1. she's here again

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Una volta, all'età di 7, durante una piovosa giornata d'autunno uscii di nascosto in giardino e passai il pomeriggio a correre sotto il diluvio. Fu bellissimo e liberatorio ma quando mia madre mi beccò bagnata fradicia che correvo in tondo con le braccia spalancate fingendo di essere un aeroplano mi sgridò duramente. Quel giorno iniziai ad odiare la pioggia.

La stessa pioggia che oggi, quasi dieci anni dopo, bagna con prepotenza il tessuto impermeabile del mio ombrello. Fisso apatica la porta d'ingresso di casa mia mentre il taxi che mi ha accompagnata fin qui dall'aeroporto parte con un rombo metallico. Faccio un respiro profondo e mi incammino sul vialetto di pietra trascinando il piccolo trolley con i miei vestiti e le mie cose. Suono il campanello e sento delle voci oltre la porta d'ingresso che tarda ad essere aperta.

— Helena? — La voce sorpresa di mia madre è tutt'altro che accogliente.
— Quando hai deciso di tornare? Perché non ci hai chiamati, ti saremmo venuti a prendere all'aeroporto. Insomma ho parlato l'altro ieri con tua nonna, non mi ha detto niente... — Quando mia madre inizia a parlare troppo non riesco a sopportarla.

— Infatti. Ho deciso ieri. — Le rispondo con indifferenza superandola e gettando l'ombrello sul pavimento accanto ai suoi piedi in delle décolleté. L'ingresso di casa mia è totalmente diverso da come me lo ricordavo e colmo di gente sconosciuta che conversa tra loro.

Le pareti una volta ricoperte di fotografie e ricordi della nostra famiglia sono spoglie e riverniciate di un bianco freddo, noto solo qualche nuovo quadro anonimo qua e là.

— Cosa sta succedendo qui? — Domando senza curarmi minimamente delle occhiate di alcune eleganti signore di mezz'età squadrarmi con un sopracciglio sollevato. Sostengo il loro sguardo con la testa alta, indifferente di ciò che si stanno spifferando vicine vicine.

— Helena! — Mi volto a sinistra verso il salotto spazioso dove mio padre è in compagnia di alcuni volti nuovi. In particolare noto una donna dai capelli ramati e il viso dolce a braccetto con un uomo decisamente alto e curato e alla sua destra un ragazzo, pare essere loro figlio. Si nota la loro somiglianza da un miglio.

I suoi occhi azzurri sono identici a quelli della madre mentre i capelli scuri rasati come quelli di un militare e i tratti decisi sono più simili a quelli del padre. Anche l'altezza sembra averla presa da lui perché quando a passo deciso, dopo aver abbandonato la mia valigia vicino all'ingresso, mi avvicino a loro mi sento schiacciata dal loro aspetto imponente e dalla loro bellezza. Ma non demordo e con una sicurezza che sicuramente non mi appartiene gli fisso e mi porto una ciocca di capelli castani dietro l'orecchio spostando poi lentamente lo sguardo su mio padre.

— Sono felice del tuo ritorno! — Mi dice con finta enfasi appoggiandomi una mano sulla spalla. E non sembra contento di rivedere quella che è sua figlia, dopo ben più di tre mesi di lontananza, ma non me ne curo più di tanto. Io e mio padre non abbiamo mai avuto un vero e proprio rapporto. E' come convivere con uno sconosciuto da tutta la vita.

— Vorrei presentarti l'agente Sanders e la sua famiglia, sono nostri nuovi vicini di casa da due mesetti e ormai anche nostri cari amici. — Una risata compiaciuta esce dalla sua bocca mentre la donna difronte a me allunga la sua mano sottile con un caloroso sorriso sul volto.

— Piacere cara, sono Meredith. I tuoi genitori ci hanno parlato a lungo di te. Sono felice di poterti finalmente incontrare. — Mi dice mentre le stringo la mano e non avverto nessun tipo di falsità nel suo tono di voce o nel suo modo di comportarsi.

— Lui è mio marito James...— L'uomo mi fa un sorriso cordiale abbassando leggermente la testa in segno di saluto mentre gli stringo la mano.
— E lui è mio figlio, Thomas. — I miei occhi entrano in collisione con quel viso chiaro e pulito. Gli zigomi alti, la mascella definita ma non esagerata, le labbra piene e proporzionate, il naso dritto e sottile con la punta leggermente incurvata in alto, poi gli occhi di un colore così acceso da illuminargli tutto il viso.

— Ciao — Pronuncia e la sua voce è densa e accogliente. Anche lui allunga la mano nella mia direzione e mentre gliela stringo il mio sguardo vaga ancora sul suo corpo sportivo fasciato da una camicia nera con le maniche arrotolate sugli avambracci mascolini e da un paio di pantaloni eleganti dello stesso colore.

Cerco di non mostrare la mia insicurezza nel sentirmi fuori luogo in mezzo a tutta questa gente elegante mentre indosso un paio di anfibi sporchi, una giacca larga e un vestito nero a pieghe da dove sbucano le mie gambe sottili e le ginocchia con le svariate cicatrici che mi sono procurata da bambina.

— Devi sapere Helena che all'agente Sanders gli è stato assegnato il caso di Clay, sta facendo il possibile per trovare il colpevole. — ammette mio padre e poi riprende a conversare di affari e cose delle quali a me importa ben poco quindi ne approfitto per divincolarmi e dopo aver recuperato la mia valigia salgo in camera mia.

— Helena! Perché non ti unisci con noi al Brunch? Se mi avessi avvertita ti avrei organizzato una festicciola di ben tornato. Ma posso sempre farla, se vuoi. Potrai invitare qui i tuoi vecchi amici. — Mia madre mi appoggia una mano sulla spalla e senza nemmeno rendermene conto mi sottraggo al suo tocco.

— Non pensarci neanche. Non sono tornata per... Restare. Passerò qui solo un po di tempo e prima delle vacanze di Natale mi sarò trasferita definitivamente in California dai nonni. — Le confesso cercando di sembrare sicura di me e delle mie scelte quando in realtà non ho programmato ancora nulla e non so nemmeno cosa farò domani.

Mi dirigo verso le scale certa di averla zittita ma prima che io salga i primi scalini lei mi ferma nuovamente.
— Cosa posso fare per farti restare? — E sicuramente non si riferisce al suo stupido Brunch.

Non vedo più quel sorriso finto sulla sua faccia ma solo il volto di una madre distrutta dall'aver perso un figlio e consapevole di star per perderne un'altro. Non sempre la morte è il motivo per cui si perde qualcuno, molte volte è la vita a far allontanare le persone senza nessun colpevole.

Rifletto per qualche secondo mentre i suoi occhi sembrano diventar lucidi.
— Dammi un motivo valido. — Rispondo e improvvisamene tutto il dolore rompe il mio muro di apatia e mi colpisce il petto graffiandomi in profondità.

Lei tenta di dire qualcosa ma poi rimane zitta con la bocca socchiusa e non c'è risposta più chiara di questa. Non sa cosa dire, non sa cosa dirmi e rimane lì impalata mentre io delusa le volto le spalle e salgo finalmente le scale.

Non c'è nessun motivo valido in realtà, nonostante io mi sia illusa per un attimo che ci fosse e che mia madre me lo sbattesse in faccia. Non c'è nessun motivo valido per rimanere oltre in questa città e credo proprio che dopo aver richiesto il trasferimento a scuola inizierò a portare tutte le mie cose dai nonni.

Appoggio la mano sulla maniglia di ferro, congelata, come il mio stato d'animo. L'abbasso piano e con un lieve cigolio la porta si apre mostrandomi la mia stanza buia e ordinata con una lieve puzza di chiuso che prevale nell'aria. Diversa da come l'avevo lasciata, tutti i mobili sono al loro posto e non ci sono pezzi di vetro sul pavimento.

Non c'è più ombra del caos che avevo lasciato, non c'è più nessuna traccia della mia rabbia mescolata al dolore. Perché per quanto io sia stata svuotata dai miei sentimenti durante quel funerale, la convivenza con i miei sensi di colpa e i ricordi dentro quelle mura mi fecero impazzire.

E così distrussi tutto. A partire dalle nostre foto appese sulle mura di camera mia e terminando con me stessa. Perché la sua morte ha frantumato me come io ho frantumato le cornici di quelle foto. Mi ha stremata, consumata e lasciata nel buio.

Sospiro e mi siedo sul letto, chissà se sarò mai più felice nella mia vita. Chissà se riuscirò a trovare un motivo per andare avanti, qualcosa che mi tenga legata a quella piccola parte di ragione che mi è rimasta. Perché ora come ora sto perdendo il controllo e avanzando verso la fine.

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