un sacco di assurdità e ti comporti come una bambina.» Nonostante gli insulti che sta snocciolando – a proposito di certi aspetti del mio carattere che in realtà, secondo me, gli piacciono – continua a baciarmi sul collo e a spingersi contro di me.
«Ma fermo restando tutto ciò… si dà il caso che io sia anche profondamente innamorato di te.» Mi succhia la pelle sotto l’orecchio.
Mi posa le mani sui fianchi e mi tira a sé. Ci sono tante cose da dire, altri problemi da risolvere, ma in questo momento voglio solo smarrirmi in lui e dimenticare questa serata. 85
HARDIN mi posa una mano sulla nuca, in quello che mi sembra un tentativo disperato di avvicinarsi a me mentre ci baciamo. Sento la sua rabbia, la frustrazione, trasformarsi in desiderio e affetto: la sua bocca è avida e i suoi baci sono bagnati. Senza staccarsi da me inizia a camminare all’indietro, con una mano sulla mia nuca e l’altra su un fianco, ma quando arriviamo ai piedi del letto inciampo sui suoi piedi e cadiamo entrambi sul materasso. Cerco di riguadagnare il controllo della situazione: mi siedo a cavalcioni su di lui e mi tolgo la felpa e la canotta, tenendo addosso il reggiseno di pizzo. Lui cerca di tirarmi a sé per baciarmi, ma io ho altri programmi.
Slaccio il reggiseno, faccio scivolare giù le spalline e lo lascio cadere sul letto dietro di me. Hardin mi accarezza il seno con le mani calde. Lo prendo per i polsi e gli tiro via le mani. Lui sembra confuso, ma poi scorro verso il basso lungo il suo corpo e gli sbottono i pantaloni. Mi aiuta a tirarli giù fino alle ginocchia, insieme ai boxer. Afferro subito la sua erezione. Lo sento ansimare, e quando lo guardo vedo che ha gli occhi chiusi. Lo accarezzo lentamente e poi, facendomi coraggio, lo prendo in bocca. Cerco di ricordare le sue istruzioni dalla volta prima e rifaccio tutte le cose che so che gli piacciono.
«Merda… Theresa», boccheggia lui, e mi affonda una mano tra i capelli. Non era mai rimasto in silenzio così a lungo durante una delle nostre esperienze sessuali, e mi accorgo che mi mancano le sue frasi sporche.
Continuo a dargli piacere e mi sposto tra le sue ginocchia. Lui si tira a sedere e mi guarda. «Sei così sexy, con quella tua boccaccia intorno a me», dice, e mi stringe più forte i capelli.
Sento sprigionarsi il calore tra le gambe e muovo la testa più veloce, perché voglio che mugoli il mio nome un’altra volta. Passo la lingua sulla punta e lui solleva leggermente i fianchi, spingendosi più a fondo nella mia bocca. Mi vengono le lacrime agli occhi e non riesco più quasi a respirare, ma sentirlo ripetere il mio nome rende tutto meno faticoso.
Pochi secondi dopo mi toglie le mani dai capelli e me le posa sulle guance, per fermarmi. Sento l’odore metallico del sangue sulle nocche, ma resisto all’impulso di tirarmi indietro.
«Sto per venire…» dice. «Quindi, se c’è altro che… insomma, che vuoi fare prima, è meglio se smetti di succhiarmi.»
Non voglio parlare, non voglio rivelargli quanto desidero che faccia l’amore con me, quindi mi alzo in silenzio e mi tolgo i jeans. Inizio a sfilare anche le mutandine, ma Hardin tende una mano per fermarmi.
«Voglio che le tieni addosso… per ora.» Obbedisco, ma l’impazienza mi serra la gola.
«Vieni qui.» Mi fa cenno di tornare da lui e si toglie la maglietta. Scorre verso il bordo del letto e mi fa sdraiare sopra di lui.
Il ritmo concitato dei nostri primi abbracci rallenta, e ora tra noi c’è meno rabbia, meno tensione. È bellissimo sedergli in grembo quand’è completamente nudo e pronto, e io indosso solo le mutandine.
«Ti amo», sussurra, le sue labbra sulle mie, mentre scosta le mutandine. «Ti… amo…»
Sussulto di piacere quando le sue dita si fanno strada in me. Le muove piano, troppo piano, e d’istinto inizio a dondolarmi per accelerare il ritmo.
«Brava piccola… cazzo… sei sempre così pronta per me.» Mi stupisce ancora la rapidità con cui il mio corpo reagisce a lui. Sa sempre cosa dire e cosa fare.
«D’ora in poi mi darai retta, giusto?» mi chiede, mordicchiandomi sul collo. «Dimmi che mi darai retta, o non ti lascio venire.»
Non può dire sul serio. «Hardin…» lo scongiuro, cerco di muovermi più velocemente ma lui mi ferma.
«Okay… okay… ma per favore.» Sorride soddisfatto. Vorrei prenderlo a schiaffi: si approfitta del mio momento di massima vulnerabilità per strapparmi una promessa. Ma non riesco a fare appello alla rabbia, smarrita come sono nel desiderio di lui.
«Per favore», ripeto.
«Brava», mi dice all’orecchio, e le sue dita ricominciano a muoversi, accompagnate dai miei fianchi.
Mi sento sempre più vicina al limite. Hardin mi bisbiglia cose sporche, che mi eccitano in modo indescrivibile. Mi aggrappo alle sue braccia per non cadere dal letto mentre mi dissolvo sotto il suo tocco.
«Apri gli occhi. Voglio vedere lo stato in cui solo io so ridurti», mi dice. Faccio del mio meglio per tenere gli occhi aperti mentre l’orgasmo mi travolge.
Lascio ricadere la testa sul suo petto e lo abbraccio cercando di riprendere fiato.
«Non riesco a credere che tu abbia provato a…» lo rimprovero, ma lui mi zittisce passandomi la lingua sul labbro inferiore. Ansimo, devo ancora riprendermi del tutto. Ma ho la prontezza di rendergli pan per focaccia: lo afferro con forza.
«Chiedimi scusa e ti darò ciò che vuoi», gli dico all’orecchio nel tono più seducente di cui sono capace.
«Cosa?» La sua espressione è impagabile.
«Mi hai sentita.» Senza tradire emozioni, continuo a dargli piacere con una mano mentre con l’altra mi accarezzo le mutandine bagnate.
Piagnucola quando lo strofino contro di me.
«Mi dispiace», sbotta, le guance arrossate. «Ma lasciati scopare… per favore.» Scoppio a ridere, ma mi interrompo quando lo vedo tirar fuori un incarto dal comodino. Si infila rapidamente il preservativo e ricomincia a baciarmi.
«Non so se sei pronta a farlo in questo modo, stando sopra di me. Se è troppo intenso dimmelo. Okay, piccola?» Ed ecco tornato l’Hardin dolce e premuroso.
«Okay», rispondo.
Mi solleva leggermente e il preservativo mi struscia sulla pelle, e poi mi sento riempire quando lui mi abbassa su di sé.
«Oh mamma», dico, e chiudo gli occhi.
«Tutto bene?»
«Sì… è solo… diverso.»
Fa male; non quanto la prima volta, ma è ancora una sensazione spiacevole ed estranea. Tengo gli occhi chiusi e muovo un po’ i fianchi, cercando di alleviare la pressione.
«Bello, diverso o brutto?» Ha la voce tirata e gli si è gonfiata una vena sulla fronte.
«Ssst… smettila di parlare.»
Emette un gemito di piacere e si scusa, mi promette di lasciarmi un minuto per abituarmi. Non so quanto tempo passa, ma poi ricomincio a muovere i fianchi. Più mi muovo e più il fastidio si allevia, e Hardin mi stringe i fianchi e mi tira più vicina a sé. Gli poso una mano sul petto per reggermi quando iniziano a stancarmisi le gambe. Ignoro il bruciore ai muscoli e continuo a cavalcarlo in questo modo. Tengo gli occhi aperti per guardarlo; una goccia di sudore gli scorre sulla fronte. Vederlo così, con il labbro stretto tra i denti, gli occhi fissi sul mio viso tanto che sento il suo sguardo bruciarmi addosso, è travolgente.
«Sei tutto per me. Non posso perderti», dice mentre gli bacio il collo e la spalla. Ha la pelle salata, umida, perfetta. «Manca poco, piccola. Sei così brava.» Geme ancora e mi accarezza la schiena mentre cerco di prendere velocità. Intreccia le dita alle mie e l’intimità di quel gesto mi rende debole. Adoro il modo in cui mi incoraggia, e adoro lui.
Hardin mi posa una mano sulla nuca e continua a sussurrarmi quanto sono importante per lui mentre il suo corpo si irrigidisce. Lo fisso, consumata dalle sue parole e dal suo pollice che mi stuzzica il clitoride, regalandomi un altro orgasmo. I nostri gemiti si intrecciano insieme ai nostri corpi mentre entrambi raggiungiamo il culmine. Hardin si lascia ricadere all’indietro sul letto e io con lui.
«Sono contenta che tu mi abbia seguita giù per le scale», dico infine, dopo un silenzio lungo ma piacevole. Gli appoggio la testa sul petto e sento rallentare progressivamente il battito del suo cuore.
«Anch’io. Non avrei dovuto, ma non sono riuscito a resistere. Mi dispiace di averti cacciata. So essere stronzo, a volte.»
«A volte?»
«Cinque minuti fa non ti stavi lamentando, mi pare.»
Ridacchio, scuoto la testa e torno a posarla sul suo petto sudato. Vedo che gli sta venendo la pelle d’oca vicino al tatuaggio a forma di cuore che ha sulla spalla. Il cuore è interamente riempito di inchiostro nero.
«Solo perché sei più bravo in quelle cose che nel portare avanti una relazione.»
«Questo non posso negarlo.» Mi scosta i capelli dal viso. Adoro quando mi accarezza la guancia: ha le dita ruvide, ma sulla mia pelle sembrano seta, non so perché.
«Cos’è successo tra te e Dan? Prima di stasera, voglio dire.»
«Eh? Chi ti ha detto che avevo un problema con Dan?» Mi alza il mento perché lo guardi.
«Jace. Non mi ha spiegato di cosa si tratta, ha detto solo che era da un po’ che doveva succedere. Cosa intendeva?»
«Ah, una cazzata che è successa l’anno scorso. Niente di cui tu debba preoccuparti, te l’assicuro.» Il sorriso non gli arriva agli occhi, ma non mi va di insistere. Sono contenta che ci siamo chiariti, per una volta, e che stiamo diventando più bravi a comunicare.
«Domani ci vediamo appena esci dalla Vance, vero? Non voglio che qualcuno ci soffi l’appartamento da sotto il naso.»
«Non abbiamo mobili», osservo.
«È già arredato. Ma possiamo aggiungere o cambiare quello che vuoi.»
«Quanto costa?» chiedo. Non voglio sapere la risposta. Posso solo immaginare quanto sarà caro, se è anche arredato.
«Non preoccuparti, l’unica cosa che ti riguarda è il costo dell’abbonamento alla tv via cavo.» Sorride e mi bacia sulla fronte. «Allora, che ne dici? Sei ancora convinta di volerlo fare, sì?»
«E la spesa. Ma sì, sono ancora convinta.»
«Pensi di dirlo a tua madre?»
«Non lo so. Prima o poi glielo dirò, ma so già come reagirà. Forse dovrei prima aspettare che si abitui all’idea che stiamo insieme. Siamo così giovani e già andiamo a convivere, non voglio farla finire in manicomio.» Rido, nonostante la fitta di dolore al petto. Vorrei che le cose fossero più semplici con mia madre, che lei potesse essere felice per me, ma so che è improbabile.
«Mi dispiace che le cose vadano così tra voi. So che è colpa mia, ma sono troppo egoista per sacrificarmi e lasciarti.»
«Non è colpa tua. È lei che… be’, è fatta così.» Lo bacio sul petto.
«Devi dormire, piccola. È quasi mezzanotte, e domattina devi alzarti presto.»
«Mezzanotte? Credevo fosse molto più tardi.» Mi rotolo giù da lui e mi sdraio sul letto.
«Be’, se tu non fossi così stretta sarei durato più a lungo.» «Buonanotte!» esclamo imbarazzata.
Lui ride, mi bacia sulla nuca e spegne la luce.
86
LA mattina dopo, molto presto, mi aggiro per la stanza di Hardin radunando il necessario per la doccia.
«Vengo con te», borbotta assonnato.
«No che non vieni», rido. «Sono solo le sei. Che ne è stato della tua regola delle sette e mezzo?»
«Ti accompagno.» Adoro la voce roca che ha quand’è appena sveglio.
«Mi accompagni dove? Al bagno?» esclamo divertita, guardandolo alzarsi dal letto.
«Sono cresciutella, posso arrivare in fondo al corridoio da sola.»
«Finora te la stavi cavando benissimo in questa faccenda del darmi retta.»
«E va bene, papino, accompagnami in bagno.» Per il momento posso anche stare al gioco.
Mi guarda strano. «Non chiamarmi mai più così, altrimenti dovrò riportarti a letto.» Mi fa l’occhiolino. Mi precipito fuori dalla stanza prima di cedere alla tentazione.
Mi segue e si siede sulla tazza mentre faccio la doccia. «Dovrai prendere la mia macchina», dice. «Mi farò dare un passaggio al campus per recuperare la tua e andare all’appartamento.»
Ieri sera non avevo riflettuto su questo punto. È davvero strano per me, che di solito pianifico tutto fino all’ultimo dettaglio. «Mi lasci guidare la tua macchina?» chiedo, sorpresa.
«Sì. Ma se me la distruggi non farti più vedere.»
Ho paura che non stia scherzando. Ma rido lo stesso. «Piuttosto dovrei temere che tu distrugga la mia!»
Cerca di aprire la tenda della doccia, ma gliela richiudo in faccia.
«Pensa, piccola: da oggi in poi farai la doccia nel tuo bagno ogni mattina», fa notare mentre mi risciacquo i capelli.
«Me ne renderò conto fino in fondo solo quando saremo davvero lì.»
«Aspetta di vedere l’appartamento: ti piacerà tantissimo.»
«Hai detto a qualcuno che prendi un appartamento?» chiedo, sapendo già la risposta. «No, perché dovrei dirlo a qualcuno?»
«Non lo so, era una curiosità.»
Mi porge un asciugamano mentre esco dalla doccia.
«Ti conosco abbastanza bene da sapere che mi accusi di non rivelare ai miei amici che andiamo a convivere», dice.
Non ha torto. «Be’, mi sembra un po’ strano che tu te ne vada da qui e nessuno lo venga a sapere.»
«Tu non c’entri niente, è solo che non voglio sentire le loro stronzate quando annuncerò di voler uscire dalla confraternita. Racconterò tutto a tutti – anche a Molly – dopo che ci saremo trasferiti.» Sorride e mi abbraccia.
«Voglio dirlo io a Molly», rido.
«Affare fatto.»
Dopo aver tentato ripetutamente di scrollarmelo di dosso mentre mi preparo, prendo le chiavi che mi porge ed esco. Appena salgo in macchina sento vibrare il telefono.
Sta’ attenta. Ti amo.
Starò attenta. E tu sta’ attento con la mia macchina. :) Ti amo. Xxx
Non vedo l’ora di stare di nuovo con te. Ci vediamo alle cinque. Il tuo macinino starà benissimo.
Attento a cosa dici, o potrei andare a sbattere per errore contro un parchimetro.
Sorrido mentre invio il messaggio.
Smettila di assillarmi e va’ a lavorare, prima che venga lì e ti strappi il vestito di dosso.
È una prospettiva allettante, ma rimetto il telefono sul sedile del passeggero e avvio il motore. Si accende con un sibilo basso, anziché con un rombo come la mia macchina. Per essere un’auto d’epoca è molto più facile della mia da guidare; Hardin se ne prende cura.
Quando imbocco l’autostrada squilla il telefono.
«Accidenti, non sai stare venti minuti senza di me?» rido.
«Tessa?» dice una voce maschile. Noah.
Abbasso il telefono dall’orecchio per guardare il display e ho la terribile conferma che è proprio lui.
«Ah… scusa… pensavo che…» balbetto.
«Pensavi che fosse lui… lo so.» Nella sua voce non c’è odio, soltanto tristezza.
«Mi dispiace.» Non lo nego.
«Non fa niente.»
«Allora…» Non so bene cosa dire.
«Ieri ho visto tua madre.»
«Ah.» Il dolore nella sua voce e il ricordo dell’odio di mia madre per me mi danno una fitta al petto.
«Sì… è piuttosto arrabbiata con te.»
«Lo so… ha minacciato di non pagarmi più il college.»
«Le passerà, ne sono sicuro. È solo che si sente ferita.»
«Ferita? Lei? Mi prendi in giro, vero?» Non riesco a credere che la stia difendendo.
«No, no… So che sta affrontando la cosa nel modo sbagliato, ma è solo arrabbiata perché tu… be’, sai… perché stai con lui.» Il disgusto traspare chiaramente dalla sua voce.
«Be’, non spetta a lei dirmi con chi devo stare. È per questo che mi hai chiamata? Per dirmi che non devo stare con lui?»
«No, no, Tessa, non è per questo. Volevo solo controllare che tu stessi bene. Non eravamo mai stati così tanto senza parlarci, da quando avevamo dieci anni.» Immagino la sua espressione contrariata.
«Ah… Mi dispiace se sono stata brusca. È solo che ho un mucchio di pensieri, al momento, e credevo che tu chiamassi per…»
«Solo perché non stiamo più insieme non vuol dire che non ti aiuterei se tu ne avessi bisogno.» Mi si stringe il cuore. Noah mi manca; non la mia relazione con lui, ma il fatto che sia stato una parte così importante della mia vita fin da quand’ero bambina, ed è difficile rinunciarci. È rimasto al mio fianco per tutto questo tempo, e io l’ho fatto soffrire, e non l’ho neppure chiamato per spiegarmi o chiedere scusa. Mi sento molto in colpa per come ho lasciato le cose con lui. Mi viene da piangere.
«Mi dispiace per tutto, Noah.» Sospiro.
«Andrà tutto bene», risponde lui, a voce altrettanto bassa. Ma poi, come se volesse cambiare argomento, soggiunge: «Ho sentito che stai facendo uno stage», e continuiamo a parlarne finché arrivo alla Vance.
Noah promette che tenterà di far ragionare mia madre, e mi sembra che un peso enorme mi sia stato sollevato dalle spalle. Se c’è qualcuno che riesce a calmarla quando dà di matto, quello è Noah.
Il resto della giornata passa senza intoppi. Finisco di leggere il mio primo inedito e redigo una scheda di valutazione per Mr Vance. Io e Hardin ci scambiamo qualche messaggio per stabilire dove incontrarci.
Quando arrivo all’indirizzo che mi ha dato Hardin, mi stupisco di constatare che è più o meno a metà strada tra il campus e la Vance. Se vivessi qui… quando vivrò qui, ci metterò solo venti minuti per andare al lavoro. Mi sembra ancora un’idea così astratta, convivere con Hardin.
Entrando nel parcheggio non vedo la mia macchina, e quando provo a chiamare Hardin risponde la segreteria. E se ha cambiato idea? Me lo direbbe, vero?
Proprio mentre sta per assalirmi il panico, lo vedo arrivare con la mia macchina e parcheggiare accanto a me. Ma c’è qualcosa di strano: la vernice metallizzata è liscia e uniforme, sembra nuova.
«Che hai fatto alla mia macchina?» gli chiedo quando scende.
«Sì, anche per me è bello rivederti.» Sorride e mi bacia sulla guancia.
«Davvero, cosa le hai fatto?» Incrocio le braccia.
«Ho fatto riverniciare la carrozzeria. Cazzo, potresti anche ringraziarmi.»
Mi mordo la lingua, ma solo per via di dove siamo e di cosa stiamo per fare. D’altronde la vernice nuova è proprio bella. Solo che non mi piace l’idea che Hardin spenda soldi per me, e riverniciare una macchina non costa poco.
«Grazie.» Lo prendo per mano.
«Prego. Ora entriamo.» Mi conduce attraverso il parcheggio. «Sei proprio bella al volante della mia macchina, soprattutto con quel vestito. È da stamattina che non smetto di pensarci. Vorrei che tu avessi esaudito la mia richiesta di inviarmi foto di nudo.» Gli do una gomitata. «Be’, avrebbero reso la lezione molto più interessante.» «Ah, quindi ci sei andato, a lezione», dico ridendo.
Senza replicare, mi tiene aperto il portone del palazzo. «Eccoci arrivati.»
Sorrido per quella gentilezza inaspettata ed entro. L’atrio dell’edificio è molto diverso da come lo immaginavo. È tutto bianco: pavimenti, pareti, sedie, divani, tappeti, lampade su tavolini trasparenti. Ha un’aria elegante, ma incute molta soggezione. Un uomo basso e stempiato in giacca e cravatta ci accoglie e stringe la mano di Hardin. Sembra teso, forse è Hardin a innervosirlo.
«Tu devi essere Theresa.» Mi sorride: anche i suoi denti sono bianchissimi come il resto.
«Tessa», lo correggo con un sorriso.
«Piacere. Passiamo subito alle firme?»
«No, prima lei vuole vederlo. Come facciamo a firmare, se non l’ha ancora visto?» dice Hardin in tono incolore.
Il pover’uomo annuisce. «Certo, andiamo di sopra.» Ci indica un corridoio.
«Fa’ il bravo», bisbiglio a Hardin mentre andiamo agli ascensori.
«No.» Mi fa un ghigno e mi dà un pizzicotto sul sedere.
Lo guardo male, ma il suo sorriso non fa che allargarsi. L’uomo mi spiega che da lassù c’è una splendida vista, e che questo è uno dei condomini più prestigiosi della zona. Hardin resta in silenzio mentre usciamo dall’ascensore. Resto colpita dal contrasto tra l’atrio e il pianerottolo: sembra di essere in un altro edificio… anzi, in un’altra epoca.
«Eccolo», dice l’uomo, aprendo la prima porta dopo l’ascensore. «A questo piano ci sono solo cinque appartamenti, quindi avrete molta privacy.» Ci fa cenno di entrare, ma non guarda Hardin negli occhi. Ha chiaramente paura di lui. Non lo biasimo, ma è buffo da guardare.
Quando entro mi si mozza il fiato. La zona giorno ha una pavimentazione dall’aria vissuta, tranne per un largo quadrato di parquet, che immagino sia il salotto. Le pareti hanno bellissimi mattoni a vista. Le finestre sono grandi e i mobili antiquati ma puliti. Se potessi disegnare il mio appartamento ideale sarebbe proprio così. È un tuffo nel passato, in un certo senso, ma è anche decisamente moderno.
Hardin mi guarda attentamente per sondare le mie reazioni mentre esploro le varie stanze. La cucina è piccola, con piastrelle colorate sopra il lavello e i banconi che le danno un’aria spiritosa. Adoro ogni dettaglio di questo posto. L’atrio mi aveva spaventata, quindi mi aspettavo di detestare l’appartamento: invece no, per fortuna. Il bagno non è enorme ma è abbastanza spazioso per noi due, e la camera da letto è perfetta come il resto. Tre pareti sono in mattoni e la quarta è coperta da librerie che arrivano fino al soffitto. C’è anche una scaletta a pioli attaccata agli scaffali, e mi viene da ridere: perché avevo sempre fantasticato una cosa del genere per la mia prima casa dopo il college. Non pensavo di ottenerla così presto.
«Potremmo riempire questi scaffali, ho un sacco di libri», borbotta nervoso Hardin.
«Io… io…» balbetto.
«Non ti piace, vero? Speravo di sì, mi sembrava perfetto per te. Accidenti!» «No… io…»
«Allora andiamo, ce ne faccia vedere un altro», sbotta rivolto all’uomo.
«Hardin! Se mi lasciassi finire, ti direi che lo adoro», riesco a esclamare.
L’uomo pare sollevato quanto Hardin, che sfodera un largo sorriso. «Davvero?»
«Sì, temevo di vedere una casa lussuosa ma fredda, e invece è perfetta!»
«Lo sapevo! Be’, un momento fa ero nervoso, ma appena ho visto questo posto ho pensato a te. Ti immaginavo lì…» Indica la panchina sotto la finestra. «Seduta a leggere un libro. In quel momento ho capito che volevo vivere qui con te.»
Ho un tuffo al cuore nel sentirgli dire una cosa del genere davanti a un agente immobiliare.
«Allora siamo pronti per firmare?» chiede l’uomo, nervoso.
Hardin mi guarda e io faccio segno di sì. Non mi capacito che stia succedendo davvero. Ignoro la vocetta nella testa che mi ripete che è troppo presto, che sono troppo giovane, e seguo Hardin in cucina. 
87
HARDIN firma in fondo a un foglio che mi sembra lunghissimo e poi me lo passa. Prendo la penna e firmo prima che mi vengano altri dubbi. Sono pronta per questo; siamo pronti. Sì, siamo giovani e non ci conosciamo da molto, ma so di amarlo più di ogni altra cosa, e che lui ama me. Questo è l’importante; il resto si sistemerà.
«Bene, ecco le vostre chiavi», dice Robert (scopro il suo nome dai moduli che abbiamo firmato), porgendo a me e a Hardin un mazzo di chiavi ciascuno. Ci saluta e se ne va.
«Be’… benvenuta a casa!» esclama Hardin quando restiamo soli.
Rido e vado ad abbracciarlo. «Non ci credo ancora che abitiamo qui.» Mi guardo intorno nel salotto.
«Se qualcuno mi avesse detto due mesi fa che sarei andato a convivere con te – o anche solo che mi sarei messo con te – sarei scoppiato a ridere o gli avrei tirato un pugno.» Sorride e mi prende il viso tra le mani.
«Be’, sei proprio dolce. È un sollievo, però, avere uno spazio tutto nostro. Niente più feste, niente più compagni di stanza e docce in comune.»
«Il nostro letto», aggiunge lui facendomi l’occhiolino. «Ci serviranno alcune cose, piatti eccetera.»
Gli poso il dorso della mano sulla fronte. «Ma ti senti bene? Oggi sei incredibilmente collaborativo.»
Mi prende la mano e la bacia. «Voglio solo che tu sia soddisfatta di tutto. Voglio che tu ti senta a casa… con me.»
«E tu? Ti senti a casa qui?» «Strano a dirsi, ma sì.»
«È meglio che andiamo a prendere la mia roba. Ho solo un po’ di libri e vestiti», gli faccio notare.
Agita le braccia come un prestigiatore. «Già fatto.»
«Eh?»
«Ho portato qui la tua roba dal dormitorio; è tutto nel bagagliaio della tua macchina.»
«Come facevi a sapere che avrei firmato? E se l’appartamento non mi piaceva?» sorrido. Avrei voluto dire addio a Steph e alla stanza in cui ho vissuto in questi mesi, ma la rivedrò presto.
«Se questo non ti fosse piaciuto, ne avrei trovato un altro.»
«Okay… E le tue cose?»
«Possiamo andare a prenderle domani. Ho un po’ di vestiti in macchina.»
«A proposito, perché tieni sempre tutti quei vestiti in macchina?»
«Non lo so. Forse perché non puoi mai sapere quando ti serviranno.» Fa spallucce.
«Andiamo a comprare la roba che ci serve per la cucina e qualcosa da mangiare.»
«Posso guidare la tua macchina anche stavolta?» chiedo mentre scendiamo al piano terra.
«Non lo so…» sorride.
«Mi hai riverniciato la macchina senza permesso, penso di essermi guadagnata questo diritto.» Gli porgo la mano aperta, lui esita un attimo ma poi mi consegna le chiavi. «Allora ti piace la mia macchina? Si guida bene, vero?»
«Non è male.»
È una bugia: si guida benissimo.
La nostra nuova casa è circondata da negozi, caffetterie… c’è persino un parco. Andiamo in un grande magazzino e riempiamo un carrello di piatti e pentole, tazze e posate. Rimandiamo la spesa al supermercato perché abbiamo già comprato tanta roba. Mi offro volontaria per andarci domani dopo lo stage, se Hardin mi prepara una lista dei suoi piatti preferiti. Finora, la cosa più bella di vivere insieme sono le piccole cose che sto scoprendo su di lui e che altrimenti non avrei mai saputo. È così avaro di informazioni. Passiamo insieme quasi tutte le notti, ma solo comprando piatti e bicchieri per la nostra casa riesco a scoprire qualcosa di concreto. Per esempio: gli piacciono i cereali senza latte; l’idea di avere tazze spaiate lo irrita; usa due dentifrici diversi, uno la mattina e uno la sera, e non sa perché; e preferirebbe passare lo straccio sui pavimenti cento volte piuttosto che caricare una sola lavastoviglie. Ci accordiamo: della lavastoviglie mi occupo io, ma i pavimenti li lava lui.
Al momento di pagare bisticciamo davanti alla cassiera. Voglio pagare io, perché lui ha versato l’anticipo per l’affitto. Ma lui si rifiuta di farmi contribuire per qualsiasi cosa che non sia la tv via cavo e la spesa. All’inizio si era offerto di lasciarmi pagare la bolletta della luce, ma non mi aveva detto che era già inclusa nell’affitto finché l’ho scoperto leggendo il contratto. Il contratto. Ho firmato un contratto d’affitto per un appartamento in cui sto andando a vivere con un uomo, al primo anno di università. Non è una pazzia, vero?
La cassiera prende il mio bancomat, Hardin la guarda malissimo ma per fortuna lei non lo degna di uno sguardo e passa la carta nel lettore. Vorrei gridare vittoria, ma Hardin è già irritato e non voglio rovinarci la serata.
Tiene il muso finché torniamo all’appartamento, e io resto in silenzio perché la cosa mi diverte. «Potrebbero volerci due viaggi per portare su tutta la roba», gli dico.
«Ecco un’altra cosa: preferisco portare cento sacchetti che fare due viaggi», ribatte, e finalmente sorride.
Alla fine dobbiamo davvero fare due viaggi, perché i piatti sono troppo pesanti. Hardin è sempre più irritato, io sghignazzo sempre di più.
Riponiamo i piatti nei pensili e Hardin ordina una pizza. Quando mi offro di pagare anche quella, lui mi mostra il dito medio.
«La pizza arriva tra mezz’ora. Scendo a prendere la tua roba», dice. «Vengo anch’io.»
Ha sistemato le mie cose in due scatoloni e un sacco della spazzatura, dove infila anche un paio dei suoi jeans e alcune magliette che teneva nel portabagagli.
«Meno male che abbiamo un ferro da stiro», commento. Poi noto qualcos’altro. «Non hai più buttato quelle lenzuola?»
«Ah… già. No. Volevo farlo ma mi sono dimenticato.» Distoglie lo sguardo.
«Okay…» Che strana reazione.
Portiamo tutto di sopra, e proprio quando arriviamo in casa suona il citofono. Hardin scende a prendere la pizza, e al suo ritorno si diffonde un profumino squisito. Non mi ero resa conto di quanta fame mi fosse venuta.
È strano ma bello cenare con Hardin a casa nostra. Divoriamo la pizza, che è buonissima, in silenzio, ma è un silenzio piacevole, che mi fa sentire a casa.
«Ti amo», dice lui mentre carico la lavastoviglie.
Mi giro e rispondo «Ti amo», e in quel momento sento vibrare il telefono sul tavolo.
Hardin controlla sullo schermo: «Chi è?» gli chiedo.
«Noah?» la sua è una risposta e una domanda insieme.
«Oh.» So già che non finirà bene.
«Dice che ‘è stato bello parlare con te’?» Si irrigidisce. Vado a prendere il telefono, praticamente strappandoglielo di mano nel timore che voglia stritolarlo.
«Sì, oggi mi ha chiamata», gli spiego, ostentando una sicurezza che non provo. Gliel’avrei detto, è solo che non ho trovato il momento giusto.
«E…»
«Voleva solo dirmi che ha visto mia madre e sapere come stavo.»
«Perché?»
«Non lo so… perché ci teneva a saperlo, immagino.» Mi siedo a tavola con lui.
«Non c’è bisogno che controlli come stai», ringhia.
«Che problema c’è, Hardin? Lo conosco da quand’ero bambina.»
Mi rivolge uno sguardo freddo. «Non me ne frega un cazzo.»
«Ora sei ridicolo. Siamo appena andati a convivere e sei preoccupato perché Noah mi telefona?» Sbuffo in una risata.
«Non hai motivo di parlare con lui. Ora penserà che lo rivuoi indietro, dato che hai risposto.»
«No. Sa che sto con te.» Mi sforzo di non perdere la pazienza.
Indica il telefono. «Allora chiamalo subito e digli di non chiamarti più.»
«Cosa? No. Non ha fatto niente di male. L’ho già fatto soffrire abbastanza… l’abbiamo fatto soffrire abbastanza… quindi no. Non lo farò. Non succede nulla se restiamo amici.»
«Sì invece. Lui si crede migliore di me, e cercherà di riconquistarti! Non sono stupido, Tessa. Anche tua madre vuole che tu stia con lui: non gli permetterò di portarmi via ciò che mi appartiene!»
Lo guardo esterrefatta. «Ma ti ascolti quando parli? Sembri pazzo! Non intendo trattare male Noah solo perché tu sei convinto di poter rivendicare la mia proprietà!» Mi precipito fuori dalla cucina.
«Non andartene mentre ti sto parlando!» grida, seguendomi in salotto.
Ti pareva che Hardin non avrebbe provocato un litigio, dopo una giornata così bella? Ma stavolta non cedo. «Allora smettila di trattarmi come un oggetto che ti appartiene.
Cercherò di ascoltarti di più, ma non quando parli di Noah. Smetterei immediatamente di rivolgergli la parola se provasse a riconquistarmi o dicesse qualcosa di inappropriato, ma
finora non l’ha fatto. E poi, è chiaro che devi imparare a fidarti di me.»
Mi fissa, e forse si sta calmando, perché ribatte semplicemente: «Non mi piace».
«Okay, questo l’ho capito, ma devi essere ragionevole. Non sta tramando per portarmi via da te; non è fatto così. È la prima volta che si è messo in contatto con me da quando l’ho lasciato.»
«Ed è anche l’ultima!» sbraita. Mi giro ed entro in bagno. «Che fai?» mi chiede.
«Vado a fare la doccia, e quando esco spero che avrai smesso di comportarti in modo così infantile», dico. Sono orgogliosa di come gli sto tenendo testa, ma mi dispiace per lui. So che ha solo paura di perdermi; è così geloso per via dell’aspetto e dei modi di Noah. Sulla carta, Noah è più adatto a me rispetto a lui, e Hardin lo sa; ma io non amo Noah, amo Hardin.
Mi segue in bagno, ma quando inizio a spogliarmi si gira e se ne va, sbattendo la porta. Faccio una rapida doccia e una volta fuori lo trovo sdraiato sul letto con indosso solo i boxer. In silenzio, apro un cassetto per cercare il pigiama.
«Non ti metti la mia maglietta?» chiede a voce bassa.
«Io…» Vedo che l’ha piegata e posata sul comodino. «Grazie.» Me la infilo. Il familiare profumo di menta mi fa quasi dimenticare che sono arrabbiata con lui. Ma quando lo guardo, e lo vedo accigliato, ricordo fin troppo bene. «Be’, è stata proprio una bella serata», sbuffo, e vado a posare l’asciugamano in bagno.
«Vieni qui», mi dice quando torno.
Mi avvicino titubante, ma lui si alza a sedere sul bordo del letto e mi tira a sé, in piedi tra le sue gambe.
«Mi dispiace.» Alza gli occhi su di me.
«Di?…»
«Di essermi comportato come un cavernicolo.» Mi viene da ridere. «E di aver rovinato la nostra prima sera nella nuova casa.»
«Grazie. Dobbiamo parlare di queste cose, senza fare scenate.»
«Lo so. Possiamo discutere del fatto che tu non devi parlare più con lui?»
«Non stasera», sospiro. Dovrò trovare un compromesso, ma non intendo rinunciare al mio diritto di parlare con una persona che conosco da sempre.
«Ma guarda come stiamo diventando bravi a risolvere i nostri problemi.» Fa una risatina amara.
«Spero che non abbiamo disturbato i vicini.»
«Oh, li avremmo disturbati comunque.» Sorride, e gli vengono le fossette; io decido di ignorare l’insinuazione.
«Non volevo rovinarti la serata, davvero.»
«Lo so. Non è rovinata. Sono solo le otto.» Sorrido.
«Volevo togliertelo io, quel vestito.»
«Potrei sempre rimettermelo», dico, cercando di fare una voce sexy. Lui si alza, mi solleva di peso e mi carica in spalla. Lancio uno strillo e mi metto a scalciare. «Cosa stai facendo?!»
«Andiamo a prendere quel vestito.» 
88
«È UN vero peccato non essere riuscito a toglierti quel vestito», mi sussurra all’orecchio mentre mi spinge più indietro sul letto. Appena mi sono tolta la sua maglietta, mi ha praticamente placcata sul letto e si è infilato il preservativo con una rapidità che non credevo possibile.
«Mmm…» è tutto ciò che riesco a dire mentre lui entra ed esce da me. Per la prima volta fare l’amore non mi fa male, mi dà solo piacere.
«Dio, piccola… mi fai stare così bene», geme dondolando i fianchi contro i miei. È una sensazione indescrivibile. Le mie gambe divaricate accolgono alla perfezione il suo corpo snello, il contatto tra la sua pelle accaldata e la mia mi fa impazzire. Vorrei rispondere, dirgli cose sporche come lui le dice a me, ma sono già smarrita in lui e nel piacere che mi scuote.
Mi aggrappo a Hardin, gli affondo le unghie sulla schiena, lui chiude gli occhi e ha un’espressione estasiata. Adoro vederlo in questo stato, così fuori controllo, così primordiale. Mi prende una gamba e se la tira sopra il fianco, per avvicinare ancora di più il suo corpo al mio. Guardarlo mi sospinge verso il limite: mi si contraggono le dita dei piedi, sento i muscoli irrigidirsi, mugolo il suo nome.
«Ecco, piccola… vieni per me… fammi vedere quanto… oh, cazzo… quanto ti faccio stare bene», balbetta, e lo sento tremare dentro di me. Viene pochi secondi prima di me, ma continua a scuotersi in un ritmo perfetto finché anch’io sono appagata. Mi lascio ricadere sul letto, completamente rilassata, e lui si sdraia sopra di me. Restiamo in silenzio, a goderci questa unione completa, e in pochi minuti Hardin si addormenta.
Per la prima volta in vita mia mi sento libera, mi sembra ancora strano avere una casa tutta mia con una doccia, una cucina in cui fare il caffè. Condividere tutto questo con Hardin non fa che migliorare le cose. Scelgo l’abito blu scuro in pizzo sangallo e le scarpe bianche. Sto diventando più brava a camminare con i tacchi, ma tengo sempre le espadrillas in borsa per sicurezza. Arriccio i capelli e li raccolgo in uno chignon, e mi trucco persino un po’. Mi piace avere uno spazio tutto mio.
Hardin non vuole proprio alzarsi; resta sveglio il tempo necessario per baciarmi prima che me ne vada. Non capisco dove trovi il tempo di studiare e lavorare: non l’ho mai visto fare nessuna delle due cose. Decido di andare in casa editrice con la sua macchina: se non va a lezione non ne avrà bisogno, giusto? Avevo dimenticato che ora abito molto più vicino alla Vance. Devo proprio ringraziare Hardin per la sua lungimiranza, anche se il tragitto verso l’università si è allungato. La giornata inizia molto meglio se non devi guidare per quaranta minuti.
Quando arrivo all’ultimo piano Kimberly sta disponendo le ciambelle in fila sul tavolo della sala riunioni.
«Ehi, Tessa! Ma guardati! Il blu scuro è proprio il tuo colore!» Mi rivolge un fischio di apprezzamento, facendomi arrossire. Mi sento un po’ in imbarazzo, ma il suo sorriso mi rasserena. Ultimamente, grazie a Hardin, mi sento molto più sexy e sicura di me.
«Grazie, Kimberly», le dico, prendendo una ciambella e una tazza di caffè. Squilla il telefono e lei corre a rispondere.
Quando entro nel mio ufficio trovo un’email di Mr Vance che elogia la mia scheda di valutazione del manoscritto: dice che la casa editrice ha deciso di non pubblicarlo, ma non vede l’ora di leggere la mia prossima scheda. Mi tuffo nel lavoro.
«Una storia appassionante?» La voce di Hardin mi riscuote dalla concentrazione. Alzo gli occhi, sconcertata, e lui mi sorride. «Immagino di sì, dato che non mi hai sentito arrivare.»
È bellissimo: i capelli sono sollevati sul davanti come al solito, ma più piatti sui lati, e indossa una maglietta bianca con lo scollo a V, più aderente del normale, da cui traspaiono i tatuaggi. È così sexy, ed è tutto per me.
«Allora, com’è stato il tragitto in macchina?» chiede con un ghigno.
«Molto piacevole», ridacchio.
«Perciò pensi di potermi sottrarre la macchina senza permesso?» Non capisco se scherza o meno.
«Io… be’…» balbetto.
Non aggiunge altro, ma si avvicina alla scrivania e tira indietro la sedia con me sopra. Mi squadra dalle scarpe su fino al viso e poi mi tira in piedi. «Sei così sexy, oggi.» Mi bacia sul collo.
Rabbrividisco. «Cosa… cosa ci fai qui?»
«Non sei felice di vedermi?» Mi solleva e mi mette a sedere sulla scrivania.
«Sì… certo che sì.» Sono sempre felice di vederlo.
«Potrei decidere di tornare a lavorare qui, così potrei fare questa cosa tutti i giorni», dice posandomi le mani sulle cosce.
«Potrebbe entrare qualcuno», gli faccio notare, cercando di assumere un tono severo, ma mi trema la voce.
«No, Vance è in riunione per tutto il pomeriggio e Kimberly dice che ti chiama se ha bisogno di te.»
L’idea che Hardin le abbia lasciato intendere cosa avremmo potuto fare qui dentro mi fa avvampare, ma gli ormoni prendono il sopravvento. Guardo verso la porta.
«Chiusa a chiave», fa lui, spavaldo.
Senza riflettere lo tiro a me e gli poso immediatamente una mano sul pube, sopra i jeans. Lui fa un gemito, se li slaccia e li tira giù insieme ai boxer.
«Sarà una cosa più rapida del solito, okay, piccola?» dice scostandomi le mutandine.
Impaziente, mi lecco le labbra. Gli bacio il collo mentre lui mi tira per i fianchi verso il bordo del tavolo e strappa l’incarto del preservativo.
«Guardati: pochi mesi fa saresti arrossita a sentir parlare di sesso, e ora ti lasci scopare sulla tua scrivania», bisbiglia, e affonda in me.
Mi tappa la bocca con la mano. Non mi capacito ancora che stiamo facendo sesso nel mio ufficio, a pochi metri da Kimberly. Detesto ammetterlo, ma l’idea mi fa impazzire di piacere.
«Riesci a… non fare… rumore?» ansima lui, muovendosi sempre più veloce. Mi aggrappo ai suoi bicipiti per non cadere dalla scrivania.
«Ti piace così, vero? Forte e veloce?» Digrigna i denti. Io mordo piano il palmo della sua mano per non fare rumore. «Rispondimi o mi fermo», minaccia.
Annuisco, incapace di parlare.
«Lo sapevo», dice. Mi fa girare a pancia in sotto sulla scrivania.
Oddio. Affonda di nuovo in me e inizia a muoversi lentamente, poi mi prende per i capelli e mi tira la testa all’indietro per baciarmi sul collo. Sento crescere la tensione e i suoi movimenti perdono ritmo… ormai siamo vicini. Con l’ultima spinta mi bacia sulla spalla. Alla fine mi aiuta a scendere dalla scrivania.
«È stato…» cerco di dire, ma lui mi zittisce con un bacio.
«Sì», dice tirandosi su i pantaloni.
Guardo l’orologio: sono quasi le tre. Un’altra giornata è passata in un soffio. «Sei pronta?» mi chiede.
«Per cosa? Sono solo le tre.»
«Christian ha detto che puoi uscire prima. Gli ho parlato un’ora fa.»
«Hardin! Non puoi chiedergli una cosa del genere! Questo stage è importante per me.»
«Rilassati, piccola. Ha detto che sarebbe rimasto via tutto il giorno, ed è stato lui a proporre di farti uscire prima.»
«Non voglio che qualcuno pensi che mi sto approfittando di questa opportunità.»
«Nessuno lo pensa. La tua media dei voti e il tuo lavoro parlano da soli.»
«Aspetta… allora perché non mi hai chiamata per dirmi che potevo tornare a casa?»
«Perché è dal primo giorno che sognavo di prenderti su questa scrivania.»
È un’assurdità, ma non posso negare che mi sia piaciuto. Non potrei mai rifiutargli niente, con quella maglietta e quei muscoli tatuati.
Mentre andiamo alle macchine Hardin si ripara gli occhi dal sole e dice: «Stavo pensando di andare a comprare i vestiti per quel maledetto matrimonio».
«Buona idea. Ma porto a casa io la tua macchina, lasciamo lì la mia e poi andiamo.» Entro senza lasciargli il tempo di protestare.
Dopo essere passati da casa andiamo al centro commerciale. Hardin fa i capricci come un bambino per tutto il tempo, e per fargli comprare una cravatta devo corromperlo con offerte sessuali. Alla fine prende un paio di pantaloni eleganti e una giacca nera, una camicia bianca e una cravatta nera. Semplici ma perfetti per lui. Si rifiuta di provarli, quindi posso solo sperare che gli stiano bene. Si aggrapperebbe a qualsiasi scusa per non andare al matrimonio, ma non glielo permetterò. Terminati gli acquisti per lui, tocca a me.
«Quello bianco», dice indicando un abito corto che gli mostro insieme a uno nero, più lungo. Karen mi ha spiegato che il tema del matrimonio è bianco e nero, e voglio attenermi alle sue indicazioni. A Hardin piaceva molto l’abito bianco che indossavo ieri, quindi decido di dargli retta. Purtroppo, però, con la scusa di portare alla cassa il vestito e le scarpe, lui li paga anche. Tento di protestare, ma la cassiera sorride arrendevole.
«Stasera devo lavorare, quindi non sarò a casa per cena», mi dice mentre usciamo dal negozio.
«Ah. Pensavo che tu lavorassi da casa.»
«È così, ma devo andare in biblioteca. Non farò tardi.»
«Ne approfitterò per fare la spesa.»
«Sta’ attenta e torna a casa prima che faccia buio.»
Mi prepara una lista di ingredienti da comprare e se ne va appena torniamo all’appartamento. Mi metto jeans e felpa e raggiungo a piedi il negozio di alimentari in fondo alla strada. Quando arrivo a casa metto via la spesa, studio un po’ e mi preparo la cena. Scrivo un messaggio a Hardin ma lui non mi risponde, perciò gli metto un piatto nel microonde così può riscaldarlo quando torna e mi siedo sul divano a guardare la televisione. 
89
AL risveglio impiego un istante a rendermi conto che sono ancora sul divano.
«Hardin?» dico, scrollandomi il plaid di dosso. Vado a controllare in camera da letto, ma lui non c’è.
Torno in salotto e controllo il telefono. Nessun messaggio, e sono le sette del mattino.
Lo chiamo, ma risponde la segreteria. Corro a preparare il caffè e vado a fare una doccia. Per fortuna mi sono svegliata in tempo, perché non avevo messo la sveglia. Non dimentico mai di mettererla.
«Dove sei?» dico a voce alta entrando nella doccia.
Mentre mi asciugo i capelli penso ai possibili motivi della sua assenza. Ieri sera credevo che il troppo lavoro gli avesse fatto perdere la cognizione del tempo, o che avesse incontrato un amico. Ma in biblioteca? Le biblioteche chiudono presto, e a una cert’ora chiudono anche i bar. La spiegazione più probabile è che sia andato a una festa. Mi convinco che sia andata proprio così. Una piccola parte di me teme ancora che ci sia stato un incidente, un’idea troppo dolorosa per rifletterci. Ma in fondo so che sta facendo qualcosa che non dovrebbe. Ieri andavamo d’amore e d’accordo, e poi lui esce e resta via tutta la notte?
Non sono dell’umore giusto per mettermi un vestito, perciò scelgo una vecchia gonna nera e una camicetta rosa. È una giornata nuvolosa, e quando arrivo alla Vance le nubi si sono fatte strada anche nella mia testa: sono infuriata. Chi cavolo si crede di essere, a passare la notte fuori senza neanche dirmelo?
Kimberly mi guarda perplessa quando passo davanti al tavolo delle ciambelle senza prenderne una, ma le rivolgo il mio miglior sorriso falso e vado in ufficio. Per tutta la mattina rileggo le stesse pagine senza capire cosa c’è scritto.
Qualcuno bussa alla porta, e il mio cuore manca un battito. Spero tanto che sia Hardin, per quanto sia arrabbiata con lui. Invece è Kimberly.
«Vuoi pranzare con me?» mi chiede con un sorriso.
Vorrei rifiutare, ma poi penso che starmene seduta lì a scervellarmi su dov’è finito il mio ragazzo non mi farà bene.
«Certo», rispondo.
Andiamo in un piccolo ristorante messicano dietro l’angolo. Siamo infreddolite, e Kimberly chiede un tavolo vicino a un termosifone. «Che tempaccio, già mi manca l’estate», osserva.
«Mi ero quasi dimenticata di quant’è freddo l’inverno», ribatto. L’autunno è passato in fretta, senza quasi che me ne accorgessi.
«Allora, come vanno le cose con Mister Tipo Tosto?»
«Be’…» Non so se ho voglia di raccontare i fatti miei a Kimberly. Non ho molte amiche. Nessuna, a dire il vero, a parte Steph, che non vedo quasi mai. Kimberly ha almeno dieci anni più di me, e forse può aiutarmi a capire come funziona la mente degli uomini. Guardo il soffitto, coperto di lampadine a forma di bottiglie di birra, e faccio un respiro profondo.
«Be’, non so bene come stiano le cose al momento. Ieri andava tutto a meraviglia, ma poi ieri sera non è tornato a casa. Era solo la seconda notte che passavamo nell’appartamento, e lui non è tornato.»
«Aspetta, aspetta… frena. Perciò voi due convivete?» domanda incredula.
«Sì… da mercoledì.» Cerco di sorridere.
«Okay, e stanotte non è rientrato a casa?»
«Esatto. Ha detto che doveva lavorare, andare in biblioteca, ma poi non è tornato.»
«E non pensi che gli sia successo qualcosa, vero?»
«No, penso proprio di no.» Sento che lo saprei, se lui non stesse bene. Come se ci fosse un legame invisibile tra noi.
«E non ti ha chiamata?»
«No. E non mi ha scritto messaggi.»
«Fossi in te gliela farei pagare. È inaccettabile.»
La cameriera passa a dirci che la nostra ordinazione è quasi pronta e a riempirmi il bicchiere d’acqua. Questa breve interruzione mi dà il tempo di riprendere fiato.
E poi Kimberly ricomincia, e quando capisco che non mi giudica, ma anzi mi difende, mi sento meglio. «Dico sul serio: devi fargli capire che non tolleri questi comportamenti, sennò continuerà. Il problema, con gli uomini, è che sono creature abitudinarie: se glielo permetti una volta, non riuscirai più a farlo cambiare. Deve sapere fin dall’inizio che non può fare stronzate del genere. È fortunato ad averti, perciò deve mettere la testa a posto.»
Ha ragione. Devo arrabbiarmi. Devo fargliela pagare, come dice Kimberly.
«E come faccio?» chiedo.
Ride. «Gliene dici quattro. A meno che non abbia un’ottima scusa, e immagino che in questo momento la stia inventando, appena entra in casa gli fai una bella lavata di capo.
Meriti rispetto, e se lui non ti rispetta devi costringerlo, oppure cacciarlo.» «Sembra così facile, detta da te», tento di scherzare.
«Ah, è tutt’altro che facile.» Ride ancora, poi si fa seria. «Ma devi farlo.»
Per il resto del pranzo parliamo del college e della sfortunata vita sentimentale di Kimberly, che scuote ripetutamente la testa facendo dondolare il caschetto biondo. Rido così tanto che mi vengono le lacrime. Il pranzo è buonissimo, sono contenta di essere uscita con lei anziché restare in ufficio a rimuginare.
Al ritorno, incontro Trevor in corridoio. Mi sorride e viene a salutarmi. «Ciao, Tessa.» «Ciao, come stai?»
«Bene. Fa freddissimo fuori. Sei molto carina oggi», commenta, senza guardarmi. Ho l’impressione che non volesse dirlo a voce alta. Sorrido e lo ringrazio. Lui si rifugia in bagno, chiaramente imbarazzato.
Il pomeriggio Kimberly mi invia per email link a video buffi per tentare di risollevarmi l’umore.
Non ho combinato niente per tutto il giorno, quindi mi porto a casa il dattiloscritto per lavorarci stasera.
Quando arrivo, la macchina di Hardin non è nel parcheggio. Mi torna la rabbia. Lo chiamo e lo insulto sulla segreteria telefonica, e stranamente mi sento già un po’ meglio. Ceno e preparo i vestiti per domani.
È incredibile che manchi solo un giorno al matrimonio. E se Hardin non torna per allora? Tornerà. No? Mi guardo intorno: l’appartamento è molto bello, ma sembra aver perso un po’ di fascino con l’assenza di Hardin.
Riesco a lavorare bene, e sto mettendo via il dattiloscritto quando la porta si apre. Hardin entra barcollando e va dritto in camera senza dire una parola. Lo sento lanciare gli anfibi sul pavimento e imprecare, probabilmente perché è caduto. Ripeto tra me le parole di Kimberly e mi preparo a sfogare tutta la rabbia che ho dentro.
«Dove cavolo eri?» grido entrando nella stanza. Hardin si è tolto la maglietta e si sta sfilando i pantaloni.
«Ciao anche a te», biascica.
«Sei ubriaco?» esclamo incredula.
«Forse.» Getta a terra i pantaloni.
Sbuffo, li raccolgo e glieli tiro addosso. «Abbiamo una sacca per il bucato», gli faccio notare, e lui ride.
Sta ridendo di me.
«Hai un bel coraggio, Hardin! Resti fuori tutta la notte e tutto il giorno senza neppure chiamarmi, e poi torni a casa ubriaco e mi prendi in giro?» grido.
«Smettila di urlare, mi scoppia la testa.» Si sdraia sul letto.
«Ti sembra divertente? È un gioco, per te? Se non vuoi prendere sul serio la nostra storia, perché mi hai chiesto di venire a vivere con te?»
«Non mi va di parlarne adesso. Stai esagerando. Vieni qui e lasciati ridare l’allegria.» Ha gli occhi iniettati di sangue. Allarga le braccia e mi guarda con un sorrisetto ubriaco sul viso perfetto.
«No, Hardin. Dico sul serio. Non puoi restare fuori tutta la notte senza darmi una spiegazione.»
«Merda, ti dai una calmata? Non sei mia madre. Piantala e vieni qui.» «Fuori», sbotto.
«Scusa?» Si alza a sedere. Ora ho la sua attenzione.
«Mi hai sentito, vattene. Non voglio essere la ragazza che sta a casa tutta la sera in attesa che il suo ragazzo torni. Mi aspettavo che trovassi almeno una scusa plausibile, invece non ci hai neppure provato! Stavolta non mi arrendo, Hardin. Ti perdono sempre troppo facilmente. Ma non stavolta. Quindi, o mi dai una spiegazione oppure te ne vai.» Incrocio le braccia, fiera di me stessa.
«Nel caso te ne fossi dimenticata, sono io che pago l’affitto qui; perciò se c’è qualcuno che se ne va, quella sei tu», dice fissandomi con aria inespressiva.
Abbasso lo sguardo sulle sue mani, posate sulle ginocchia: ha di nuovo le nocche spaccate e coperte di sangue secco.
Sto ancora cercando di farmi venire in mente una risposta. «Hai fatto a botte di nuovo?»
«È importante?»
«Sì, Hardin! È importante. È così che hai passato la notte? Facendo a botte con qualcuno? Non era vero che dovevi lavorare, giusto? Oppure è questo il tuo lavoro, picchiare la gente?»
«Eh? No, non è il mio lavoro, lo sai qual è il mio lavoro. Ho lavorato, solo che poi sono stato distratto.»
«Da cosa?»
«Niente. Mi stai sempre con il fiato sul collo, merda.»
«Cosa? E che ti aspettavi, rientrando in casa ubriaco dopo una notte e un giorno di assenza? Ho bisogno di risposte, Hardin, e mi sono stufata di non riceverle.» Lui mi ignora e si infila una maglietta. «Ero preoccupata per te, potevi almeno chiamarmi. Ero uno straccio, oggi, mentre tu eri in giro a bere e a fare chissà cosa. Mi stai creando dei problemi con lo stage, e questo non è accettabile.»
«Lo stage? Quello che ti ha procurato mio padre, vuoi dire?»
«Sei disgustoso.»
«È la verità.»
Com’è possibile che questa sia la stessa persona che due sere fa mi sussurrava «ti amo» credendo che dormissi?
«Non ti rispondo neppure, perché so che è quello che vuoi. Vuoi litigare, ma io non ci sto.» Prendo una maglietta ed esco di filato dalla stanza. Prima però mi giro verso di lui.
«Ma lasciati dire una cosa: se non metti la testa a posto, me ne vado.»
Mi sdraio sul divano, asciugo le lacrime e prendo la vecchia copia di Cime tempestose di Hardin. Vorrei tanto tornare in camera e costringerlo a spiegarmi tutto – dov’è stato, con chi, perché ha fatto a botte e con chi – ma mi obbligo a restare sul divano perché so che questa reazione gli darà più fastidio.
Ma mai quanto dà fastidio a me il controllo che lui esercita sulla mia vita.
90
A UN certo punto lo sento gridare: «No!!» Corro in camera e lo trovo che si dimena nel letto tutto sudato.

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