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A Reno piaceva che la sua scrivania fosse sempre in perfetto ordine.

Aveva sistemato tutti gli stilografi e gli schermi secondo la dimensione, mentre i pannelli dei comandi erano disposti in base alla frequenza con cui li utilizzava.

Era con segreto divertimento che impilava i documenti in base a criteri che lui solo conosceva, e con impronunciabile gioia che posizionava i vettori dello Specchio secondo simmetrie perfette che nessuno sembrava notare.

La scrivania stessa, in cromo e in fibra di vetro, era un piccolo gioiello: l'avevano salvata dal transplanetario e a Reno era sembrato un segno, il fatto che tra tutti l'avessero affidata a lui.

Il suo lavoro come gestore dello Specchio sarebbe stato il migliore che avesse mai avuto, se non fosse stato per la gente.

Entravano, uscivano, avanzavano pretese e facevano richieste, chiedevano spiegazioni. E stavano per rovinare tutto.

L'ingresso di Sato fece tremare gli stilografi allineati con tanta cura.

Reno gli rivolse un'occhiata fosca ma non disse niente, perché era lui a comandare, da che avesse memoria; al massimo poteva ritenersi fortunato a essere nella cerchia dei suoi collaboratori più stretti.

Non poteva biasimarlo per la sua irrequietezza, comunque. La loro condizione, a quasi tutti i suoi compagni, doveva apparire come un flagello terribile, ed era stata solo la forza di volontà del loro leader a impedire la catastrofe.

Forse un altro uomo al suo posto si sarebbe lasciato andare, invece Sato continuava a radersi i capelli a zero tutte le mattine e a indossare solo blazer grigio antracite, perfettamente stirati.

«Ho visto i documenti» esordì, fermandosi di fronte a lui senza sedersi.

Reno sapeva di cosa stava parlando e al pensiero si sentì soffocare.

Le dita gelide dell'angoscia, così familiari, affondarono nel suo petto e strinsero in una morsa quel poco che era rimasto lì dentro.

«Lo so, te li ho mandati io.»

Ed era stato un errore.

Non si era accertato dell'identità del ragazzo, pensando a un comune caso di omonimia, ma nel momento stesso in cui aveva inviato il rapporto a Sato e la sua mente era stata attraversata, troppo tardi, dal dubbio, Reno aveva capito di aver mandato a monte gli sforzi che aveva fatto negli ultimi mesi.

Nulla, nulla avrebbe dovuto essere lasciato al caso.

«Questa è l'unica occasione che avremo» continuò Sato. La sua voce, in genere decisa, in quel momento aveva una strana qualità, come se fosse in procinto di erompere in un urlo o in un lamento «Lo capisci, vero?»

«Sì, certo» mormorò lui, con gli occhi fissi sulla scrivania e le dita alacri occupate a sistemare gli stilografi com'erano prima, o almeno a tentare di farlo.

Si ritrovò di fronte due mani forti, dalle unghie corte e ben curate, appoggiate con veemenza sul piano.

Alzò lo sguardo.

Sato si era chinato verso di lui e lo guardava. Sul suo viso non si muoveva un muscolo, ma gli occhi erano accesi, disperati e rabbiosi come quelli di un animale ferito.

«È per questo che lo affido a te. Quando arriverà, lo affiderò a te» raddrizzò la schiena «deve capire la situazione e collaborare.»

Il peso angosciante che smorzava il respiro di Reno si alleggerì un poco «Quindi non deve sapere come funziona questo posto?»

«Deve capirlo il prima possibile, ma se non si fida di noi...»

«Se non si fida di noi, saremo scampati a una prigione solo per entrare in un'altra.»

Sato annuì, secco, e lui cercò di tenere a bada la contrazione spasmodica delle sue labbra, che minacciavano di sollevarsi in un sorriso e di tradirlo.

Doveva stare calmo, c'era ancora tempo...

«Allora ci siamo intesi» fece Sato, a mo' di congedo.

Prima di uscire, quell'uomo fatto di granito piantò un'ultima volta il suo sguardo in quello di Reno.

Poi spalancò la porta e se ne andò, e lui rimase immobile per qualche secondo, prima di accorgersi che stava trattenendo il respiro. Lo schienale della sedia che lo sosteneva sembrava piuttosto un muro al quale avevano appena inchiodato le sue spalle.

Sato guardava sempre in faccia chi aveva di fronte.

Non gesticolava, non faceva nessun movimento innecessario, stava ben saldo sui suoi piedi con tutti i muscoli tesi verso l'interlocutore.

Era un capo.

Il tipo d'uomo che non attacca, eppure istintivamente chiunque sa che potrebbe farlo, se volesse.

Rispetto a un tempo, però, c'era in ogni momento un guizzo sfuggente nei suoi occhi, e più giorni passavano in quel luogo dimenticato dagli dei – tutti: i loro e quelli del resto della galassia – più quell'impressione si accentuava.

C'erano volte in cui sembrava preda di una febbre sconosciuta e terrificante.








N.d.A.: Sì, lo so che non ci credete nemmeno voi, ma è davvero un altro capitolo. 

Con gli esami alle porte non so come sarò messa nei prossimi giorni, quindi ho deciso di lasciarvi almeno questo!

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