Prologo.

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Guardo la città sotto di me, mentre accendo la sigaretta. Case con la pittura scrostata, negozi con l'insegna luminosa, motorini parcheggiati nel peggiore dei modi, bambini con i palloni in mano...Beh, sì, questa è la mia città. Alle spalle riesco a sentire quasi il forte odore del mare e delle spezie.
Dannazione, mi mancherà tutto questo. Ma non posso restare.
Ho resistito fin troppo a lungo, ed adesso non ne posso più.

"A volte si ha bisogno di piangere, tesoro. Di strappare la sofferenza da dentro", mi diceva spesso mia madre, quando le chiedevo il perché dei suoi occhi lucidi e del suo trucco colato sulle guance.
Io non piangevo mai, a differenza sua.

Butto fuori il fumo, schiudendo le labbra. Una piccola nube mi impedisce di vedere il panorama sotto di me, per qualche secondo. Poi svanisce. Osservo le mie gambe. Sto davvero per farlo.
Avanzo di qualche passo.
La punta delle mie vecchie -e rovinate- Nike è oltre il cornicione del palazzo.
Chiudo gli occhi.

Sogni infranti, vetri rotti, pianti sotto la pioggia.
Sta per finire tutto.

«No!»
Un urlo alle mie spalle mi sorprende. Lasciatemi stare.
Mi spingo in avanti, ma qualcuno prontamente afferra il mio braccio destro, impedendomi di realizzare il mio obiettivo.

Finiamo per terra, uno sopra l'altra.
Questa ragazza, una sconosciuta, come ha fatto a vedermi? Sono le undici della notte ed ormai, l'attenzione delle persone vacilla.
I suoi occhi azzurri sono colmi di lacrime, mentre i suoi capelli neri come il carbone si confondono con il grigio dell'enorme tetto.

Sono immobile. Non so cosa dire, né che fare. Così, resto fermo, sotto il suo corpo minuto.
Fisso il cielo, dipinto di un blu intenso e macchiato da oro, le stelle. E poi guardo i suoi occhi.

«Sta' fermo», sussurra la ragazza. E poi, mentre un tonfo squarcia la tranquilla atmosfera, lei preme le sue labbra sulle mie.

E mi sento bene.
Ma probabilmente è uno stupido  sogno.

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