CAPITOLO 6

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Il capo della sicurezza nazionale Harold Wilson entrò nella stanza ovale. Rammentava ancora la prima volta che ci era entrato quando il precedente presidente lo aveva convocato insieme ai sindaci di New York, Los Angeles e Chicago per discutere sulle misure da adottare per prevenire eventuali disordini razziali. Era giovane all'epoca e quella stanza gli aveva procurato una certa agitazione, quasi un disagio, come entrare in un luogo sacro. Ora invece era decisamente più a suo agio. In realtà la stanza non era così grande come la si immaginava, anzi era un locale piuttosto piccolo reso ancora più angusto dall'enorme scrivania e dalla sedia del presidente. La scrivania collocata accanto alla finestra, era stata costruita con assi di quercia appartenuti alla fregata britannica "Resolute" e occupava un quarto del locale. La sedia girevole in pelle era anch'essa enorme, progettata non per il comfort del presidente, ma per la sua difesa: lo schienale era rivestito di "Kevlar", la fibra a prova di proiettile ideata per proteggerlo da un eventuale colpo d'arma da fuoco sparato dall'esterno attraverso la finestra. Dall'altro lato della scrivania c'erano due poltrone imbottite, in una di queste si sedette Harold. «Il senato a breve voterà » disse il capo della sicurezza nazionale rivolto al presidente, «credo che quella decisione sia per noi un problema» continuò. Il presidente finì di firmare il foglio che aveva davanti e alzò lo sguardo sul suo uomo più fidato, nella stanza c'erano solo loro due «non voglio sapere come pensi di risolvere questo imprevisto» affermò il presidente leggermente seccato. Harold sorrise, lo sapeva già che era sempre a lui a cui ci si rivolgeva quando bisognava mettere a posto le cose. Il presidente si alzò avvicinandosi alla finestra «ma voglio che lo risolvi» continuò con tono deciso. «Black Storm è l'unica possibilità che abbiamo» rispose Harold alzando lo sguardo su l'uomo più potente al mondo. Il presidente si voltò a guardarlo «che sia chiaro che io non ho mai autorizzato questa operazione» si passò una mano tra i pochi capelli che gli rimanevano, era nervoso e lo lasciava trapelare chiaramente. Harold si alzò, sapeva esattamente cosa fare, con un cenno del capo fece capire che si sarebbe accollato tutte le responsabilità che la situazione richiedeva, poi si voltò e uscì dalla stanza. Black Storm era la soluzione, l'unica che avevano che potesse non fare crollare tutto.

***

Era da più di una settimana che non parlava con nessuno. Si era dedicato ai lavori della sua cascina e a coltivare un piccolo orto dietro la sua casa. Aveva ordinato su diversi siti internet i pezzi di ricambio per la moto Guzzi che aveva in parte già smontato e che aspettava, in attesa di riprendere vita, sotto il portico della cascina che era ormai diventata la sua dimora. Alcune volte si ritrovava a parlare da solo, altre i ricordi lo assalivano in modo così prorompente che gli sembrava di riviverli di nuovo, erano talmente reali che vedeva i soldati nemici nascosti tra le ombre della boscaglia. Vedeva i visi degli amici morti che tornavano a fargli visita e che parlavano con lui. Sembrava quasi di vivere in un limbo tra realtà e ricordi dove non distingueva quasi più la differenza. Quando era andato a prendere la moto dalla signora Rosa era stata l'ultima volta che aveva parlato con qualcuno, ed era stata anche l'ultima volta che aveva visto Maria. Si erano incrociati mentre lui stava già andando via spingendo la moto e lei stava ritornando a casa dopo aver fatto la spesa al mercato. I sacchetti di plastica che pendevano ai lati del suo corpo tenuti dalle braccia lungo i fianchi e il sole che le illuminava il viso. Un ciuffo di capelli ribelle che le cadeva sulla fronte. Un breve incrocio di sguardi, un saluto sussurrato, un sorriso accennato, quasi imbarazzato. Maria avrebbe fatto perdere la testa a un santo figurarsi a lui che era tutt'altro che santo. Aveva deciso che non l'avrebbe più rivista, non doveva coinvolgerla nella sua follia, ma purtroppo, nonostante tutti gli sforzi, non riusciva a non pensare a lei. Si era reso conto che pensare a lei lo riportava indietro dal quel regno di ricordi fatto di dolore e morte nel quale spesso si trovava. Era come riemergere, come avere uno di quei palloni a cui si aggrappano i sub che dagli abissi li riportano in superficie. Solo che lui negli abissi ci ritornava sempre più spesso e i suoi abissi erano sempre più profondi. Non aveva il diritto di coinvolgere quella ragazza nella sua pazzia, non doveva e non poteva continuare a pensare a lei.

REBORNDove le storie prendono vita. Scoprilo ora