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Una grancassa a fracassarmi i timpani come buongiorno.
Un tiranno al posto del tempo che mi scombussola gli organi, e la solita fretta che mi assiste dal primo giorno di vita: sono sicura che al momento del parto sia stata io a spingere per venir fuori, perché braccata da chissà cosa lì dentro, e non mia madre.

Le porte di Chernobyl mi si aprono davanti, una bomba di vestiti stropicciati esplosa nell'armadio, mi chiede pietà per essere riordinata.
"Non ho tempo, oggi, mi spiace", penso ad alta voce, mentre infilo un calzino al volo e cerco il gemello defunto occultato chissà dove.
I jeans che tirano dappertutto, la shirt che un tempo era bianca e ora assomiglia a un cencio sporco. Giuro che non mi azzardo più a mettere in moto la lavatrice, altrimenti di questo passo finirò a fare concorrenza ai barboni appostati sotto la stazione.

Le scarpe, le scarpe, le scarpe, le scarpe...
Grido come un'ossessa per tutta la stanza, ma è più una richiesta d'aiuto che un promemoria.
Un'occhiataccia allo specchio, una mano impugna la spazzola e strappa ciocche innocenti per scioglierne i nodi, l'altra brandisce lo spazzolino come una bacchetta alla Harry Potter, sparando dentifricio a destra e a manca.

Mi osservo da capo a piedi per sicurezza, e quasi piango nel vedere un calzino di colore diverso dall'altro spuntare dai risvoltini.
"Non ho tempo, non ho tempo, non ho tempo...", ripeto come un mantra.
Un sorso di caffè preso direttamente dalla moka, un bacio sui capelli a mamma assorta nella sua nube tossica mattutina, il giubbotto infilato alla supereroe.

- Ci vediamo stasera, - saluto. E mamma mi blocca con la sua vocina apatica.
- Giulia, non dimentichi nulla?
Mi guardo fuori e dentro a mo' di esorcista, sembra sia tutto a posto.
- Lo zainetto, - mi urla dalla cucina. Merda!
- La vedo dura prendere la metro senza abbonamento.
- Sei la mia salvezza, - le dico.
- Almeno per qualcuno servo a qualcosa, - mi risponde lei di rimando, e già so cosa intende, ma non ho tempo nemmeno per i nostri drammi, al momento.

- Giulia?
- Sì, ma'.
- Potresti... sì, insomma... non è che...
- Ho capito, tieni, - e lascio una banconota da venti sul tavolo, che per la precisione era l'ultima.
Mi toccherà aspettare sabato come al solito per fingere che il lavoro che faccio, che puntualizzo odio a morte, mi serva a qualcosa se non a tenermi occupata cinque giorni su sette.
In pratica fatico senza retribuzione, il denaro lo guardo passarmi sotto al naso per mezz'ora scarsa, giusto il tempo di arrivare a casa, e pare pure che mi sfotta, quel bastardo, canzonandomi dal retro della tasca dei pantaloni.

- Grazie, - mi dice, e lo fa con una punta di vergogna come sempre, abbassando gli occhi a terra perché troppo debole per amettere ogni sbaglio, anche se non è lei a farli.
Esco di corsa, e il cartello affisso all'ascensore con su scritto "guasto", mi indica le scale nemmeno tanto gentilmente. Giuro che una volta ho immaginato si fosse animato, e al posto dell'indice ci fosse un grosso ditone medio.
Fanculo!

Faccio capolino per la tromba delle scale e sospiro come ogni volta: sei piani di bastardagine da scendere.
E il problema non è nemmeno quello, a pensarci bene, ma ripercorrerle in senso inverso al ritorno.
Mi metto a bordo scalino, riscaldo i muscoli come un giocatore sulla linea di campo pronto per entrare in partita, infilo gli auricolari con i Twenty One Pilots che mi prendono a braccetto e scendo il più veloce che posso.

Fuori mi attende aria autunnale e lo scenario alla Alcatraz. Non è proprio il massimo, vivere in periferia, tra il grigiore dei palazzoni in cemento tutti rigorosamente uguali.
Taglio per i giardinetti malcurati diventati lettiera per gatti e cani randagi. Uno stradone erto mezzo chilometro, e arrivo con l'asma da prestazione sportiva alla stazione della metro.
Mi accalco alla folla di sfigati per gli inferi mobili, e guarda caso, ma mica poi tanto, è appena passato il treno e mi toccherà aspettarne un altro.
"Bentornata alla realtà, Giulia", grida la voce dagli altoparlanti. E tutti si voltano verso di me a fissarmi. E la metro che arriva alle spalle, mi ridesta dai miei trip mentali, riportandomi con i piedi a terra.
"Sveglia, Giulia, non sei mica tanto speciale".

Complicatissima MeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora