❇ 14) Dall'alba al tramonto

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L'unica primavera che mi esplodeva addosso, era rappresentata dalle continue farfalle che mi opprimevano lo stomaco.
Quelle che svolazzavano da quando, avevo smesso di considerare Ermal, solo come un buon caro amico.

Bari, quello che eravamo stati noi in quella terra, me ne avevano dato la conferma.

Eravamo fuggiti insieme, io ed Ermal, quasi subito, dopo quell'incontro al mare.
Avevamo passato la notte, in viaggio verso la nostra vita di sempre: fatta di impegni, che ci avrebbero dato modo di staccare da quel pensiero, che attanagliava la mente di entrambi.

Avevamo diviso lo stesso vagone di quel treno, per nove ore, osservando lo stesso panorama, tra qualche soffocato silenzio e qualche battuta d'evenienza.
Il senso di colpa stava divorando entrambi probabilmente, ma non era giusto parlarne.

Dopotutto, un presunto interesse si poteva frenare sul nascere, un incendio si poteva spegnere.
Ed era la prerogativa di entrambi, soffocare tutto quello che pensavamo potesse farci perdere il controllo di noi stessi.

Eravamo due eterni razionali, io ed Ermal, che cercavano di trovare sempre le parole giuste per uscire vincitori, senza cadere in stupide guerre.

Due che combattevano controcorrente, per non ferire nessuno.

«Allora, buona giornata.»
Aveva esclamato Ermal all'arrivo, in quella fresca e uggiosa Milano, nelle prime luci dell'alba.

Non avevo risposto a quell'augurio , che aveva lo stesso sapore amaro di un addio.
Gli impegni che ci obbligavano a stare insieme erano finiti, così come i presupposti di non farci ingoiare dalla paura, rinunciando a quella amicizia, che a piccoli passi, stavamo costruendo.

Ermal non si sarebbe accertato di vedermi rientrare a casa, non mi avrebbe aiutato a caricare la valigia, dicendo all'autista del taxi di turno, che preferiva occuparsene lui.
Ermal, non si sarebbe preoccupato di non ricevere un mio messaggio della buona notte.

E detestavo l'idea, di non poter avvolgere quei suoi ricci ribelli fra le mani, col desiderio di domarli, senza mai riuscirci.

L'unica primavera che mi esplodeva addosso, era il mio cuore che non riuscivo a domare.

Correva all'impazzata, e non per via della stanchezza, ma per il senso di irrisolto che lo stava ingoiando.

Mi catapultai fra le lenzuola pulite del mio letto ancora intatto, cadendo in un sonno profondo, pronto a calmare il mio equilibrio instabile.
Ma quando aprì gli occhi, ero ancora più confusa di prima.

Vidi Marta al mio capezzale, aveva cercato di svegliarmi lei, ma non me ne ero neanche accorta.
Sapeva che non era da me, fare finta di non esistere, eppure quando succedeva, probabilmente volevo solo fuggire da ciò che non avevo il coraggio di affrontare.

Fabrizio era il primo di quella ipotetica lista, piazzata in cima alla mia testa.

«Ti ha chiamata chiunque...» Disse, passandomi il telefono.

«Anche Ermal Chiesi, spontaneamente.

«No ma lo ha fatto Fabrizio.» Rispose, stranita dalla mia domanda.
«Alla decima chiamata non ho resistito e ho risposto al posto tuo. Sta venendo qui.»

«Gli hai dato l'indirizzo?»
Chiesi, saltando fuori dalle coperte, iniziando ad agitarmi.

«Credevo ti facesse piacere.» Rispose Marta sulla difensiva.
Ero certa che tra poco avrebbe avuto inizio il suo interrogatorio, in cui mi chiedeva il perché, di quella mia reazione ingiustificata.

Non abbiamo armi {MetaMoro}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora