Capitolo 1: Al riparo di un olmo

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Non ci sono molte cose capaci di disturbare il solito, confortante stato di apatia che intorpidisce il mio quotidiano. Il buco nell'ozono, le cartoline, gli alcolici, i giocattoli, la televisione, gli aeroplani... tutto sembra essermi tremendamente indifferente.

Il discorso cambia quando entrano in gioco i libri, blocchi di carta sporca, macchiati da segni convenzionali che qualche egocentrico crede di aver messo nell'ordine giusto per avere successo e farsi accettare dal mondo. 

Anche gli autori mi lasciano indifferente, ma i mondi che hanno in testa, sono diversi dal mio e questo mi basta per essergli grata. 

È vero, non mi importa della televisione, ma Orwell mi ha fatto notare che può essere un mezzo per indottrinare le menti influenzabili, senza che se ne accorgano, nella privacy delle loro abitazioni; gli alcolici mi attraggono tanto quanto i quotidiani, tuttavia Bukowski riesce a rendere il whiskey uno dei mezzi per ''vivere talmente bene la nostra vita, che la morte tremerà a prenderci ''.

Le idee degli autori, che le condivida o meno, mi forniscono la via d'uscita da una realtà asciutta, ripetitiva, noiosa da far male. 

Oggi sono nello studio in rosso di Conan Doyle e apprezzo l'arguzia pungente di Mr Holmes, comodamente appoggiata al tronco di un olmo.

Di solito leggo nella mia stanza da letto, ma stamattina ho avuto un incidente... se si può definire tale. 

Alla fine non è successo niente parlando in senso concreto, ma i miei incubi stanno diventando sempre più frequenti, sempre più reali e credo sia chiaro che affrontare la realtà non è il mio forte.

Mi sto spostando in un ambiente indefinito, senza la minima idea di dove mi stia dirigendo, sento l'eco dei miei passi, ma non ci sono pareti in vista, né un vero e proprio pavimento. 

L'unica cosa che riesco a distinguere, è un barlume in lontananza. Mi sembra naturale decidere di provare a raggiungerlo. 

Cammino per degli interminabili minuti, ho il fiato corto e il cuore mi pulsa nelle orecchie.

Sono a pochi passi dalla luce, quando questa diventa improvvisamente accecante e in meno di un secondo mi ritrovo travolta da un'ondata di stupore e gelo.

Ora davanti a me c'è un cupo edificio a pianta quadrata, circondato da alte ringhiere; alle mie spalle un cancello imponente. Cerco di capire dove mi trovo e giro intorno all'edificio, esplorando cautamente il cortile. È spoglio ed impersonale, pare ancora più grigio ora che la neve acquosa si inizia a posare sull'erba e sul cemento. 

Tra le giunture dei grossi rettangoli grigi che costituiscono il pavimento, si formano dei sottili rivoli d'acqua che proseguono verso di me.

La neve ben presto si trasforma in una pioggia abbondante. All'aumentare del flusso, anche il colore dell'acqua si intensifica, trasformandosi gradualmente in un inquietante rosso veneziano. 

Più passa il tempo, più è difficile scoprire la provenienza di quel triste torrente: il sangue sembra arrivare da ogni direzione, nel giro di pochi minuti il pavimento ne è cosparso. 

Vago senza una meta per un po', prima di udire delle urla in lontananza. 

Mi metto a correre in direzione del suono, ad ogni falcata una generosa quantità di fredda fanghiglia scarlatta, si libra in aria all'impatto con le suole delle mie scarpe.

Le urla si fanno sempre più forti e frequenti mentre mi affretto a percorrere le scale all'ingresso dell'edificio. 

Arrivata alla sommità vedo una giovane donna, magra, curva e trasandata, indossa una larga casacca bianca logorata dall'usura. La sua fronte è imperlata di sudore nonostante la temperatura rigida, respira a fatica. Ha un'aria estremamente stanca, sembra minuscola accovacciata in quel modo, in una pozza del suo stesso sangue. Mi soffermo con lo sguardo sulle sue guance scavate, su cui ricadono ciocche di capelli color topo e sulle palpebre cadenti che rivelano due bulbi oculari deviati.

Vorrei chiamare aiuto, ma la voce mi rimane bloccata in gola come fosse un corpo fisico. La ragazza sembra non essersi accorta della mia presenza, il suo viso è contorto in una smorfia di dolore quando un altro urlo atroce sferza l'aria. 

Qualche secondo dopo, la misteriosa figura sembra essere sollevata.

La scena è dominata da un silenzio spettrale, improvvisamente interrotto da un vagito.

Mi inginocchio di fronte alla ragazza e i suoi occhi strabici semichiusi si fissano nei miei. 

Lei sposta la veste insanguinata, svelando un neonato in perfetta salute, lo prende tra le braccia e gli sussurra qualcosa all'orecchio, prima di porgerlo a me.

Mi allungo verso la creatura con apprensione.

Questa smette immediatamente di piangere e in modo altrettanto improvviso scompare, lasciando come unica prova della sua esistenza il sangue di cui sono impregnate le mie mani. 

Rivolgo l'attenzione alla ragazza, che spira sotto il mio sguardo rammaricato; in quel momento, nello stesso modo in cui sono arrivata, vengo strappata via da quel macabro luogo, per ritrovare il calore estivo del mio letto.

Il turbamento dato dalla scena proiettata dal mio inconscio e la generale predisposizione che ho a perdere la calma, agiscono insieme affinché la stanza mi risulti troppo piccola per respirare.

Con un movimento convulso metto un piede a terra, ma le lenzuola avviluppate intorno alle gambe sembrano serpenti decisi ad avvolgermi in una stretta mortale. Cado in avanti, ho il viso schiacciato a terra, mi rialzo freneticamente e sento un'ondata di calore liquido impossessarsi prima del mio naso, poi della bocca. 

Afferro Uno studio in rosso dal comodino e corro fuori dalla camera, giù per le scale, per poi precipitarmi fuori dalla porta di casa e correre ancora finché i piedi nudi non iniziano a farmi troppo male per andare avanti.

Mi fermo in prossimità di un piccolo parco deserto e mi siedo al riparo di un olmo.

La ragazza che non aveva sceltaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora