6. Un delitto cotto in casa

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In effetti sfondare non era il verbo adeguato a definire ciò che accadde, ma nella mente sconvolta di Leodina l'impressione fu comunque quella.

Nella realtà, prima ci fu il tonfo secco della porta, che andò a sbattere con violenza contro lo stipite, subito seguito da un lamento sommesso, infine da un altro colpo, sordo, quando la porta, rimbalzando indietro, colpì la figura scura che stava varcando la soglia.

Un lungo istante dopo, Terno entrò zoppicando. Alla vista dell'oste riverso a terra, con gli occhi strabuzzati e una schiuma rossastra alla bocca, l'ultimo impeto di furia svanì dal suo corpo.

Cercò gli occhi della moglie, che continuavano a fissare, vuoti, il cadavere. «Tesoro, cos'è successo? Ti ha fatto del male?»

Leodina mosse appena le labbra.

Terno insistette: «Cos'è successo?»

«L'ho ucciso... Con il polpettone.»

Le parole uscirono afone, senza espressione, morte come Weelbo il Monco.

L'attenzione di Terno si spostò subito sul piatto superstite, ancora appoggiato sul tavolo, che era destinato a Leodina, e d'istinto si avvicinò. Lo annusò, curando di non toccarlo. «Cosa ci hai messo?»

La donna sparì veloce in cucina e tornò con la boccetta di liquido scuro.

Terno annusò anche quello, con l'attitudine di un esperto sommelier. «Il primo sentore è di noci, ma c'è un retrogusto... mandorle... no, ghiande direi. Mi ricorda qualcosa, devo averlo letto in un libro...» Terno parlava sempre ad alta voce quando faceva riflessioni importanti, soprattutto se basate sui suoi studi alla biblioteca. «Era un trattato di alchimia, se non sbaglio, e questo è quasi certamente un rarissimo flacone di lacrime di Babuz, uno dei più potenti veleni di Eudopia.»

Leodina non si sentì affatto rinfrancata da quella deduzione, che non risolveva il suo principale cruccio: «Sì, ma adesso... cosa facciamo?»

Un rumore di zoccoli venne a riordinare le priorità nella mente di Terno. L'uomo si precipitò fuori, ma prima ordinò alla moglie di chiudere tutte le finestre. Era Gambalunga, che scalciava per la fame e la stanchezza. Terno, prima di badare a lui, spense la lanterna che illuminava l'insegna, segnalando così ai viaggiatori che la locanda era chiusa a nuovi ospiti, quindi sistemò il cavallo nella stalla e tornò dentro, sprangando con attenzione la porta.

I due coniugi si ritrovarono di nuovo nella sala comune, in compagnia di un cadavere sempre più freddo. Seduti a un tavolo, si fissarono in un lungo abbraccio di sguardi, sostenendosi a vicenda per non cedere al panico.

«Scappiamo» suggerì, o forse supplicò, Leodina.

«Non ho trovato il nostro carro e non possiamo cavalcare Gambalunga insieme.»

«Andiamo a piedi.»

«Di notte? In questa regione?»

Le lacrime, trattenute dallo shock, cominciarono infine a scorrere: «Quegli uomini... hanno visto che ero rimasta sola con lui, capiranno che sono stata io!»

«Non se facciamo sparire il corpo» rifletté ad alta voce Terno, dopo un lungo silenzio.

Gli occhi di Leodina tornarono rapidamente asciutti: «E come?»

«Quando siamo arrivati ho notato che c'è un orto dietro la locanda. Scaviamo una buca e lo buttiamo dentro. La terra smossa in un orto è normale, nessuno ci farà caso. Poi, all'alba, ci incamminiamo e ci lasciamo questo posto alle spalle. Quandanche dovessero trovarlo, noi ormai saremo lontani.»

«Vado a cercare una vanga» si alzò perentoria Leodina, che era sempre stata il braccio della coppia.

Terno invece si rimboccò le maniche e cominciò a trascinare le spoglie di Weelbo verso il retro.

Nonostante fosse di una statura ridicola, l'oste doveva avere le ossa parecchio grosse e una muscolatura massiccia, perché Terno faticò non poco a smuoverlo, tanto che fu costretto a farlo rotolare. Così, quando arrivò all'uscita secondaria, la moglie aveva già scavato una buona spanna di terriccio. Ora era ferma con la pala in una mano e la lanterna nell'altra, e illuminava il terreno smosso.

«Che succede?» chiese Terno con una certa ansia.

«Ben strani ortaggi coltivava questo Monco» disse la donna, chinandosi per estrarre dalla terra un sacchetto di iuta grosso come un palmo. Lo lanciò al marito, che lo afferrò al volo facendolo tintinnare.

«Strani davvero» confermò rovesciandone il contenuto. Una ventina di monete rimbalzò in un allegro scampanellio.

«E ce ne sono altri» aggiunse Leodina, senza trattenere una certa emozione nella voce.

La lanterna bruciò parecchio olio prima che la buca fosse pronta e tutti i sacchetti di monete portati alla luce. Quando ebbero finito, sul pavimento, oltre a Weelbo, giaceva anche un bel mucchio di baiocchi, molti più di quanti ne avessero mai risparmiati nella loro vita.

Si scambiarono uno sguardo complice e senza dire una parola presero il cadavere e lo gettarono nella fossa, che fu rapidamente ricoperta con qualche agile palata.

Poi, sudati e sporchi, si presero per mano e ammirarono quell'inaspettato tesoro brillare ai primi bagliori dell'alba.

«In cantina ho visto un baule» disse Leodina.

Il volto di Terno si allargò in un ampio sorriso: «Io ho un'idea migliore.»   

Il polpettone della bibliotecariaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora