Leodina aspettava seduta su una grossa pietra, la schiena curva appoggiata appena al muro della locanda. Il sole stava scendendo con troppa fretta verso l'orizzonte, mentre in proporzione l'ansia cresceva il doppio.
Da diverse ore, ormai, Terno era partito in groppa a Gambalunga, lui che aveva cavalcato l'ultima volta il giorno del loro matrimonio. Avrebbe voluto impedirglielo ma sapeva che ne andava del suo onore. Mezza giornata in quella regione selvaggia e gli istinti più primordiali avevano preso il sopravvento: pur di non perdere la faccia di fronte agli altri uomini della locanda, Terno sarebbe partito saltando su una gamba sola.
«Vedrai che arriverà presto, lui e la vostra roba.» La voce di Weelbo la sorprese. Nonostante la cortesia trovava fastidioso il suo modo di parlare. C'era, nel suo tono, un che di falso e ostentatamente benevolo.
«Se il tizio che avete descritto è davvero Calzarone, allora l'avrà trovato ubriaco alla prossima locanda.»
Leodina sorrise per mera cortesia.
«Vieni dentro a mangiare qualcosa.»
«Non ho appetito, grazie» fu infine costretta a dire.
«Entra almeno per scaldarti un po', di notte qui farà freddo.»
Finché poteva vedere la linea dell'orizzonte, però, Leodina si sentiva legata a Terno, come se fosse con lui, ovunque lo avesse portato quell'assurdo inseguimento. E poi, l'idea di restare sola con quell'ometto dallo sguardo viscido, le rivoltava lo stomaco.
Ma, al contrario di Terno, la notte arrivò e con essa un velo di gelida umidità scese su tutto e su tutti. Suo malgrado, Leodina fu costretta a scegliere: prendersi un malanno polmonare o fare compagnia al Monco. Siccome il malanno lo avrebbe preso con tutta probabilità Terno, decise che qualcuno in famiglia doveva restare sano.
«Oh, carissima, sapevo che alla fine lo accettavi l'invito» la salutò Weelbo, con un'inflessione che sembrava più minacciosa che accogliente. «Vieni, fammi compagnia, stavo giusto per cucinare qualcosa per l'oste.»
Leodina diede una noncurante occhiata in giro: la locanda era deserta. «Mi permetta, faccio io» si affrettò a proporre. «Non ho di che pagare e vorrei sdebitarmi.»
Non smaniava di certo per entrare in quella cucina, il cui odore disgustoso si avvertiva anche a distanza, ma piuttosto che mangiare altro cibo preparato da quel tizio avrebbe ingoiato una manciata di vermi. E poi, tenere un coltello in mano le dava sempre un senso di sicurezza.
Weelbo il Monco sembrò soppesare più del dovuto la proposta, lisciandosi con lentezza il mento ispido; poi esclamò con entusiasmo: «E sia! È tanto che non mangio piatti di un altro cuoco» e con un gesto plateale le fece spazio.
Leodina prese un profondo respiro e fece alcuni passi in apnea fino alla cucina. Alla vista era ancora più nauseante che all'olfatto, e faticosamente trattenne un conato al pensiero di aver mangiato del cibo cotto in padelle composte più da grasso incrostato che da metallo.
Era la prova più dura che avesse mai affrontato in vita sua, seconda solo alla gravidanza interrotta.
«Sono proprio curioso di vedere cosa mi preparerai.»
Anche lei lo era: a colpo d'occhio poteva contare giusto sui resti di un qualche irriconoscibile volatile. «Farò un polpettone, ma preferisco non avere spettatori, m'innervosisce.»
«D'accordo, d'accordo. Aspetto di qua, allora» alzò le mani in un eccessivo segno di resa, tornando poi sui suoi passi.
Leodina si preparò: legò un grembiule lercio alla vita, affilò tra loro un paio di coltelli, e chiuse gli occhi in una breve preghiera ad Abàtar. Era una ricetta che cucinava sempre sua madre quando aveva sufficienti avanzi, e in condizioni normali lo avrebbe preparato anche bendata, ma qualcosa le diceva che da quel piatto dipendeva il suo futuro. Tutto doveva essere perfetto, per quanto le condizioni igieniche lo permettessero. Tagliuzzò, amalgamò, infornò, affettò e impiattò. In un'ora di arte culinaria e tormentoso dialogo a distanza con Weelbo, tutto fu pronto. Mancava solo un tocco caratteristico, un filo di aceto balsamico o glassa di noci.
Frugò a caso tra le spezie, nella vana speranza di trovare qualcosa, finché notò una boccetta contenente un liquido scuro, dimenticata sotto l'acquaio. Non c'era polvere sopra, quindi l'oste doveva averla usata di recente. Odorava vagamente di noce e aveva la consistenza dell'aceto.
«Allora? È pronto?» cominciava a spazientirsi Weelbo.
Senza indugiare oltre, distribuì un'oculata dose del liquido sulle due porzioni, ricoprendo le fette di un velo bruno che certamente non avrebbe peggiorato il sapore di quella carne stantia.
Raggiunse Weelbo e posò i due piatti sul tavolo, poi s'allontanò in cerca di posate, dimentica che lontano dalla città non fosse così d'abitudine farne uso.
L'oste decise di non aspettare, e afferrò la sua porzione strappandone un buon boccone a mani nude: «Misericordia, ha un aspetto davvero delizioso» biascicò, ingollando tutto d'un fiato.
«E il sapore è anche meglio! Credo proprio ti chiederò di diventare la mia cuoca!» ridacchiò infilandosi al contempo in bocca un altro pezzo di polpettone.
Leodina restò dietro al bancone, inorridita dalla voracità e dalla volgarità dell'uomo.
«Anche il sughetto è delizioso, dovrai mostrarmi i tuoi segreti» continuò ammiccando.
«È roba vostra, quella; il balsamo alle noci che tenete in quella boccetta.»
Weelbo sbiancò all'istante, scaraventò il piatto a terra e sputò quello che aveva in bocca. Come una furia si alzò dalla sedia, piantando sulla donna due occhi ingigantiti dalla paura: «Quale, quella sotto l'acquaio?»
Leodina, spaventata più di lui, si limitò ad annuire.
L'oste si ficcò due dita in gola e cominciò a colpirsi lo stomaco nel disperato tentativo di spingere fuori quello che aveva appena ingoiato. Ma era già troppo tardi: il cuore batteva a mille e ciò nonostante quasi sentiva il sangue rallentare dentro le vene, gonfiandole oltre natura.
Stramazzò a terra senza neppure avere il tempo per pronunciare un ultimo accidente.
Leodina restò a fissare il corpo senza vita di Weelbo il Monco per diversi momenti, prima di comprendere cosa fosse successo. Poi gridò fino a strapparsi le tonsille.
Ed esattamente in quell'istante qualcuno sfondò la porta della locanda.
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Il polpettone della bibliotecaria
FantasíaTerno e Leodina non sono più giovani, e il destino li ha costretti a reinventarsi una nuova vita. Ma per due intellettuali trovare un nuovo lavoro, in un mondo feroce dove vige ancora la legge del più forte, sarà un'avventura.