3. Come ruggine nera

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D a m i e n

• C o m e r u g g i n e n e r a •

Passò una buona mezz'ora, prima che riuscissi a rivolgere la parola a Caelie.

Covavo il desiderio di conoscerla a fondo, benché sentissi dentro di me di sapere già chi fosse. Il suo sangue gridava nelle mie orecchie che lei era una Morgen fino a stordirmi, mentre il suo sguardo, puro ghiaccio fondente, mi diceva di starle alla larga. Mi ordinava di scappare, esclamando a pieni polmoni come lei fosse totalmente opposta a me; ma, sinceramente, non m'importava.

Volevo sapere cosa si celasse nella sua testa, perché fosse così spaventata. Avevo bisogno di carpirle qualche informazione, una qualsiasi. Perché fosse coperta di sangue, da cosa stesse scappando, chi fosse, cosa fosse: più semplicemente, perché provassi quelle sensazioni quando la guardavo.

Dopo il suo risveglio piuttosto brusco, però, era stato difficile anche solo lanciarle un'occhiata. Sapevo che, in qualche modo, lei c'entrasse qualcosa con gli strani presentimenti di quella mattina; lei o, perlomeno, ciò che di tanto terribile doveva esserle successo.

«Vuoi qualcosa da mangiare?» le domandai infine, esitante. Avevo trascinato la mia poltrona a fianco al letto, e non mi ero più mosso da lì.

Per tutto il tempo, avevo tenuto lo sguardo fisso sul pavimento di ceramica, le gambe appena divaricate e le braccia, posate sulle ginocchia, a sostegno della mia testa. La sentivo troppo, troppo pesante.

Caelie, dopo aver sfarfallato le folte ciglia bionde, si girò distrattamente verso di me, gli occhi spalancati in un'espressione sorpresa e le gote lievemente arrossate.

Arricciai le labbra in un sorriso. «Non preoccuparti. Immagino tu sia affamata.»

Si schiarì la voce, evidentemente in difficoltà.
«Sì, in effetti...» abbassò lo sguardo, incerta. In ogni caso, qualsiasi cosa avesse detto, sarebbe stata smentita dal forte brontolio del suo stomaco alla sola menzione del cibo.

Passai una mano sul volto, sorridendo.
«Pane, burro e marmellata vanno bene?»

Si affrettò ad annuire, facendo ondeggiare alle sue spalle una matassa disordinata capelli mossi.

Mi alzai, togliendo della polvere inesistente dai miei pantaloni, e mi diressi verso il piccolo piano cottura. Una volta preso il necessario, cominciai a spalmare il burro su una fetta di pane. Mi sentivo a disagio; come avrei dovuto approcciare una discussione così delicata, senza un apparente motivo?

Non ci volle molto, però, prima che sentissi la voce argentina di Caelie ridacchiare, appena tentennante.
«So che muori dalla voglia di chiedermelo.»

Sobbalzai, colto alla sprovvista, e mi voltai, cercando quanto più possibile di fingere indifferenza.
«Come, scusa?»

Lei accennò un sorriso, osservandomi con le sopracciglia inarcate. Nonostante l'aria spensierata, però, sentivo dentro di me quanta forza ci stesse mettendo per nascondere il suo disagio; la sua paura.
«So che vuoi saperlo. Perché sono ridotta così?» allargò le braccia, indicando le chiazze di sangue. Ciò che più mi stupiva, in lei, era la sua determinazione, la spavalderia che riusciva a fondere con timidezza e terrore: l'impulsiva contraddittorietà con cui, quella ragazza, era riuscita a colpirmi dritto nel petto con una sola e decisa stilettata.

Tornai a rivolgere la mia attenzione al pane, falsamente disinteressato alla questione. «Non mi parrebbe certo delicato.»

«Anche se te lo raccontassi, non mi crederesti» disse, il tono di voce appena incrinato. A un orecchio umano, il suo tentennamento e la crepa sottile nella sua sicurezza non si sarebbero nemmeno notati.

Ti crederei. Stanne certa.

«Come io non so nulla di te, tu non sai nulla di me» risposi semplicemente, spalmando della marmellata, per poi spallucce. «Sono certo, però, che tu non sia umana. Sbaglio?»

A quel punto, chiuso il panino, mi voltai. La trovai a fissarmi, accigliata, ma sinceramente stupita. «Se c'è una cosa che non ho mai messo in dubbio - forse, l'unica cosa di cui sono quasi del tutto certa» scandì, con lentezza, «è l'essere un'umana».

Aggrottai la fronte e, seppur con difficoltà, provai a rispondere. Il suo sguardo puntato dritto nel mio non aiutava di certo la mia scarsa concentrazione.
«E che mi dici del sangue?» soffiai.

La vidi rabbrividire all'istante. Tornò a fissare il pavimento. Percepivo, persino da quella distanza, l'ansia crescente che le infuocava lo stomaco e le faceva impallidire le gote. «Non vi trovo nulla di particolare.»

«Certo, tutti hanno il sangue nero» asserii, sbuffando una risata. Mi pentii subito di averlo detto. Dov'era finito il tatto che avevo tentato di utilizzare? L'ultima cosa che volevo, certamente, era terrorizzarla. E temevo di non essere riuscito appieno nel mio intento. Non potevo farci nulla, però: era più forte di me. Caelie e l'impulsività, l'istinto, nel mio stomaco camminavano a braccetto.

«Non mi pare certo delicato» ribatté allora, marcando bene ogni singola sillaba, la voce bassa e gli occhi nuovamente fissi sui miei. «Non ti sembra?»

Passai una mano sul volto, avvicinandomi a lei e porgendole il piatto con il sandwich. «Mi dispiace. Non avevo intenzione di...»

Mi fermò, prendendo il piatto e posandomi un indice sulle labbra. Fremetti a quel contatto, così gelido e freddo da mandarmi il viso in fiamme.

«Va bene così» rispose, la voce cupa e roca.

Scossi la testa, deluso da me stesso, e tornai a sedermi sulla poltrona. Come avevo potuto essere così stupido?
Sentivo nuovamente un muro di cemento erto a separarci, un muro così spesso che, ne ero certo, avrebbe reso impacciato di qualunque altro nostro tentativo di reggere in piedi una conversazione.

Risi, tra me e me, vedendo con quanto trasporto addentasse quel pezzo di pane.
Sembrava quasi che non mangiasse da giorni. Mi ritrovai a pensare meccanicamente alla bellezza sfiorita e scomposta di Caelie; scarmigliata, pallida, affamata, dalla capigliatura disordinata e increspata dall'umidità, eppure superba e ultraterrena, pari a quella che sono una dea avrebbe mai potuto avere.

E quel sangue. Quel sangue scuro che le imbrattava le vesti, le macchiava i capelli chiari, le tingeva le labbra come ruggine nera. Come una pietra focaia in collisione col mio petto, riusciva ad accendere in me quegli istinti che, da ormai quasi due decadi, ogni Morgen doveva cercare di assopire nelle più profonde anticamere della propria mente. Quella ferocia che non ci era propria, ma che ci era stata imposta con la forza da chi, per macchiarsi la pelle di sangue, sarebbe stato capace di qualunque cosa. Eravamo stati marchiati dall'anatema del Mietitore, che ci soffocava ogni attimo della nostra eterna esistenza, strozzando le nostre gole con un giogo da cui era difficile liberarsi. Quel giogo che, senza che me lo sapessi spiegare, era diventato improvvisamente troppo stretto e pesante per poterlo sopportare ancora.

N O T A A U T R I C E

Ebbene, mi dispiace non avervi dato ancora alcuna spiegazione su cosa siano questi tanto nominati Morgens. Be', posso dirvi solo questo: date tempo al tempo!
Comunque, ecco a voi la terza parte di questa storia. Che ve ne pare? I commenti sono sempre benaccetti, nonché utili per capire cosa posso fare per migliorarmi. Bene, è tutto!
Un bacio a tutti,

-Gio

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⏰ Ultimo aggiornamento: Mar 01, 2018 ⏰

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